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Rinnovabili sì, ma sostenibili

Riccardo Graziano

Non c’è dubbio che l’unico futuro possibile per l’energia sia quello delle fonti rinnovabili, che dovranno sostituire progressivamente i combustibili fossili. Attenzione però, perché rinnovabile non è sinonimo di sostenibile, significa solamente che l’energia viene prodotta da fonti che non si esauriscono, come il sole e il vento. Ma questo non garantisce automaticamente la sostenibilità degli impianti. Anzi, proprio l’accelerazione della produzione da rinnovabili sta producendo storture già ben visibili, che dovremmo correggere per tempo, prima che la situazione degeneri e crei problematiche ambientali diverse da quelle delle fonti fossili, ma non per questo meno gravi.
L’esempio più classico è quello delle dighe, vere e proprie cesure imposte ai corsi d’acqua, che rischiano di alterare gli ecosistemi e di produrre squilibri idrici, come avvenuto con la storica Hoover Dam, che dal 1935 sbarra il corso del fiume Colorado fra Arizona e Nevada, formando il lago Mead. Gran parte delle sue acque e della corrente elettrica prodotta dall’impianto vanno ad alimentare i consumi della California e di Las Vegas, una delle città più energivore del mondo. Ma a causa di questi massicci prelievi, quello stesso Colorado capace di scavare una meraviglia della natura come il Grand Canyon, oggi arriva in Messico con una portata d’acqua talmente ridotta da non riuscire quasi più a sfociare in mare, perdendosi nelle sabbie della Baja California. Ciò ha provocato conseguenze sia ambientali, con la progressiva salinizzazione del delta del fiume, sia socio-economiche, per il pesante impatto che la carenza d’acqua causa alle popolazioni messicane la cui vita ruotava intorno al fiume.

Una situazione simile si sta creando oggi in Etiopia con la diga sul fiume Omo. A fronte di una produzione di energia che dovrebbe “modernizzare” il Paese consentendo la sua industrializzazione, si sono creati enormi svantaggi per le popolazioni a valle dell’impianto, che hanno visto ridursi considerevolmente la quantità d’acqua disponibile.
I primi a farne le spese sono stati naturalmente agricoltori e allevatori, ma anche i pescatori che lavorano nel lago Turkana, dove sfocia il fiume Omo, hanno visto le risorse ittiche crollare drammaticamente, in modo proporzionale all’abbassamento del livello del bacino lacustre. Si rischia un disastro ecologico come quello che ha sostanzialmente distrutto il lago di Aral e tutta l’economia che ci ruotava intorno.

Qualcuno si è chiesto se l’energia prodotta vale un simile costo? Se i posti di lavoro ipoteticamente creati dalla diga potranno compensare quelli che già sta mettendo a rischio? E se quelle popolazioni non più in grado di mantenersi “a casa loro” decidessero di migrare verso le nostre coste, con quale faccia tosta potremmo respingerli, dal momento che la diga l’ha costruita un’impresa italiana?
Queste domande, valide per tutte le grandi dighe e in particolare per quelle attualmente in progetto o in costruzione, possono essere ribaltate, con le dovute proporzioni, anche sul cosiddetto mini idroelettrico, forma di sfruttamento dei corsi d’acqua in rapido aumento che, a fronte di un apporto di produzione energetica trascurabile, rischia di creare seri danni ecologici. Il problema è particolarmente sentito nei Balcani, dove le proteste contro tali impianti si moltiplicano, ma esiste anche in Italia. Il fatto è che nel nostro Paese, non di rado, questi impianti godono di sussidi pubblici, il che solletica gli appetiti di certi imprenditori, diciamo così, poco sensibili all’ambiente. Il rischio è quello di snaturare corsi d’acqua ed ecosistemi con sbarramenti artificiali che, anche se di dimensioni molto inferiori a quelli delle grandi dighe, spezzano comunque la continuità dell’ambiente fluviale, con impatti pesanti dal punto di vista ecologico che non vengono in alcun modo compensati dall’infima quantità di chilowattora prodotti.

Discorso analogo può essere fatto per alcuni impianti eolici, piazzati in zone poco ventose solo per mettere le mani sui sussidi pubblici e grazie ad amministrazioni complici o perlomeno poco avvedute, che hanno concesso i permessi abbagliate dalla prospettiva di lauti guadagni mai concretizzati. La cronaca giudiziaria recente è costellata di casi di impianti fermi, con inchieste a carico di società opache, imprenditori discutibili e politici conniventi. Ma purtroppo ormai il danno è fatto, con assetti idrogeologici compromessi e paesaggi deturpati, specie sui crinali montuosi e collinari. Un danno che si sarebbe potuto evitare con un minimo di programmazione, dal momento che era ampiamente noto il fatto che la ventosità del nostro Paese è notevolmente più bassa di quella che, per esempio, permette alle nazioni nord-europee di produrre grandi quantità di elettricità grazie alle pale eoliche.
L’Italia, “paese del sole” per antonomasia, è piuttosto indicata per lo sviluppo del fotovoltaico, ma anche qui occorre fare attenzione, per evitare danni ulteriori oltre a quelli che già sono stati fatti. Intendiamoci, vanno benissimo gli impianti destinati all’autoconsumo, quelli che molte famiglie e anche qualche impresa hanno installato sopra ai propri tetti e che coprono almeno in parte i loro fabbisogni energetici. Ma il discorso cambia totalmente per i cosiddetti impianti “a terra”, quelli con i pannelli posizionati sul suolo, destinati a sottrarre terreno fertile all’agricoltura o a deturpare zone paesistiche di pregio.

I pannelli solari non devono assolutamente entrare in competizione con agricoltura e pastorizia, soprattutto non devono inficiare in alcun modo la capacità di un suolo naturale di fornire i cosiddetti servizi eco-sistemici, dalla cattura dell’anidride carbonica tramite la vegetazione spontanea alla captazione delle acque piovane con successiva azione di filtraggio verso le falde acquifere sotterranee. Piuttosto, il fotovoltaico dovrebbe finalmente entrare in modo massiccio nei centri urbani, o comunque dove il suolo è già stato compromesso dalla cementificazione che caratterizza il nostro modo di intendere lo “sviluppo”. Tra l’altro, così facendo si toglierebbero argomenti a certi individui che si scoprono ambientalisti quando possono denunciare lo “scempio” di pannelli fotovoltaici che vanno a ricoprire terreno vergine, ma che stranamente non dicono mai nulla quando i medesimi terreni vengono cancellati da colate di cemento e asfalto destinate a nuovi centri commerciali con relativi mega parcheggi, raccordi stradali costellati di rotonde, capannoni destinati all’abbandono e così via.

I tetti dei condomini sono un luogo ideale per posizionare i pannelli, specialmente in meridione, ovviamente privilegiando quelli esposti a sud. Un’opzione praticabile anche nei centri storici, di cui l’Italia è costellata, purché con soluzioni (peraltro già disponibili) che rendano minimo l’impatto visivo, per non alterare l’omogeneità storico-artistica del paesaggio urbano. Vale la pena ricordare che, grazie a una modifica normativa introdotta nel 2012, anche un singolo condomino può installare pannelli solari sul tetto condominiale per il proprio uso personale, naturalmente occupando solo una porzione corrispondente ai propri millesimi di proprietà. Tuttavia, sarebbe opportuno che tali iniziative venissero prese collegialmente, dunque sarebbe di grande utilità una normativa ad hoc su base nazionale che incentivasse e al tempo stesso regolamentasse l’installazione di pannelli destinati a coprire almeno in parte le esigenze del condominio o del nucleo urbano, minimizzando la necessità di ricorrere all’energia prodotta dalle centrali.
Inoltre, impianti solari (ed eolici, dove c’è vento sufficiente) possono essere installati nelle zone industriali attive o dismesse, nei grandi centri commerciali, o anche nelle zone portuali, come sta avvenendo a Porto Torres, dove è prevista l’installazione di pannelli fotovoltaici in grado di produrre 51 GWh in un anno.
Qualcuno ha calcolato che l’area coperta da fabbricati idonei a ospitare impianti fotovoltaici, anche se distribuita a macchia di leopardo, sia complessivamente pari al 7% del territorio nazionale, un’estensione paragonabile a quella dell’Umbria, senza intaccare nuovo suolo o deturpare paesaggi o manufatti di pregio. Se si riuscisse a incentivare l’installazione di pannelli solari su tali edifici con una normativa valida a livello nazionale, che eviti il consumo di suolo e tuteli il patrimonio storico-artistico e naturalistico, sull’esempio di quanto il Ministero dell’Ambiente ha già fatto con tre Regioni all’avanguardia (Puglia, Toscana, Piemonte) potremmo implementare una produzione energetica non solo rinnovabile, ma anche sostenibile, perché ottenuta senza impattare su agricoltura, paesaggi ed ecosistemi.

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