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Spillover: bloccare il commercio di fauna selvatica per bloccare i salti di specie

Ettore Randi (UBN e UniBO)

La pandemia del nuovo coronavirus SARS-CoV-2, individuato all’inizio di gennaio 2020 nella città cinese di Wuhan (Hubei), ha scatenato la malattia chiamata COVID-19 che sta infettando più di 7.300.000 persone, uccidendone almeno 416.000 (alla data del 11 giugno 2020; fonte: https://www.nytimes.com/interactive/2020/world/coronavirus-maps.html). Ora sappiamo che in realtà il virus era già diffuso nella regione dell’Hubei almeno da dicembre 2019 o probabilmente anche da prima. I primi casi di gravi polmoniti virali in persone che frequentavano il Huanan Seafood Market di Wuhan vennero segnalati a fine dicembre. La reazione iniziale del governo cinese ha avviato una lunga e nefasta serie di negazionismi e di sottovalutazioni. Il medico che per primo allertò sui rischi della nuova epidemia venne accusato di diffusione di false notizie e denunciato dalle autorità locali. Poche settimane dopo il dottor Li Wenliang, tardivamente riabilitato, è stato ucciso dal COVID-19. Agli inizi di gennaio un laboratorio cinese sequenziò per la prima volta il genoma del SARS-CoV-2, isolato da un campione biologico raccolto il 26 dicembre da uno dei primi malati a Wuhan. La sequenza venne immediatamente pubblicata ed usata da alcuni laboratori per sviluppare i test molecolari, i cosiddetti “tamponi” (in pratica, prelievi di muco da naso e gola da cui estrarre RNA virale che viene identificato tramite una specifica reazione di PCR, metodologia a basso costo, ormai diffusissima nei laboratori biologici e medici in tutto il mondo). La Germania si attivò per prima in Europa e già a metà gennaio poteva avviare quegli screening epidemiologici anche grazie ai quali la sanità tedesca è riuscita a tenere sotto controllo la diffusione della malattia ed a contenere la mortalità. Sfortunatamente altri paesi hanno reagito molto più lentamente, dapprima ignorando poi negando i rischi sanitari e sottovalutando le implicazioni economiche della malattia. Oggi ne vediamo tutte le conseguenze, anche in Italia, il primo paese dopo la Cina a subire una diffusione massiccia di SARS-CoV-2. Sarà interessante ricostruire perché, nonostante le evidenze, sono dovuti passare quasi due mesi prima che i flebili allarmi degli epidemiologi venissero presi sul serio dai nostri governanti e governatori.

Successivamente, di fronte a situazioni di rapido degrado sanitario ed economico, è stata lanciata una nuova campagna di distrazione di massa. Utilizzando una forma di comunicazione già sperimentata in passato per giustificare eventi bellici, si è incolpata la Cina di avere “liberato” un virus costruito in laboratorio. In attesa delle “prove” ripetutamente promesse ma mai fino ad ora presentate, potremmo anche ipotizzare che la sequenza molecolare del virus conservi tracce di origini artificiali o di manipolazioni in laboratorio. Tuttavia, non esistono evidenze a sostegno di questa ipotesi, negata peraltro da tutti gli scienziati esperti, con la notevole eccezione del Nobel (!!!) no-vax e pro-papaya Luc Montagnier. Oppure possiamo ipotizzare che il virus sia di origine naturale, portato e poi coltivato in laboratorio e da lì sia accidentalmente sfuggito. La storia delle precedenti epidemie virali scoppiate dal secondo dopoguerra registra qualche episodio di contaminazione accidentale (per es. di Ebola) nei laboratori di virologia. Per quanto ne sappiamo questi eventi drammatici sono stati individuati e contenuti rapidamente, anche se in alcuni casi le persone contaminate sono decedute. Non possiamo escludere a priori che qualcuno si sia accidentalmente infettato, per es., nei laboratori del Center for Emerging Infectious Diseases all’Istituto di Virologia di Wuhan, a circa 20 km dal Seafood Market, e che abbia avviato il contagio. Ma al momento non esistono prove.

Perché questi sospetti? Perché all’Istituto di Virologia lavora un team di ricercatori diretto dalla dottoressa Shi Zhengli che, fra l’altro, ha scoperto l’origine del coronavirus della prima SARS, la precedente grave epidemia del 2002. I ricercatori del gruppo da anni esplorano le grotte in Cina, raccogliendo migliaia di campioni biologici di pipistrelli alla ricerca dei virus. Qualche anno fa da questi campioni sono stati isolati coronavirus con genomi molto simili, ma non identici, al coronavirus della prima SARS, confermando l’ipotesi, oggi sostenuta da moltissimi dati, che i chirotteri siano uno dei principali serbatoi naturali di virus. Anche le sequenze genomiche del nuovo coronavirus SARS-CoV-2 sono molto simili, ma non identiche a coronavirus trovati in pipistrelli della specie Rhinolophus affinis campionati del sud della Cina (Yunnan) nel 2013 e conservati nei laboratori dell’Istituto. Il genoma di questo di coronavirus presenta il 96% della sequenza identica al nuovo SARS-CoV-2. Il SARS-CoV-2 evolve abbastanza lentamente, rispetto ad altri coronavirus, ma comunque un 4% di differenza corrisponde a circa 30-50 anni di divergenza da un comune antenato. Quindi è impossibile che il virus di Wuhan sia sfuggito dal laboratorio dell’Istituto. Oppure è possibile, ma resta tutto da dimostrare, che l’Istituto abbia in laboratorio il virus di Wuhan, ma non lo dica. In ogni caso ad epidemia domata sarà benvenuta l’indagine di una commissione internazionale, come deciso dal WHO con l’assenso del governo cinese. Vedremo. Intanto non abbiamo alcuna prova che il SARS-CoV-2 sia sfuggito da un laboratorio. Si ripropone quindi il problema dell’origine naturale del virus e dello spillover, il salto di specie.

Circa il 60% delle mattie infettive che ci colpiscono sono definite zoonosi, cioè sono prodotte da microorganismi che hanno serbatoi in popolazioni naturali o allevate di animali (quasi sempre vertebrati), e che ad un certo punto fanno il salto di specie e ci infettano. Per esempio, alcune specie di pipistrelli del genere Miniopterus sono i più probabili serbatoi dei virus Ebola che però sono trasmessi all’uomo tramite altri ospiti intermedi, principalmente gorilla e scimpanzé. Le dinamiche dei salti di specie sono complesse e spesso di fatto ignote. Ma l’ipotesi del salto di specie è necessaria per spiegare le distanze genetiche fra i genomi dei patogeni campionati in natura, molto spesso appunto nei pipistrelli, ed i genomi simili, ma mai identici che infettano l’uomo. Il salto di specie è necessario per spiegare la divergenza fra i virus nei serbatoi naturali e nell’uomo, ma è difficile individuare gli ospiti intermedi. Così è stato per il presunto salto di specie ipotizzato per la prima SARS: dai pipistrelli all’uomo tramite popolazioni allevate di civetta delle palme (Paguma larvata), che non è un uccello ma è un mammifero viverride, parente degli zibetti e delle genette, ampiamente distribuito in Cina e in Sud-Est asiatico. Paguma è un cibo molto apprezzato dai consumatori asiatici, servito anche nei ristoranti. E’ una specie onnivora e arboricola che può facilmente entrare in contatto con le colonie di pipistrelli. E’ cacciata e anche allevata a scopo alimentare in Cina e in Vietnam. Gli allevamenti in aree rurali non sono in alcun modo protetti e gli animali possono facilmente entrare a contatto con deiezioni di pipistrelli. Paguma ed altre specie di civette (genere Paradoxurus) ospitano corona- ed altri virus. Ma non si è mai potuto dimostrare che ospitino coronavirus esattamente identici al primo SARS umano. Inizialmente, sulla base di uno studio di genetica ed evoluzione molecolare dei coronavirus infarcito di errori, perciò molto criticato, ritirato prima della revisione e mai pubblicato, si ipotizzò che alcune specie di serpenti molto appetiti in Cina, venduti nei mercati e nei ristoranti, potessero essere i candidati ospiti intermedi. Venuta meno quest’ipotesi si è poi suggerito che i pangolini malesi (Manis javanica) potessero essere le specie del salto. Mentre è dubbio che vertebrati eterotermi (a sangue freddo, come i rettili) possano ospitare virus in grado di infettare gli umani, è più plausibile che i pangolini possano farlo. Ma anche quest’ipotesi al momento resta tutta da dimostrare.

Mentre le catene di trasmissione naturale dei coronavirus restano aperte ad interpretazioni e necessitano di evidenze empiriche, sono più chiare le condizioni in cui avvengono le infezioni umane. Occorrono contatti fisici o molto ravvicinati far gli ospiti intermedi e gli umani. E i cosiddetti wet market e i wildlife market cinesi e del Sud-Est asiatico sono i luoghi dove questi contatti avvengono. Come è noto, in questi mercati, molto popolari in Asia, animali e vegetali vengono venduti in condizioni igieniche inesistenti ed in grande promiscuità con venditori ed acquirenti. Gli animali selvatici: insetti, pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, quasi sempre sono esposti vivi, accanto agli animali domestici (pollame, capre, maiali, ma anche gatti e cani in abbondanza) e macellati direttamente sul posto. I wildlife market vendono non solo selvaggina, ma anche animali domestici. I wet market vendono non solo molluschi, pesci e rane, ma anche selvaggina e animali domestici. Questi mercati sono wet perché sangue, deiezioni, visceri ed altri scarti di macellazione si mischiano nei pavimenti e sulle gabbie contaminando venditori ed acquirenti. I wet market sono veri e propri supermercati delle moderne epidemie virali che trovano condizioni ottimali di diffusione in città abitate da decine di milioni di umani per poi infettare tutto il mondo grazie alla globalizzazione dei viaggi aerei. Questa coesistenza di condizioni arcaiche: mercati privi di ogni minima condizione igienica, e di realtà moderne: agglomerati urbani ad altissima densità di popolazione e globalizzazione dei trasporti, hanno creato le condizioni per cui spillover e pandemie costituiscono rischi incombenti.

Che fare? Sappiamo che i cambiamenti climatici, la deforestazione, la distruzione degli ambienti naturali e della biodiversità hanno creato le condizioni di contorno che facilitano i salti di specie e rendono invitabili le pandemie. Ma per elaborare efficaci strategie di prevenzione occorre andare nel dettaglio. Premettendo che le generalizzazioni sono difficili, per mancanza di conoscenze e perché ogni epidemia presenta caratteristiche proprie, possiamo focalizzare negli allevamenti intensivi o rurali, e nei mercati alimentari i punti critici su cui intervenire con urgenza. Dopo la SARS e il COVID-19 non possiamo continuare a pensare che i salti di specie siano solo problemi locali che riguardano altre regioni del mondo. Anche se le regioni tropicali del Sud America, dell’Africa e del Sud Est asiatico sono le zone d’origine di buona parte delle zoonosi, le dimensioni delle popolazioni umane e le interconnessioni fra tutte le aree della Terra rendono inevitabile la diffusione dei contagi. Il bushmeat costituisce una  fonte alimentare indispensabile alle popolazioni indigene. A certe condizioni il consumo di selvaggina non produce epidemie diffuse nelle popolazioni che vivono isolate a bassa densità. Ciò nondimeno il tradizionale consumo di cibo selvatico dovrebbe essere più attentamente controllato, anche per limitare il prelievo di specie protette. Al contrario i wildlife market urbani sono pericolosissimi, dovrebbero essere controllati e strettamente regolamentati, oppure chiusi. Quando le tradizioni ancestrali sono trasposte negli attuali contesti di deforestazione, degrado ambientale e urbanizzazione, esse sopravvivono solo come espressioni degradate di forme commerciali ed alimentari appartenenti ad epoche definitivamente passate. Non possiamo continuare sostenere che i wet market costituiscono tradizioni locali e fonti di reddito insostituibili. Nel mondo globalizzato quei paesi che stanno diventando le prime economie del Pianeta non possono ignorare il bracconaggio e sostenere che l’allevamento incontrollato ed il commercio a scopo alimentare di animali selvatici siano fonti di reddito insostituibili.

I chirotteri comprendono il 20% di tutte le specie note di mammiferi, sono diffusissimi e protetti quasi ovunque perché svolgono servizi ecosistemici indispensabili. Il prelievo ed il commercio di pipistrelli a scopo alimentare dovrebbe essere bandito ovunque. Lo stesso vale per i pangolini, specie che in Africa ed Asia subiscono le conseguenze del traffico illegale non solo a scopo alimentare, ma soprattutto per la medicina tradizionale. Conosciamo otto specie di pangolini: quattro distribuite in Africa e quattro  in Asia. Sono tutte specie protette, due a rischio critico di estinzione, le altre a rischio o vulnerabili. Tutte le loro popolazioni sono declinanti principalmente a causa del prelievo per la carne e per le scaglie. Il WWF e la CITES ritengono che i pangolini siano le specie animali soggette alla maggior pressione del commercio illegale, con almeno un milione di esemplari prelevati negli ultimi 10 anni. I pangolini africani sono prevalentemente venduti ai mercanti asiatici per le scaglie, che valgono 3.000 $ al kg e che vengono lavorate e commercializzate dall’industria della medicina tradizionale cinese e vietnamita pur non avendo alcun potere curativo. In Cina è legale prescrivere ricette a base di polvere di scaglie ed il consumo è stimato in 25 tonnellate all’anno. I rischi di ricorrenti pandemie sollecitano una rimodulazione delle leggi e delle azioni per il controllo del commercio delle specie selvatiche protette. E’ urgente che la CITES (la convenzione di Washington, Convention on International Trade of Endangered Species) decida di iscrivere i pangolini nella Appendice 1, che include le specie ad alto rischio di estinzione delle quali è vietata ogni forma di commercio.

Si stima che in Cina il commercio di selvaggina, cacciata o allevata, destinata alla medicina tradizionale valga 76 miliardi di $/anno. Nel 2017 il solo allevamento di selvaggina per la medicina tradizionale valeva 7 miliardi di $. Questi sono i dati ufficiali, che non tengono conto delle attività illegali che potrebbero valere molto di più, soprattutto se si includono altri prodotti animali “di pregio” come i corni di rinoceronte, le ossa di tigre o la bile di orso nero asiatico. La bile viene estratta in maniera crudele da orsi detenuti in gabbia in condizioni abominevoli. In pratica nessuno dei farmaci di origine animale ha mai dimostrato di produrre gli effetti benefici desiderati. Ma il loro consumo persiste ed aumenta, anche sostenuto da indicazioni ufficiali del governo cinese. Infatti, nel corso di questa epidemia di COVID-19 una nota ufficiale del governo ha consigliato l’uso della bile come rimedio per i casi di COVID-19. In febbraio il governo cinese ha bandito temporaneamente il commercio di selvaggina a scopo alimentare. Le ONG cinesi ed internazionali hanno chiesto all’IUCN di agire perché questi divieti temporanei diventino permanenti. L’IUCN ha stilato una bozza di mozione (https://www.iucncongress2020.org/motion/108) ed ha aperto una discussione interna verso una presa di posizione che, in conseguenza della pandemia, è stata posticipata al prossimo gennaio 2021 quando si terrà il Congresso Mondiale dell’Unione. La bozza di risoluzione è controversa e suscita qualche perplessità perché lascia trasparire l’idea che il consumo di specie animali minacciate non debba essere vietato, ma semplicemente limitato sulla base di valutazioni di sostenibilità e dell’individuazione di prodotti ottenuti in modo alternativo fra cui l’allevamento. In problemi però non mancano. Per esempio, già oggi il numero di tigri allevate per i mercati della medicina tradizionale supera il numero di tigri in natura, ma non ne riduce i rischi dovuti al prelievo illegale anche di animali vivi da vendere a caro prezzo agli allevatori. Mentre le valutazioni di sostenibilità lascerebbero aperta la porta a innumerevoli abusi, l’individuazione di prodotti alternativi sembra più rassicurante. Infatti in molti casi sono già disponibili prodotti vegetali o prodotti di sintesi alternativi ai prodotti animali usati in medicina tradizionale.

La diffusione di specie aliene è correlata al traffico di specie protette ed il commercio è fiorente anche tramite siti web oscuri, ma più o meno accessibili a tutti. Il problema del commercio di selvaggina a scopo alimentare o curativo si ricollega al tema più generale della diffusione delle specie aliene invasive, di cui solo recentemente si occupano i primi accordi internazionali, come il Cartagena Protocol on Biosafety, le Direttive EU sul mare e gli ambienti acquatici e la EU Regulation 1143/2014 on Invasive Alien Species, recentemente recepita dall’Italia, accordi che restano ancora purtroppo poco applicati. Il controllo degli allevamenti di selvaggina e la chiusura dei wet e wildlife market sono obiettivi prioritari. Gli allevamenti rurali di selvaggina, spesso in presenza di animali domestici (maiali, pollame) e di gatti e cani, sono esposti a contatti con chirotteri ed anche con gli allevatori. In Indonesia sono noti sette principali wildlife market nelle isole di Java, Sumatra, Bali e Sulawesi, anche se certamente esistono numerosi altri piccoli mercati locali. Complessivamente i wildlife market indonesiani vendono decine di milioni di uccelli prelevati illegalmente e centinaia di migliaia di chirotteri, rettili e mammiferi, quali: cuscus (piccoli marsupiali arboricoli), anoa (raro bovide endemico di Sulawesi, a rischio di estinzione), cinghiali selvatici endemici e babirussa, cervi, varie specie endemiche di macachi. A seguito del COVID-19 i governi cinese, indonesiano e vietnamita hanno imposto la chiusura temporanea di alcuni mercati e la proibizione di vendere pipistrelli e pangolini (peraltro già prima protetti). Ma dopo poche settimane i mercati sono stati riaperti e comunque le locali organizzazione protezioniste ritengono che i controlli siano sempre insufficienti. Anche le ONG internazionali si sono attivate per sollecitare urgenti e più rigorosi interventi governativi. Citiamo per tutte  gli appelli del WWF international (A Global Call to Action on COVID-19 and Wildlife Trade; wwf.panda.org) e della Wildlife Conservation Society (https://www.wcs.org/get-involved/updates/a-primer-on-the-coronavirus) che raccomanda: “To prevent future major viral outbreaks such as the COVID-19 outbreak, impacting human health, well-being, economies, and security on a global scale, WCS recommends stopping all commercial trade in wildlife for human consumption (particularly of birds and mammals) and closing all such markets”. E ancora: “The only effective, practical and cost-efficient way to significantly reduce the risk of a future zoonotic pandemic caused by viral spillover from wildlife to humans is to stop all commercial trade in wildlife, particularly of birds and mammals, for human consumption. Governments across the globe need to permanently close markets that commercially trade in wildlife for human consumption”.

In conclusione, drastiche misure di controllo e limitazione fino alla definitiva proibizione del prelievo e commercio di specie animali protette, sono indispensabili per prevenire future epidemie virali. Occorre sostenere gli appelli delle agenzie, delle associazioni scientifiche e protezionistiche perché le organizzazioni internazionali ed i governi prendano rapidamente tutte le necessarie iniziative.

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