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Artico in agonia

Riccardo Graziano

I cambiamenti climatici interessano tutto il pianeta, ma in alcune zone sono più evidenti sia nell’entità, sia per le conseguenze. Fra i territori particolarmente colpiti dal surriscaldamento globale ci sono naturalmente i ghiacciai, sia quelli alpini, sia quelli di Artico e Antartico, ma anche le fasce climatiche sub-polari sono in sofferenza.
È di qualche settimana fa la notizia dell’ennesimo disastro ambientale avvenuto in quelle regioni, precisamente a Norilsk, nella penisola di Taymyr, nel nord della Russia. Qui, il 29 maggio scorso circa ventimila tonnellate di gasolio fuoriuscite dai depositi della NTEC (società del gruppo Nornikel) hanno contaminato il suoloe oltre venti chilometri di fiumi.
Le cause dello sversamento non sono chiare, vista la poca trasparenza con la quale trapelano le notizie da Mosca, ma sembra esserci una correlazione con lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno profondo perennemente ghiacciato che si trova nelle regioni caratterizzate da basse temperature lungo tutto il corso dell’anno. Infatti l’incidente sarebbe avvenuto, secondo l’azienda, a causa del crollo dei serbatoi provocato dal cedimento del permafrost sottostante, che si sarebbe liquefatto per via delle temperature insolitamente elevate dell’ultimo periodo.
Dal momento che la Procura locale ha aperto un’indagine penale sull’incidente, il riferimento allo scioglimento del permafrost potrebbe anche essere uno stratagemma strumentale del Nornickel Mining Group – principale produttore mondiale di nichel e palladio, a cui fa capo l’impianto oggetto dello sversamento – per cercare di evitare qualsiasi responsabilità attribuendo le cause del disastro a un fenomeno naturale, quale sarebbe secondo loro lo scioglimento del permafrost. Se questa strategia dovesse avere successo, non sarebbe certo la prima volta che un incidente ambientale di ampie proporzioni rimane senza colpevoli, con il danno ecologico ed economico che va a impattare sulla collettività anziché sui veri responsabili. In Russia c’è una ricca casistica in proposito, ma anche l’Italia non è certo da meno, come del resto la gran parte dei Paesi.
Ora, occorre sottolineare due fatti: il primo è che il permafrost si sta effettivamente sciogliendo in misura preoccupante, ma non si tratta di un fenomeno “naturale”, bensì dovuto al surriscaldamento globale provocato dall’effetto serra, a sua volta causato dalle emissioni antropiche dovute all’(ab)uso di combustibili fossili; il secondo è che – anche ammettendo che tale scioglimento sia alla base del cedimento dei serbatoi di combustibile – si tratterebbe comunque di una concausa, ma il grosso della responsabilità sarebbe in ogni caso di chi ha insediato un’attività produttiva altamente impattante in una zona fragile, senza monitorare in maniera adeguata l’evolversi della situazione.
In altre parole, se gestisci un impianto appoggiato sul permafrost, devi essere conscio del fatto che esiste la concreta possibilità che ti si squagli il terreno sotto i piedi, quindi devi controllare costantemente la situazione della consistenza del sottosuolo e delle fondamenta ed essere pronto a intervenire per evitare il collasso delle strutture. Cosa sarebbe successo se al posto dei serbatoi ci fosse stato un condominio? Avremmo attribuito la tragedia a cause naturali? Probabilmente sì, visto che lo facciamo in continuazione, in occasione di allagamenti, frane o altri eventi “naturali” dove invece è estremamente elevata la corresponsabilità dell’azione antropica, per esempio perché si insediano abitazioni o attività dove non si dovrebbe, come nel caso dell’impianto russo.
Vale la pena ricordare che già nel 2009 l’organizzazione ambientalista Greenpeace aveva ammonito sui “rischi per le infrastrutture dell’industria russa del petrolio e del gas, associati al degrado del permafrost a causa dei cambiamenti climatici”. La situazione era dunque già nota da tempo e non si può attribuire l’attuale disastro al fatto che negli ultimi mesi le temperature si sono alzate di circa 4°C sopra le medie locali. Inoltre, il fenomeno dello scioglimento del permafrost russo è un fatto assodato da anni. Approfittando dello scongelamento del terreno, alcune popolazioni dell’estremo nord hanno addirittura messo in piedi un commercio quantomeno singolare: quello dell’avorio delle zanne di mammuth, che riemergono dalla prigione di ghiaccio in cui erano rimaste sepolte per millenni e vengono recuperate e vendute (in genere per cifre ridicole) a commercianti che le indirizzano verso i mercati asiatici.
Ma tale commercio è ben poca cosa rispetto al cinismo dei petrolieri russi, che approfittano dello scioglimento della banchisa polare per installare nuove piattaforme petrolifere marine sempre più a nord, implementando l’industria dei combustibili fossili che è la principale causa del riscaldamento globale. In pratica, anziché contrastare il fenomeno che provoca i cambiamenti climatici, si agisce per accelerarlo. Del resto, la cosa vale anche per lo scioglimento del permafrost: il terreno ghiacciato per centinaia di migliaia di anni ha fatto da “tappo”, trattenendo nel sottosuolo milioni di metri cubi di gas metano, che ora invece fuoriesce proprio a causa dello scioglimento della copertura, disperdendosi in atmosfera. Il problema è che il metano, a sua volta, è un gas che contribuisce al riscaldamento globale in maniera rilevante, visto che la sua capacità di creare “effetto serra” è 25 volte più elevata di quella dell’anidride carbonica, dunque il ciclo riscaldamento/scioglimento del permafrost è un circuito che si autoalimenta e, conseguentemente, accelera.
Ne consegue che i cambiamenti climatici sono ancora più incombenti di quanto stimassero le previsioni e le loro conseguenze dirette e indirette sempre più devastanti. Tanto per dare un’idea, gli esperti hanno valutato che le barriere poste sui fiumi riusciranno a intercettare solo una minima parte delle ventimila tonnellate di gasolio fuoriuscito nell’incidente russo, mentre il resto degli idrocarburi inquinerà acque e suolo, con danni ambientali ingenti. Le città industriali di Norilsk e della regione di Krasnoyarsky hanno dovuto dichiarare lo stato di emergenza e i danni ai sistemi idrici della regione sono stati valutati in 77,5 milioni di euro, senza contare i costi della bonifica dell’ambiente contaminato.
I danni economici di questi “incidenti” crescono di pari passo con i danni ambientali e, esattamente come questi ultimi, ricadono sulla collettività, mentre gli inquinatori non vengono mai inchiodati alle loro responsabilità e continuano a fare soldi a palate. In realtà, se si applicasse il semplice principio “chi inquina paga” diventerebbe palese che l’industria dei combustibili fossili non è così conveniente come vogliono farci credere. O meglio, lo è per i petrolieri che incassano, ma non per tutti noi che ne paghiamo le conseguenze.

Tratto da Agendadomani (agendadomani.it)

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