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Brigitte Bardot, i modelli, la crescita e Greta

Riflessioni per il dopo pandemia

Valter Giuliano

Continuo a vedere, nelle pubblicità dei prodotti alla moda - abiti, profumi, automobili, alimenti dietetici... - modelle straordinariamente somiglianti a Brigitte Bardot o Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Jennifer Lopez....
Stereotipi della bellezza femminile; donne belle e attraenti che continuano a “funzionare” per l’immaginario collettivo facendo sognare. Piacciono, rappresentano un valore assoluto.
Sono riconosciute icone di un mondo a trazione maschilista che si permette di giudicare l’aspetto e il vestire di una grande professionista del nostro mestiere, la giornalista RAI Giovanna Botteri, oggi inviata a Pechino, il cui look semplice e spontaneo non apparirebbe adeguato a chi, spesso, trucca se stesso e anche la verità delle notizie che ci propina.
È il pensiero unico predominante che, quanto a informazione, non ci offre ormai che qualche residuale prospettiva.
Se l’informazione sui social è malata, quella della grandi testate tradizionali sta poco bene, compresa quella sedicente pubblica.
A tal proposito, continuo a sentire e a leggere nelle reti televisive e sui giornali più diffusi un unico coro che fa appello alla crescita.
Straordinariamente simile a quelli del boom economico e del lancio della società consumistica dei tempi di B.B....
Quello che Pier Paolo Pasolini definì efficacemente «sviluppo senza progresso».
Uno stereotipo del modello di sviluppo desiderabile che è stato assunto acriticamente e artificialmente a livello di un vasto arco politico, senza distinzione alcuna, pena l’esclusione dalla modernità. Ha contaminato, penetrando come un virus, anche coloro che, prima, proponevano uno schema alternativo - a dire il vero poco raccomandabile nelle più note declinazioni pratiche -  e che ben presto si sono rassegnati a quello vincente.
Bush e Teacher hanno indicato la rotta, Blair si è presto adeguato proponendo una terza via impercorribile, come lui stesso, troppo tardi, ha ammesso.
Così è nato il sistema unico che i cloni nazionali degli uni e dell’altro hanno supinamente accettato.
Le conseguenze le stiamo vedendo e pagando. Quel sistema è indubbiamente piaciuto.
Piacerà ancora? Qualche dubbio comincia ad affacciarsi.
Oggi rappresenta sempre di più, drammaticamente, per molti, un disvalore, un clamoroso errore di valutazione sulla strada per il futuro.
Che potrà esserci solo se si sapranno recuperare atteggiamenti più sobri e più attenti anche ai princìpi di giustizia sociale, essenziali nel modello perdente.
Occorrerà forse una sintesi, per progettare nuove prospettive, probabilmente altrettanto belle e gratificanti da vivere.
Sta alle nuove generazioni impegnarsi in questa direzione.
Noi possiamo solo continuare a suggerire i necessari cambiamenti radicali noti sin dall’inizio del Novecento.
La loro necessità si evidenziò, in maniera esplosiva, con la saggistica statunitense della prima metà degli anni Settanta, ampiamente ripresa anche in Italia.
Ma è stata dimenticata troppo presto. E per esorcizzare le verità che annunciava si sono istituite Giornate mondiale dell’Ambiente, Feste della Natura, Conferenze internazionali per l’Ambiente, Concorsi per la Forestazione mondiale, cCampagne per difendere ogni specie animale o vegetale.
Pur di distogliere l’attenzione dal fatto che il problema era ed è politico, di funzionamento della società, di rapporti tra le classi sociali, di disequilibrio intollerabile tra aree geopolitiche, di sfruttamento non più tollerabile - né in assoluto né nei metodi-  delle risorse del Pianeta.
Noi che veniamo da una storia eretica come quella dalla Pro Natura, senza mai cedimenti alle lusinghe di chi ci avrebbe volentieri accolti nel recinto della tollerata opposizione, queste cose le sappiamo bene perchè veniamo dalla scuola di Valerio Giacomini e di Dario Paccino.
Oggi, è evidente, stanno per schierare i loro armamenti (non necessariamente derivati dall’industria bellica, ma spesso dalla disponibilità di dati o da strategie finanziarie e di mercato) tutte le potenze del Pianeta, sulla mappa delle grandi regioni geopolitiche: Cinindia (unione di Cina e India); America (tra USA e Canada); Paesi Arabi del petrolio (fino a quando durerà); e, in subordine, nell’attesa di essere inghiottite, Russia, Giappone ed Europa. Con la Gran Bretagna che, lasciata l’Europa, sogna un aggancio agli Stati Uniti e il ricomporsi del Commonwealth con Australia e Nuova Zelanda, però poco influenti nello scacchiere internazionale.
In questo scenario restano terreni di scontro e di conquista il continente africano (diviso dall’area del Magreb), esposto alle mire espansionistiche turche e alle mire cinesi e il Sudamerica (percorso da tensioni contrapposte e reiterati attacchi da parte degli Stati Uniti, che vorrebbero farne una colonia, come decenni di promozione o sostegno a vari golpe militari testimoniano).
Ma su questo terreno lasciamo ad altri ipotesi di futuro che non siamo in grado di sviluppare. Di cui, tuttavia, siamo preoccupati perchè al prevalere dell’una o dell’altra parte, cambiamo i destini del Pianeta.
Che tuttavia resta, lo si voglia o no, insensibile ai poteri delle umane società, e risponde solo ad altre ancestrali regole cui noi, poveri umani, ci illudiamo di poter sfuggire.
Il virus avrebbe dovuto darci consapevolezza, riportando a terra la nostra arrogante presunzione.

Natura non vincitur nasi parendo / non possiamo comandare la Natura se non obbedendole (Francis Bacon, Novum organum).
Proprio così. Siamo, singolarmente, separate cellule che appartengono a una struttura più complessa che si sviluppa in famiglie; comunitaria per costituzione, sino all’appartenenza all’organismo biologico per eccellenza, la Terra.
È questa la condizione che abbiamo dimenticato e della quale dobbiamo tornare ad avere consapevolezza e coscienza.
La meccanica quantistica ci indica addirittura la nozione per cui ogni singola cellula di ogni vivente sarebbe in contatto, al di là degli umani concetti di spazio e di tempo, con ogni altra cellula: ma questa è già un’altra storia, buona per il futuro della ricerca. Scientifica e umanistica.
La decrescita infelice che in questi mesi, obtorto collo, si è imposta può essere occasione di rinascita che può ricondurci da un determinismo cartesiano a una nuova visione animistico-olistica. Abbandonare l’ossessione della crescita ai fini del solo profitto per rendersi conto che l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità, è responsabilità di tutti.
Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio della collettività.
Bisogna tornare, come nelle società arcaiche tradizionali, a comprendere la vera direzione verso cui muoversi, la stabilità.
Che non significa affatto immobilismo.
Oggi la proliferazione delle cellule che compongono la società umana è sempre più simile a quella delle cellule cancerogene, la cui finalità è, appunto, la crescita infinita.
Il risultato è drammaticamente noto: la distruzione dell’organismo che le ospita sino alla morte. Così è per gli uomini e il pianeta.
Ecco perché è necessario quell’immaginario, radicalmente nuovo, cui siamo invitati da Papa Francesco come da Greta and Fiends.
Bisogna premere il tasto Reset e avere la forza di ricominciare un nuovo percorso che azzeri l’arrogante presunzione che ci ha condotti all’attuale, insostenibile, situazione.
Bisogna diffidare dei richiami per le allodole, che per decenni ci hanno indotti in tentazione.
Come quelle della “Confindustria statunitense” disponibile a convertirsi al green, pur di continuare a fare profitti inseguendo la mutata sensibilità dei cittadini e dunque dei consumatori e quindi del mercato.
Una cosmesi ambientalista che non convince e che segue la precedente esperienza, datata anni Settanta, quando il mondo industriale si lanciò a capofitto nel business del disinquinamento, promettendo un Pianeta ripulito da chi lo stava avvelenando per garantirsi con l’equazione “inquinare per disinquinare”, ulteriori profitti.
Non ha funzionato. Non poteva funzionare.
Ecco allora che gli “ambientalisti per caso”, quando si passa all’azione - che per essere efficace non può che prevedere ricette radicali - fanno emergere i distinguo, i “non esageriamo” e il timore di “deriva ambientalista irrazionale” della società.
Eppure di irrazionale c’è solamente il continuare sul percorso sin qui seguito, perseverando nell’attuale modello di sviluppo. Che ci propone, con grande enfasi, scorciatoie semplicistiche e inefficaci: le bottigliette di alluminio e le sporte di tela in sostituzione delle plastiche, la mobilità elettrica in sostituzione dei combustibili fossili.
Accontentatevi.
«Così siete tutti ecologisti, in pace con le vostre coscienze», soffia il fiato fetido di morte di chi si oppone al vero cambiamento verso la sostenibilità.
Neppure piantare un albero a testa va a compenso della distruzione delle foreste tropicali o dell’intollerabile consumo di suolo; e non porta alcun risultato sensibile di riconversione ecologica.
Qualcuno ricorda l’albero da piantare per ogni nuovo bimbo nato?
E sa dare indicazioni sulla sua applicazione?
Spot per qualche pagina di giornale e di breve durata. Certamente azioni utili e segni di responsabilizzazione e di impegno nel prendersi cura della Terra. Ma, altrettanto certamente, inefficaci e inapplicate.
Per ritornare seriamente alla ragionevolezza, senza la quale il futuro della nostra specie sul Pianeta diventa incerto, non abbiamo bisogno di misure placebo, distrazioni propagandistiche. Ma di cure energiche. Pena l’inefficacia di azioni blande, buone solo per la propaganda e capaci unicamente di dilazionare il tempo della resa dei conti, ma non per affrontare seriamente, in maniera responsabile e alla radice, l’emergenza ecologica.
Intanto occorre superare lo sviluppo sostenibile, astuzia semantica che mette sullo stesso piano e tenta di conciliare le ragioni della crescita economica con quelle della salvaguardia della biosfera.
Poi farsi domande di futuro che, ad esempio, tornino a prendere in considerazione la crescita della popolazione a livello globale e la necessità di stabilire un equilibrio tra popolazione umana e risorse planetarie.
Altro che allarme per la crescita zero della popolazione italiana e incentivi alla procreazione!
Far nascere figli è un atto di consapevolezza e di responsabilità, oltre che un atto d’amore; non possiamo soggiogarlo ad aberranti logiche utilitaristiche seguendo le quali si debbono fare figli per garantire badanti gratuiti e sostegno alle pensioni per gli anziani.
La bomba demografica non è disinnescata e per poterlo fare bisognerà uscire da logiche locali per considerare quelle globali su cui navighiamo, ma che utilizziamo a seconda delle convenienze.
Ma su questo tema sarà opportuno tornare, anche per dare risposte a qualche movimento spontaneo che evocando la popolazione dei mari, in gravissima riduzione, ha pensato che sulla terra ci si trovasse in analoghe condizioni. Ha riempito le piazze, ma ora è bene che riempia anche i cervelli e le coscienze, di contenuti. Altrimenti rischia di emulare un altro movimento.
I problemi che abbiamo riguardano la Terra, non le stelle né il mare.
Cosa si frappone all’adozione delle misure radicali?
L’ignoranza, appunto.
Dei vari Bolsonaro, Trump e compagnia cantante.
Che si manifesta nelle loro dichiarazioni e nelle loro azioni. Improvvisazioni che sottraggono autorevolezza a quelli che dovrebbero essere i riferimenti di una Nazione e, a volte, dell’intero mondo.
Il potere politico, anche ai livelli più alti di rappresentanza è, oggi, irresponsabile. E non si rende conto di come le parole e le azioni che propongono scatenano pulsioni ed emulazioni nella coscienza dei popoli.
La classe politica, un tempo, era conscia di questa responsabilità.
Ora?
A giudicare da twitt, comparsate televisive, blog, parrebbe proprio di no.
Si liberano pensieri come se si fosse al bar tra amici o in casa all’ora del cazzeggio.
In realtà, si tratta di ignoranza associata a vuoto pneumatico di capacità di elaborazione di pensiero innovativo e dunque adeguamento al conformismo e irresponsabile complicità nel perpetrare la società del consumismo.
Pensiamo che la responsabilizzazione di noi tutti, attraverso azioni di pratica di sostenibilità quotidiana siano utili e necessarie; ma, altrettanto convintamente, le riteniamo non sufficienti e diamo ragione al movimento di Greta che tallona i grandi decisori mondiali della politica, dell’industria e della finanza, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e chiedendo di promuovere una vera e propria rivoluzione verde.
E rivoluzione significa cambiamento radicale, non essendo più adeguato il timido riformismo ambientale che ha segnato il percorso dalla prima Conferenza mondiale sull’ambiente di Stoccolma ’72 ad oggi: decine di Summit, di risoluzioni e di “agende” tanto utili e interessanti quanto inascoltate e inapplicate.
Non bastano richiami e suggerimenti che ci spingono verso azioni virtuose.
Sono necessarie ma non sufficienti. Come piantare un albero (mentre il Testo Unico Forestale facilita l’abbattimento dei boschi); raccogliere le cicche di sigaretta in spiaggia o nei parchi; utilizzare le bottigliette di alluminio in sostituzione della plastica inquinante, ecc.
Per porre rimedi seri al degrado del pianeta, nei fatti e non solo con le parole, la conversione degli atteggiamenti personali è condizione indispensabile ma da sola è perdente.
La risposta non può essere solo il richiamo alla responsabilità dei singoli, oggi più che mai condizionata dalla potenza della pubblicità.
Occorrono azioni politiche profonde di governo dello sviluppo in maniera autenticamente sostenibile da coordinarsi a livello globale.
Di questo è indifferibile prendere coscienza a dimensione planetaria, altrimenti i Summit, da Stoccolma 1972 a New York 2019, rischiano di non essere altro che inutili farse.
Destinate, ben presto, a volgersi in tragedia.

Perché si possa immaginare che un reale cambiamento possa realizzarsi, grazie anche alla necessità di riparametrare lo sviluppo oggi più che mai urgente, occorre il consenso dell’impresa e del mercato.
Ciò che oggi pensa l’imprenditoria nostrana è ben rappresentato dal pensiero terra terra del presidente di Confindustria Bari Bat, Sergio Fontana: «Non c’è felicità senza benessere e non c’è benessere senza produzione. (Non fatevi incantare dalle false sirene della decrescita felice...)».
Ma anche il nuovo Presidente di Confindustria nazionale non pare più illuminato. Falco e degno rappresentante degli im“prenditori”, vorrebbe continuare a distribuire dividendi agli azionisti e ricevere sostegni a fondo perduto dallo Stato, dunque da noi. Il vecchio sistema di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Tutti buoni a fare gli im-prenditori così.
In più ha evocato libertà di impresa durante la chiusura per la pandemia e ora chiede contratti aziendali e non nazionali.
Quando poi addirittura Avvenire, quotidiano di ispirazione cattolica, diretto dall’ottimo Marco Tarquinio, mette in prima pagina “Lavorare meno, tutti” (nel programma dei Verdi dall’inizio degli anni Ottanta), apriti cielo!
Liquidata come una provocazione.
Come quella della richiesta dello Stato di entrare temporaneamente nei Consigli di amministrazione delle aziende sostenute a fondo perduto per evitare almeno – com’è già accaduto - che incassati i contributi pubblici (cioè delle nostre tasse) delocalizzino licenziando in Italia per assumere là dove i diritti sindacali stanno a zero.
Come vorrebbero fare i nuovi latifondisti dell’agricoltura che sfruttano, a livello di schiavitù, i braccianti, senza neppure garantire loro un riparo.
Finché i vertici delle aziende – che sovente criticano la rappresentanza politica per incapacità di selezione - non saranno in grado di meglio selezionare le loro guide - scegliendo personaggi meno arcaici, gretti e ottocenteschi (perduranti “padroni del vapore”) - la dichiarata conversione ai temi ambientali e l’annunciata adesione ai principi dell’economia circolare continueranno a puzzare, lontano un miglio, di opportunistica, spudorata menzogna.
E non è infatti un caso che a fronte di quelle sospette conversioni, si continuino a sfornare prodotti ad obsolescenza programmata. Come se non produrre rifiuti o riciclarli fossa un po’ la stessa cosa.
Eppure trascorso il tempo dell’individuazione delle responsabilità, oramai ben conosciute, è giunto il momento di praticare soluzioni per le quali vi è la necessità di una grande e complessa alleanza tra politici, scienziati, agricoltori, industriali, lavoratori, studenti, commercianti, investitori...
Purché ognuno faccia atto di pentimento, riconosca gli errori e si ponga consapevolmente e responsabilmente a disposizione di un progetto di futuro diverso da quello che è stato sin qui praticato.
L’orizzonte è quello di dimostrare, nei fatti, che si può vivere meglio ed essere più felici consumando meno, liberandoci dal lavoro per poterlo ridistribuire insieme al tempo di vita, considerando comportamenti virtuosi che possano diventare anche convenienti e dunque praticabili come scelta politica valida per tutti e non solo per qualche persona motivata e illuminata.
Questo significa anche disertare, sino ad abolire, le guerre di potere che insanguinano il mondo creando perpetua insicurezza. Significa convertire le ingenti risorse destinate agli armamenti ad un grande piano globale internazionale per guarire la Terra, la nostra comune casa.
Già nel 1909 il Mahatma Gandhi spiegava i mali della civiltà moderna condannando lo sviluppo lineare e mettendo quella che si sarebbe manifestata come globalizzazione sul banco degli imputati. Inascoltato profeta.
Inascoltati anche gli appelli che, in questo tempo sospeso a causa della pandemia, si fanno strada per suggerire nuove strategie di futuro?
I decisori internazionali, molto probabilmente, per far fronte all’improvvisa e non prevista crisi, immetteranno sul mercato mondiale liquidità in quantità mai viste.
Per agire su un vero cambiamento epocale guai se tale liquidità finisse sul mercato finanziario speculativo o nelle mani di imprenditori come quelli che abbiamo prima citato.
Sarebbe impossibile ricominciare, se non sulle basi sbagliate, continuando sulla strada della decrescita infelice.
Quella concezione d’impresa è meglio lasciarla scivolare verso il fallimento, che era già insito nelle loro basi, indifferente al valore sociale del lavoro e tesa solo a massimizzare i profitti di una cerchia sempre più ristretta di persone disinteressati alla società sofferente chi li circonda.
Cadremmo dalla padella alla brace: il mercato finanziario cui ci siamo affidati ha già dimostrato di non essere all’altezza delle ultime sfide, a partire, ad esempio, da quella del 2008, quando si pensò di uscire dalla crisi con un grande trasferimento di risorse pubbliche alla finanza privata.
I risultati li abbiamo constatati.
Lo Stato paga, ma si pretende non abbia alcuna voce in capitolo nella gestione dei denari pubblici e non debba interferire sugli assetti di potere delle imprese che salva dal fallimento. Meno che mai mettere mano ai modelli di sviluppo che sono all’origine del collasso.
Singolare pretesa.
Più che mai, il tempo del corona virus ci pone di fronte alla domanda: deve essere il mercato che regola lo Stato o lo Stato che regola il mercato?. In quale delle due opzioni c’è più democrazia?
La risposta non è indifferente, anche per le questioni ambientali.

In arrivo, tosto o tardi, ci saranno da affrontare , infatti, le emergenze provocate dalla crisi ambientale planetaria.
Appare oggi evidente che sono le istituzioni del settore pubblico quelle rivelatesi cruciali e dunque da sostenere finanziariamente.
Bisogna cogliere questo momento per virare verso un’economia definitivamente sostenibile per davvero e inclusiva, con misure di salvataggio che ridimensionino il ruolo delle multinazionali del profitto e le depotenzino, impedendo il riacquisto di azioni proprie.
Da rivedere, infine, il rapporto tra pubblico e privato che il più delle volte si è rivelato essere più una collaborazione parassitaria che una vera simbiosi come avrebbe dovuto essere nelle intenzioni.
Forse è il tempo di reinterrogarsi sulla necessità di Stati imprenditori, almeno nei settori strategici per il bene pubblico che non possono essere abbandonati nelle braccia delle logiche di pura massimizzazione del profitto.
Si rischierebbe altresì che gli investimenti dello Stato, nella formazione e nella ricerca, sfocino poi unicamente in enormi profitti privati.
Gli investimenti pubblici debbono essere restituiti alla collettività che li ha generati, impedendo che i loro benefici siano privatizzati con l’unico obiettivo del profitto.
Sono storture oggi connaturate al sistema vigente.
È tempo di cambiarlo radicalmente. C’è l’occasione per farlo.
Finché siamo in tempo.
E purché si sia ancora in grado di mettere in atto una ribellione globale all’ingiustizia sociale su cui si regge oggi il sistema mondiale.
Viviamo tempi in cui siamo educati a un rassegnato e quieto servilismo, che tiene sotto controllo inquietudini e ribellioni, che toglie fiato anche alle opportunità di discussione sui modelli alternativi di società.
Se guardiamo all’arco dei partiti politici presenti in Parlamento, registriamo un appiattimento generalizzato e diventa davvero difficile scegliere sulla base di distinguo impercettibili che certo non prospettano idee diverse di futuro.
Le strategie della paura e del precariato hanno raggiunto il loro obiettivo, nelle scuole, nelle Università, nel mondo della ricerca, nelle istituzioni pubbliche: pensiero annullato, progressiva anestesia mentale dell’intera società.
Non si protesta, non si rischia, non si espongono idee diverse. Ha vinto il ricatto.
Anche la paura catastrofista della questione ambientale è strettamente legata a questa logica e diviene strumentale per assorbire ogni potenziale sovversivo presente nella società.
Che va invece nutrito nell’esercizio di una nuova visione del mondo, cui ci dobbiamo preparare se vogliamo assicurarci nuove prospettive di vita planetaria.
Il sistema va resettato e riconfigurato. Per essere radicalmente cambiato.
Uscendo dal determinismo cartesiano per riprendere una visione animistica sia pure depurata dalla superstizione delle antiche civiltà e ricondotta alla conoscenze scientifiche.
Ciò sarà possibile in un sistema liberale e capitalistico in cui le reali strategie appartengono non già alla politica, ma alle corporazioni e alle lobby che si sono ormai inserite nei gangli decisionali a causa di una politica sempre più debole per visione e per autorevolezza etica e morale?
Avremo la forza di far tacere le lobbies e la Borsa che oggi regolano le nostre vite?

E allora, che fare?
La debolezza della politica e dei Governi è evidente.
La democrazia è ormai una finzione.
Imprese multinazionali hanno bilanci che superano di gran lunga quelli degli Stati.
Molte di loro hanno in mano fette consistenti di debito pubblico.
Le decisioni non si prendono più nei Parlamenti, ma altrove.
E non a caso le lobbies indirizzano sempre di più la politica, decidono chi sono gli eletti e poi li pilotano verso comportamenti ad esse consoni.
Sono in pochi, ormai, a sfuggire a queste logiche perverse.
E occorrerebbe una rivoluzione globale per sovvertire il sistema vigente.
Basterà la pandemia per ridefinire il nostro futuro?
Nascerà un movimento capace di convincere i cittadini a riconvertire i loro comportamenti per garantire un futuro a quei figli che in questi mesi hanno protetto e di cui, giustamente, hanno reclamato diritti e libertà?
Sanno che se tutto tornerà come prima, quegli stessi figli non avranno garanzia né degli uni né dell’altra?
L’augurio è che il “tempo sospeso” del corona virus ci abbia dato l’opportunità di riflettere su ciò che conta davvero e su ciò che vogliamo per la generazione di Grata e dei suoi amici.

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