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Ripartire, ma in modo sostenibile

Riccardo Graziano

Siamo arrivati alla “Fase 2”, quella della ripartenza. Tutti la chiedevano a gran voce, per la necessità, l’urgenza, la smania di tornare a produrre, consumare, o almeno uscire di casa. Perché il Paese, si dice, ha voglia di tornare alla “normalità”. Ma di quale “normalità” parliamo? Quella di prima? Siamo proprio sicuri?

Il 15 maggio, alla vigilia della partenza della “Fase 2”, a Porto Marghera è esplosa una fabbrica chimica: bilancio, 6 feriti di cui due gravi e grande nube tossica sull’abitato che costringe i cittadini a tapparsi in casa per non respirare veleni. Tanto per ricordarci cos’era la nostra “normalità”: incidenti sul lavoro, inquinamento, rischio disoccupazione. E una crisi economica iniziata ben prima del blocco forzato causa pandemia, con tagli allo stato sociale e sacrifici quotidiani. Senza dimenticare riscaldamento globale, perdita della biodiversità e inquinamento da plastiche, reso oggi ancora più grave dalle tonnellate di dispositivi di protezione monouso da smaltire. Ecco, questa era la nostra “normalità”, nel caso ce lo fossimo scordato.
La crisi sanitaria, la più grave da un secolo, ha colpito duro. E le sue conseguenze peseranno a lungo. Ma, paradossalmente, ci ha dato un’opportunità, quella di ripartire sì, ma in modo nuovo, diverso, più sostenibile. Come se avessimo resettato il nostro “sistema operativo”. Ne saremo capaci, ne usciremo davvero migliori?
Forse, ma una cosa deve essere chiara: non ci sono alternative, o ne usciremo migliori, o non ne usciremo affatto. Perché il modello di sviluppo portato avanti finora è giunto ai limiti della sostenibilità, non può più reggere. Anzi, possiamo affermare che le sempre più frequenti epidemie degli ultimi anni sono fra le conseguenze del nostro eccessivo sfruttamento del pianeta, in particolare della deforestazione e del cambio d’uso dei suoli, fattori che ci mettono a contatto con virus sconosciuti.
Vale la pena dunque riflettere su come impostare la ripartenza su basi nuove, in ogni ambito. Adottando un nuovo paradigma produttivo, con la consapevolezza che tecnologie e prodotti obsoleti dovranno essere messi da parte, naturalmente tutelando o riconvertendo i lavoratori coinvolti, per evitare un aumento esponenziale della disoccupazione, destinata fatalmente a crescere. Del resto, momenti traumatici come questo si sono già presentati nella Storia, con impatti notevoli: Rivoluzione industriale, automazione, digitalizzazione…
Ora siamo nuovamente di fronte a una svolta che imporrà necessariamente delle scelte, a volte dolorose. Proviamo a fare qualche considerazione.

Innanzitutto, nonostante la narrazione in termini bellici che se ne è fatta, ricordiamoci che questa non è una guerra, è un’epidemia. Sono innumerevoli e insistenti le voci che chiedono di togliere vincoli e azzerare le procedure per poter cominciare subito a costruire, per dare impulso all’edilizia. Ma questo poteva avere un senso nel dopoguerra del secondo conflitto mondiale, in un’Italia rasa al suolo da bombe e cannonate, dove case, fabbriche, ponti e strade erano ridotti in macerie. Oggi le costruzioni sono intatte, ma le macerie rischiamo di essere noi.
Quindi, ciò che occorre veramente è una politica – ma soprattutto un’economia – che rimetta al centro la persona, garantendo nuovamente uno stato sociale degno di tale nome, a partire dalla Sanità pubblica, di cui abbiamo capito la centralità strategica e ineludibile. Occorre riprendere ad assumere personale medico, infermieristico e ausiliario, creando migliaia di posti di lavoro veri, orientati alla cura e al benessere di una popolazione che invecchia sempre di più.

Discorso analogo sul versante opposto dal punto di vista generazionale, quello dei bambini e ragazzi, con interventi straordinari in ambito scolastico, sia sulle strutture, sia sulla didattica. Occorre prevedere interventi di ristrutturazione sul patrimonio edilizio scolastico, spesso obsoleto, a volte fatiscente, approfittandone per riqualificare gli edifici dal punto di vista energetico e tenendo conto delle nuove esigenze della didattica, compresa quella del mantenimento delle distanze. Parallelamente, occorrerà implementare il corpo docenti – come sembra essere nelle intenzioni dello stesso Governo – e rivedere i programmi didattici, per preparare i cittadini di domani ad affrontare un mondo fatalmente diverso da quello attuale.
Certo, per fare questo occorrono investimenti ingenti, ma potremmo recuperarli congelando almeno momentaneamente quelle “grandi opere” che magari non sono così strategiche come sostiene certa propaganda non proprio disinteressata. O meglio ancora, tagliando una parte di quei 26 miliardi che destiniamo alle spese militari, visto che le epidemie si curano con gli ospedali, non con i carri armati, e che per far ripartire il Paese occorre creare posti di lavoro, non bombardare da qualche parte…  
Difficile, in un Paese che in tempo di quarantena ha immediatamente chiuso scuole, musei, cinema, teatri e tutto quanto avesse a che fare col settore “cultura”, ma ha tenuto costantemente in attività le industrie belliche, evidentemente ritenute necessarie quanto il comparto alimentare o la logistica. Ma, appunto, questa crisi drammatica potrebbe essere l’occasione buona per invertire la rotta in molti settori.

Prendiamo l’edilizia, da tempo in sofferenza: per garantirne la ripresa in modo sostenibile e duraturo, occorre rivedere profondamente le logiche con cui si è proceduto finora, perché il modello portato avanti negli ultimi decenni sta mostrando tutti i suoi limiti, come evidenziano i dati numerici.
L’ISTAT ha stimato che nel nostro Paese ci sono oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi vuoti. A fronte di un tale patrimonio immobiliare inutilizzato, con un Paese che non cresce né dal punto di vista demografico, né da quello produttivo, non ha senso continuare a costruire. Eppure il Piemonte, una delle Regioni più colpite dal contagio, ha appena emanato una legge che sembra scritta apposta per facilitare ulteriore cementificazione, un’offerta immobiliare che verosimilmente resterà priva di domanda, peggiorando la situazione delle imprese invece di migliorarla.
Per contro, appare più sensata la direzione intrapresa dal Governo, con il decreto che prevede un incentivo del 110% a favore di chi riqualificherà il proprio immobile soddisfacendo alcuni requisiti specifici. Attualmente, salvo modifiche in fase di conversione in legge, occorre realizzare almeno uno dei due “interventi trainanti”, ovvero, semplificando, “cappotto termico” e/o sostituzione caldaia, ai quali si possono aggiungere altri interventi (quelli già previsti nel bonus 65%, per esempio) con l’obiettivo di guadagnare (almeno) due categorie energetiche. Se si soddisfano questi parametri, in pratica si viene pagati dallo Stato per rendere più energeticamente efficiente la propria casa, il che consente un risparmio immediato in bolletta, oltre a diminuire le emissioni inquinanti. E, naturalmente, si crea una marea di opportunità di lavoro per le imprese edili, senza consumare un solo metro di territorio per nuove costruzioni.

Altrettanto rilevanti sarebbero gli interventi antisismici, volti a prevenire quelle tragedie alle quali troppo spesso abbiamo assistito, anche per terremoti di lieve entità. Discorso analogo può essere fatto per i rischi idrogeologici, da frane e alluvioni. E l’elenco potrebbe continuare: recupero di borghi e centri storici in abbandono; riconversione di aree industriali dismesse; messa in sicurezza del territorio; ripristino delle reti idriche “colabrodo”; bonifica delle aree inquinate e altro ancora.

Intervenire sugli edifici esistenti presenta dunque molti vantaggi, senza dimenticare l’imperativa necessità di azzerare il consumo di suolo, vitale non solo per il comparto agricolo, ma per i numerosi servizi eco sistemici che offre, dal filtraggio delle acque piovane alla cattura di anidride carbonica: aspetti che, oltre all’indubbia valenza ambientale, hanno anche ricadute economiche rilevanti, che qualcuno ha quantificato in milioni di euro all’anno.
In sostanza, ripartire in modo sostenibile dopo questa emergenza, rispettando le persone e l’ambiente, non soltanto è doveroso, ma conviene.

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