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Amiata: un parco nazionale per l'antico vulcano

Gianni Marucelli

Svetta, imponente, sulla Toscana meridionale, a mezza strada fra il Tirreno e l'Appennino, costituendo, coi i suoi 1734 metri, forse una delle più alte vette d'Italia che non si inseriscano nelle catene montuose alpine e appenniniche.
La forma a cono lo fa intuire, anche da molto lontano, per quel che realmente è: un antico vulcano estintosi milioni di anni fa, che ancora conserva nel sottosuolo fenomeni tipici del vulcanesimo.
Il termalismo, ad esempio, le cui acque erano conosciute già dagli etruschi, e poi sfruttate a fini terapeutici fino ai nostri giorni; la geotermia, utilizzata ormai da decenni per la produzione elettrica; le pericolose pozzolane.
Parliamo del Monte Amiata, amministrativamente suddiviso tra le province di Grosseto e di Siena, e tra molti Comuni che sorgono sulle sue pendici, più o meno tutti situati nella “fascia delle sorgenti”, tra i 700 e i 900 metri di altezza.
Il comprensorio è, per certo, uno dei più interessanti della Toscana, sia per quanto riguarda l'aspetto storico e storico-artistico che per quello prettamente naturalistico.
Per circa un secolo (fino ad anni piuttosto recenti) l'antico cono vulcanico ormai spento è stato universalmente conosciuto per la produzione mineraria del cinabro, elemento da cui si estraeva il mercurio.  Chiuse le miniere, di cui resta il pericoloso retaggio di un inquinamento del suolo ancora irrisolto in alcune zone, fortunatamente molto limitate, la bellissima copertura boscosa del monte (in prevalenza faggete a partire dai mille metri), la presenza di acque termali, la ricchezza rappresentata dagli antichi borghi caratteristici,  pievi, castelli, hanno assicurato a questo territorio una vocazione turistica (anche invernale, per gli impianti sciistici presso la vetta: ma ormaied ormai il suo  l'elemento bianco scarseggia) di tutto rilievo, di cui una delle componenti è anche l'eccellente gastronomia. Purtroppo, le presenze turistiche sono ora limitate ai due mesi della stagione estiva, mentre la montagna meriterebbe ben altra attenzione in tutte le stagioni.
Si è riproposta quindi la marginalizzazione, ormai storica, di questo territorio, la cui importanza è invece cresciuta dal punto di vista ambientale: infatti, esso costituisce un vero e proprio “serbatoio idrico” per la parte meridionale della Toscana, con le numerose sorgenti che danno vita al Fiume Fiora, al Paglia, al Vivo, all'Orcia ecc.
Un patrimonio che va assolutamente difeso: già negli anni Ottanta del secolo scorso si era (invano) parlato della costituzione di un Parco Nazionale dell'Amiata. In questi decenni la finitima Val d'Orcia è stata dichiarata dall'UNESCO “patrimonio dell'Umanità”, ed oggi il suo brand, se vogliamo parlarne in termini commerciali, è universalmente noto.
Adesso, la proposta di tutelare strutturalmente il territorio amiatino è stata ripresa dai Comitati locali, sorti tra la gente per evitare che nuove, imminenti minacce (di cui parleremo in dettaglio in un prossimo articolo) aggrediscano la montagna.
La proposta di costituire un Parco Nazionale viene ora avanzata con l'appoggio scientifico del Comitato Parchi Nazionali e Riserve Analoghe, nato nel lontano 1977 ad opera dello “storico” direttore del Parco Nazionale d'Abruzzo, prof. Franco Tassi, che ne è ancora l'animatore.
Proprio per iniziare una capillare opera di divulgazione di questa proposta, si sono tenuti questa estate una serie di incontri, cui hanno partecipato naturalisti, associazioni ambientaliste, politici e cittadini. Sabato 12 settembre chi scrive ha partecipato all'ultima di queste manifestazioni, portando il saluto della Federazione Nazionale Pro Natura e la formale adesione alla proposta di Parco del Monte Amiata da parte di Pro Natura Toscana, organo di coordinamento delle associazioni Pro Natura della Toscana.
Il prof. Tassi che, instancabile, coordinava l'evento ha manifestato la sua soddisfazione per questa adesione; presto, è previsto lo svolgimento di un vero e proprio Convegno sull'argomento a cui ovviamente saremo presenti.

IL MANIFESTO DEL MONTE AMIATA
VERSO IL PARCO NAZIONALE: PER UNO SVILUPPO DUREVOLE E PARTECIPATO DEL TERRITORIO

L’Amiata è da sempre considerata una delle zone più affascinanti del sud della Toscana.
Ricca di biodiversità possiede uno dei bacini idrici più importanti del centro Italia che rifornisce circa 700.000 utenze, acque calde e centri termali conosciuti e apprezzati in tutta Europa. Ha 5 riserve naturali, siti di interesse regionale e comunitario nelle varie zone a tutela di aree di pregio naturalistico-ambientale; è ricoperta fino alla parte alta del cono vulcanico da una faggeta naturale tra le più significative d’Europa. Ha sviluppato in passato una economia legata al turismo, all’artigianato, ai prodotti locali, agroalimentari. Ha attratto e continua ad attrarre visitatori e turisti non solo per le sue bellezze naturali, ma anche per la sua arte, storia, cultura, borghi medievali, rocche, castelli. È una terra di grande spiritualità, monasteri, chiese, abbazie, eremi; meta di pellegrinaggio (la via Francigena). Possiede rilevanti siti archeologici dal paleolitico agli etruschi; siti di epoca romana.

L’Amiata è definita fin dall’antichità la Montagna Madre per la ricchezza delle sue risorse, la montagna che nutre, accoglie, ristora; apprezzata da Papi, Re, Imperatori. Era candidata in passato dalla Regione Toscana a diventare un Parco Nazionale a tutela e valorizzazione delle enormi risorse ambientali, storiche e culturali.

Come movimenti ecologisti e associazioni del territorio stiamo portando avanti da tempo il progetto del Parco Nazionale del M. Amiata con crescenti adesioni e consensi consapevoli che l’Amiata deve uscire fuori dalla marginalità ed essere al centro di un dibattito regionale e nazionale.

Nonostante i forti vincoli idrogeologici e paesaggistici, la ricchezza di risorse primarie, l’Amiata ha subito e continua a subire aggressioni che stanno mettendo in pericolo l’intero assetto idrotermale, la sicurezza, il paesaggio e stanno indebolendo l’alto pregio naturalistico e culturale del territorio.

L’istituzione del PARCO NAZIONALE DEL M. AMIATA può diventare lo strumento essenziale per valorizzare e tutelare il territorio nonché per coordinare progetti e puntare ad obiettivi più elevati per qualità ecologica e socioeconomica.

COMITATO SALVAGUARDIA AMBIENTE del MONTE AMIATA
AMIATAECO PER UNA NUOVA CULTURA DEL TERRITORIO

Il cinghiale: vittima innocente

Anche la scienza oggi riconosce che il cinghiale è oggetto di sfruttamento a spese della collettività e a vantaggio di pochi, i cacciatori

Roberto Piana

I giornali riportano frequentemente notizie di campi devastati o incidenti stradali causati dalla specie cinghiale (Sus scrofa). Il cinghiale è davvero il nemico che i media dipingono? Perché il cinghiale si è così diffuso?  Perché gli interventi di contenimento disposti da Città Metropolitane e Province non consentono di ridurre i numeri di presenza della specie e i conseguenti danni all’agricoltura?
Qual  è la causa di questa diffusione? Numerosi studi scientifici dimostrano che è la caccia la causa dei danni arrecati da questa specie e che le attività di controllo basate sugli abbattimenti non sono efficaci, anzi comportano l’aumento dei danni.

La presenza del cinghiale oggi in Italia
“Nel periodo medioevale il cinghiale era diffuso in gran parte del nostro Paese. A partire dal 1500 cominciò tuttavia, a causa delle uccisioni da parte dell’uomo, un declino, che culminò all’incirca un centinaio di anni fa, quando la specie, ad esempio, risultava del tutto assente nell’Italia nord-occidentale. Pare che proprio nel 1919 alcuni esemplari provenienti dalla Francia ritornarono in Piemonte e Liguria, dando il via ad un processo di ricolonizzazione che, dapprima lentamente, ma via via sempre più velocemente ha portato alla situazione attuale. Le cause dell’espansione del cinghiale sono fondamentalmente due: la prima è l’accresciuta disponibilità di territorio a lui congeniale, grazie all’abbandono di boschi e campi (soprattutto in aree montane e collinari) e alla grandissima capacità di adattamento della specie. Ma altrettanto, se non più importanti, sono state le massicce immissioni, compiute a scopo venatorio da Associazioni di cacciatori, ma anche da Amministrazioni pubbliche, che si effettuarono a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e che sono durate (quasi) fino ai giorni nostri.”
Così iniziava un recente articolo di Piero Belletti, Segretario Generale della Federazione Nazionale Pro Natura e studioso dell’argomento.
In Piemonte le prime squadre dei cinghialai si formarono negli anni 70 e 80 del secolo scorso e si distinsero le Province di Torino e Cuneo per le immissioni a fini venatori effettuate sia con soggetti d’importazione, sia successivamente con soggetti d’allevamento.  Negli anni il numero di cacciatori interessati alle forme di caccia collettiva al cinghiale è andato aumentando anche per la riduzione numerica delle altre specie selvatiche di interesse venatorio.
I limiti di carniere sono andati aumentando negli anni con l’incremento delle prede a disposizione e parallelamente sono aumentati i danni alle attività agricole, gli incidenti stradali e le presenze dei cinghiali anche nelle aree periurbane e urbane.
Per cercare di contenere il proliferare della specie sul territorio le Pubbliche Amministrazioni hanno negli anni affiancato alla consueta attività venatoria anche attività di controllo cruento con l’utilizzo di personale delle Province, guardie volontarie e cacciatori formati come “selecontrollori”. I sempre maggiori numeri degli abbattimenti non hanno tuttavia conseguito i risultati prefissati e non hanno determinato una riduzione dei danni all’agricoltura, anzi ne hanno causato l’aumento.
Il numero esatto dei cinghiali presenti in Italia non è noto, ma alcune stime ritengono che complessivamente la presenza si aggiri intorno a 600.000 individui, mentre altre parlano di numeri molto maggiori tra uno e  due milioni di individui.
Per comprendere le ragioni del fallimento delle attuali politiche contenitive della specie, basate quasi esclusivamente sugli abbattimenti, per proporre strategie efficaci, nuove e incruente, tendenti a contenere la presenza del cinghiale, il “Tavolo Animali & Ambiente” di Torino ha organizzato nella mattina del 20 giugno 2020 un convegno on line dal titolo: “CINGHIALE è ora di cambiare. La parola alla scienza. Strategie diverse per una convivenza pacifica con la fauna selvatica”.
Il “Tavolo”, costituito da otto associazioni ambientaliste e animaliste (ENPA, LAC, LAV, LEGAMBIENTE Circolo l’Aquilone, LIDA, OIPA, PRO NATURA, SOS GAIA) ha invitato a relazionare studiosi di rilievo nazionale.
Il convegno, moderato dal giornalista de La Stampa Gianni Giacomino, è stato presentato da Rosalba Nattero, Presidente di SOS Gaia ed ha visto la partecipazione del Prof. Massimo Scandura (Università di Sassari), del Prof. Andrea Marsan ((Università di Genova), della D.ssa Elisa Baioni (SISSA di Trieste), del prof. Alberto Meriggi (Università di Pavia), di Piero Belletti (Pro Natura), del Prof. Andrea Mazzatenta (Università di Chieti). Roberto Piana (LAC) ha raccolto le conclusioni.

Hanno seguito il convegno 242 spettatori e le visite alla pagina e al filmato sono state 2.840.
L’intero convegno è visibile da chiunque sul sito di Animali & Ambiente al link: 
http://www.animaliambiente.it/video.html.
In aiuto a chi ha poco tempo e non può seguirlo per intero, soprattutto per incentivare la condivisione, si trova la videoregistrazione da diffondere divisa per ogni intervento dei relatori sul sito web della LAC all’indirizzo:  
https://www.abolizionecaccia.it/blog/2020/06/convegno-cinghiale-e-ora-di-cambiare-la-parola-alla-scienza/
Per tutti è l’invito di darne diffusione per far capire che l'attività venatoria è il vero problema, non la soluzione.

Il convegno è iniziato proprio con l’illustrazione dell’attuale presenza del cinghiale sul territorio nazionale a cura del Prof. Massimo Scandura, zoologo, docente presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Sassari.
Studioso degli aspetti genetici delle popolazioni animali selvatiche, il Prof. Scandura ha illustrato come nel tempo si sia diffusa in Italia la popolazione del cinghiale e come, a causa soprattutto di introduzioni e ibridazioni, siano andati contraendosi e in gran parte sparendo i nuclei originari presenti nella nostra penisola. Quei pochi sono ormai rimasti confinati nella realtà di Castelporziano, in Toscana, con la residua presenza del cinghiale maremmano e in Sardegna che, essendo un’isola, ha visto l’affermarsi di una popolazione sarda di cinghiale con caratteristiche proprie. Tuttavia anche la popolazione sarda, pur isolata dal continente, vede oggi una situazione complessa costituita da un mosaico di realtà che hanno intaccato la sottospecie dell’originario cinghiale sardo. Questi mutamenti sono stati causati dalle immissioni con soggetti di diversa provenienza e dalle ibridazioni con maiali allevati allo stato semiselvatico.
La caccia ha contribuito ad alterare la diffusione e la composizione delle popolazioni selvatiche, non solo a causa delle immissioni a fini venatori, ma anche  attraverso effetti diretti che si possono riassumere  in au-mento della mortalità, destabilizzazione della struttura demografica (più giovani, meno adulti), stimolazione di un investimento riproduttivo precoce, aumento della poliandria, la frequenza di paternità multipla nelle cucciolate e l’aumento delle dimensioni medie delle cucciolate.
In sostanza, fatto riconosciuto ormai da molti studiosi del settore, l’abbattimento degli animali viene rapidamente compensato dalla specie attraverso l’aumento riproduttivo e l’occupazione di nuove aree con la creazione di nuovi gruppi famigliari.

I danni all’agricoltura e alle attività antropiche causati dal cinghiale
Il cinghiale ha abitudini prevalentemente crepuscolari e notturne, si ripara nelle aree boscate nelle quali ricerca acqua e fango. Vive in gruppi guidati da una femmina matriarca, mentre i maschi adulti conducono una vita solitaria avvicinandosi al branco solo nel periodo dell’accoppiamento.
Il cinghiale è onnivoro e la sua dieta è costituita prevalentemente da frutta, semi, funghi, ghiande, castagne, nocciole, tuberi. Non disdegna insetti, vermi, crostacei, roditori, uccelli, carcasse di animali morti. Oltre all’uomo suoi nemici sono i grandi carnivori, in Italia rappresentati dall’orso e dal lupo.
Lo scavo del terreno svolto con il muso, detto grifo, alla ricerca di fonti trofiche causa danni anche estesi ai prati e alle aree coltivate così come la ricerca di cibo nei coltivi è causa di gravi perdite di raccolti e conflitti con gli agricoltori. Il mais, i frutteti, l’uva sono gli obiettivi prediletti dalla specie.
Con l’aumento della presenza del cinghiale sul territorio nazionale i danni economici causati da questi ungulati hanno raggiunto cifre elevatissime dell’ordine di milioni di euro. Di qui nasce la demonizzazione della specie.
L’attraversamento delle strade è causa di incidenti dei quali l’animale è la prima vittima. Uno studio del 2010 della Provincia di Cuneo ha verificato l’aumento considerevole degli incidenti stradali che vedono coinvolto il cinghiale durante la stagione venatoria autunnale a causa degli spostamenti causati dalla caccia e dai cani soprattutto.
I danni causati dal cinghiale, così come quelli causati da tutta la fauna selvatica che è patrimonio dello stato, devono essere risarciti dalle Amministrazioni interessate.
Con l’ ordinanza n. 13488 del 29 maggio 2018 la Corte di Cassazione VI Sezione Civile ha statuito che la responsabilità  per i danni “ debba essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministra-zione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l’attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino”.
Non sempre è facile individuare quale sia il soggetto istituzionale al quale rivolgersi per ottenere il ristoro del danno (Regione, Città Metropolitana, Provincia, Ente di gestione dell’area protetta, ecc…) così come in molti casi, come quella degli incidenti stradali, l’onere di dimostrare un comportamento colposo dell’ente è a carico del danneggiato in virtù delle regole generali sul riparto dell’onere probatorio dettate dall’art. 2.697 C.C.
La mancanza di opportuna segnaletica stradale che avvisi del pericolo di attraversamento da parte della fauna selvatica, la mancata imposizione di opportuni limiti di velocità per i veicoli, la mancata manutenzione delle recinzioni delle autostrade e delle arterie di veloce scorrimento  possono determinare la responsabilità dell’ente o della società che gestisce la strada.
Per quanto riguarda gli agricoltori onesti vi è da dire che questi preferirebbero riuscire ad effettuare i raccolti piuttosto che ottenere successivi risarcimenti.
La strada da percorrere è allora quella che porta alla riduzione dei danni e nel contempo a favorire una pacifica convivenza tra specie umana e specie animali selvatiche. Mentre nazioni nordeuropee sono molto avanti nello studio di strategie alternative agli inutili abbattimenti in Italia, e in Piemonte in particolare, viviamo ancora il Medioevo.

Il cinghiale non è specie pericolosa per l’uomo
Anche sulla pericolosità del cinghiale quale animale aggressivo e pericoloso per le persone devono essere sfatati luoghi comuni. Il cinghiale è specie che non aggredisce l’uomo a meno che non si senta attaccato o tema per i cuccioli e non gli venga consentita possibilità di fuga.
I rari casi di attacco alle persone  finora  verificatisi sono tutti stati causati da comportamenti sconsiderati di esseri umani. In testa vi sono gli attacchi a cacciatori e bracconieri che feriscono solo l’animale non consentendogli vie di fuga; poi ci sono i tentativi di cattura di cuccioli, che determinano la reazione della cin-ghialessa. Veri pericoli li corrono solo i cani da caccia o cani sfuggiti al controllo del proprietario che aggrediscono l’animale il quale reagisce per legittima difesa. Non è raro che si verifichi durante le battute di caccia anche lo sventramento di cani, evento che dovrebbe già essere sufficiente per indurre da subito  la Regione a vietare l’uso dei cani per la caccia al cinghiale, così come è previsto per tutti gli altri ungulati.  Purtroppo la ricerca da parte dei mezzi di comunicazione della notizia sensazionale ha diffuso una falsa immagine di questo meraviglioso e intelligente suide quale “pericolo pubblico”. Nulla di più falso.
La presenza del cinghiale nelle aree periurbane e urbane è dovuto agli spostamenti e al nomadismo indotto dalla caccia oltre che dalla presenza di fonti trofiche (rifiuti di residui alimentari) abbandonati lungo le strade.
Le responsabilità della specie umana vengono riversate sugli animali da un giornalismo dozzinale e irresponsabile.
La D.ssa Elisa Baioni - Master in Comunicazione della Scienza 'Franco Prattico' Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste – nel corso del Convegno on line di Torino ha affrontato i diversi aspetti del modo in cui i media presentano al pubblico la questione cinghiale.
In due macro categorie, “Presentare il problema” e “Affrontare il problema”, la D.ssa Baioni ha analizzato le storture della odierna comunicazione che di fatto non affronta gli aspetti etici legati al rapporto con la specie selvatica e nemmeno presenta in modo adeguato i risultati scientifici. Le esigenze di enfatizzazione degli eventi al fine di favorire l’attenzione del lettore riduce a percentuali irrilevanti le informazioni scientifiche sul tema.

L’attività venatoria e l’attività di controllo sono due cose molto differenti
La caccia o attività venatoria
La Legge n. 157/1992 inserisce il cinghiale  tra le specie cacciabili di cui all’articolo n. 18.
La caccia costituisce una concessione della Regione a chi è in possesso della licenza e rispetta le regole e i limiti della legge nazionale e delle leggi regionali. L’animale abbattuto durante l’esercizio venatorio appartiene a colui che lo ha abbattuto.

Il cinghiale viene cacciato con tecniche diverse:
a) in battuta con l’ausilio di una muta di cani e con i cacciatori appostati lungo il perimetro che circoscrive la zona di intervento. Trattasi della famigerata “braccata” operata da squadre organizzate di cacciatori. In alcuni casi in luogo della muta di cani viene utilizzato un solo cane detto “limiere”.
b) in battuta come nel caso precedente, ma senza i cani;
c) alla cerca o da appostamento da parte di un solo cacciatore con o senza cane;
d) alla cerca o da appostamento attraverso la cosiddetta “caccia di selezione” senza l’ausilio di cani. Si intende per “caccia di selezione” l’assegnazione al cacciatore del capo da abbattere individuato sulla base del sesso e dell’età.
Tutte queste modalità di caccia devono rispettare il periodo di tre mesi in autunno-inverno, le zone di divieto (oasi, aree di ripopolamento e cattura, parchi, distanza da vie di comunicazione, abitazioni e stabili adibiti a luoghi di lavoro, eccetera), l’orario diurno e le altre modalità previste dalla legge.  
Solo la “caccia di selezione” può essere prevista dal calendario venatorio tutto l’anno. La caccia così come prevista dal legislatore non ha finalità di contenimento della specie né di riduzione dei conflitti  tra la specie cinghiale e coloro, agricoltori in primis, che dalla presenza del cinghiale possono essere danneggiati.
La caccia assolve unicamente agli interessi ludici (ed economici) dei cacciatori.
Vi è da dire poi che non pochi cacciatori nel previsto periodo tra l’autunno e l’inverno disdegnano la caccia al cinghiale dedicandosi ad altre specie. Essi sanno che potranno poi sparare ai cinghiali, assumendo il ruolo di “selecontrollore”, in tutti gli altri periodi dell’anno. Anzi, meno animali si abbattono durante la regolare stagione di caccia e più ricchi saranno “i piani di controllo” successivi.

L’attività di controllo
L’attività di controllo è prevista dall’art. 19 della L. 157/1992 che recita:
“Le regioni, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agroforestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l'utilizzo di metodi eco-logici su parere dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l'Istituto verifichi l'inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno altresì avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza per l'eserci-zio venatorio, nonché delle guardie forestali e delle guardie comunali munite di licenza per l'esercizio venatorio durante tutto l’anno.”
Gli abbattimenti possono essere autorizzati con appositi atti amministrativi solo in caso di inefficacia dimo-strata dei metodi ecologici preventivi e incruenti. Tuttavia gli abbattimenti oggi costituiscono pressoché l’unico metodo utilizzato per contenere la presenza della specie. Il fallimento di questa illegittima scelta è sotto gli occhi di tutti e solo chi non vuol vedere può negarlo. Il numero degli animali uccisi ogni anno au-menta e parallelamente aumentano anche i danni.
L’attività di controllo poi non potrebbe essere delegata ai cacciatori in quanto tali e ben sette sentenze del-la Corte Costituzionale hanno sancito la tassatività dell’elenco dei soggetti autorizzati previsto dall’art. 19 della L. 157/1992.  
Eppure in Piemonte e in tutta Italia questo principio viene spesso aggirato e il controllo viene affidato a cacciatori che abbiano superato un esame e definiti “selecontrollori”.
L’utilizzo di cacciatori “selecontrollori” per l’attività di contenimento della specie non ottiene i risultati di riduzione dei danni perché il cacciatore è l’unico soggetto che non ha alcun interesse ad operare per ridurre la specie sul territorio.
Poiché la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello stato, gli animali abbattuti durante l’attività di controllo continuano ad appartenere allo stato e la loro carne può essere alienata solo con le modalità con cui viene alienato il patrimonio indisponibile dello stato e cioè il bando pubblico. Eppure molte delibere delle Province riportano espressioni illegittime simili a questa: Le carcasse dei cinghiali sono assegnate a coloro che li hanno abbattuti quale contributo forfetario per le spese sostenute.
L’illecita commistione tra caccia e controllo consente di fatto la possibilità per il cacciatore non solo di andare a caccia tutto l’anno, ma anche di esercitare il suo divertimento nelle zone che gli sarebbero interdette.

Gli abbattimenti non servono per ridurre la presenza del cinghiale né per ridurre i danni
Lo studio sulla tendenza degli abbattimenti e sui rimborsi dei danni nel Parco regionale del Ticino lombardo condotto dal Prof. Alberto Meriggi - docente di Etologia dell’Università di Pavia – riferito  agli  abbattimenti tra il 1998 e il 2018 ha dimostrato che all’aumentare degli abbattimenti aumentano proporzionalmente anche i danni.

Cinghiali - Correlazione abbattimenti-danni nel parco del Ticino

Il devastante metodo della braccata, durante la quale mute di cani stanano gli animali dalle aree loro vocate, causa la dispersione sul territorio degli esemplari e la disgregazione dei branchi. La braccata, così come le battute, è causa di grave danno anche per le altre specie selvatiche. I cacciatori e i “selecontrollori” abbattono solitamente gli esemplari adulti di maggiori dimensioni perché producono una maggiore quantità di carne.  I piccoli e gli esemplari giovani vengono meno presi di mira perché saranno le prede dell’anno seguente. Il branco è solitamente condotto dalla femmina anziana (quella di maggiori dimensioni) che solitamente è tra le prime vittime. Essa, con messaggi ormonali, riesce a regolare quella che gli studiosi chiamano “sincronizzazione dell’estro” delle femmine giovani.  La sua uccisione determina la destrutturazione del branco, la dispersione dei giovani, la formazione di nuovi branchi e l’anticipazione del periodo fertile dei soggetti giovani.  Aumenta il tasso riproduttivo della specie e conseguentemente il numero degli animali. La specie sopperisce in breve tempo alle perdite.
Con la dispersione dei cinghiali causata dalla caccia e dalle attività di controllo aumentano gli attraversamenti stradali e gli incidenti, mentre cresce la colonizzazione delle aree periurbane e urbane.
Il Prof. Andrea Mazzatenta dell’Università di Chieti nella sua relazione ha ben spiegato il fenomeno.
“Dall’analisi dei dati pubblicati da Regione Abruzzo, Provincia di Chieti e Ambito Territoriale di Caccia (ATC) del vastese emerge che lo sforzo di caccia profuso non ha restituito i risultati attesi Al contrario all’incremento della pressione venatoria (Fig.1) corrisponde l’aumento del danno da cinghiale (Fig. 2 ) e il rischio di danno in particolare nel Vastese.”

Correlazione danni-abbattimenti

A tutto questo si aggiunge la militarizzazione del territorio, il pericolo anche per gli esseri umani a causa delle armi a grande gittata utilizzate, il disturbo per le altre specie animali.

Le proposte delle associazioni ambientaliste e animaliste del “Tavolo Animali & Ambiente”
Le associazioni del “Tavolo Animale  Ambiente” nel 2018 hanno presentato alla Città Metropolitana di Torino un documento ricco di proposte alternative agli abbattimenti. Gli interessati possono prenderne visione al link: http://www.animaliambiente.it/campagne/PIANO-DI-CONTENIMENTO-DEL-CINGHIALE.pdf
Ne riassumiamo i contenuti principali. L’obiettivo, anche attraverso procedure graduali, è di arrivare a superare gli abbattimenti e poter giungere a pacifica e incruenta convivenza tra la specie umana e le altre specie animali del pianeta. L’auspicabile divieto di caccia alla specie richiederebbe un intervento legislativo di difficile realizzazione, ma alcune misure possono essere assunte immediatamente.
- Vietare l’uso dei cani sia nell’attività di caccia al cinghiale e sia nelle attività di controllo.
L’utilizzo dei cani disperde gli animali, incrementa il pericolo di incidenti stradali, determina una destrutturazione delle popolazioni, la creazione di nuovi branchi e la colonizzazione di nuove aree con aumento e non diminuzione dei danni. E’ una opzione a costo zero.
- Divieto di abbattimento delle femmine adulte.
Evitare l’uccisione della femmina dominante che guida il gruppo consente di non destrutturare le popolazioni e di favorire la “sincronizzazione dell’estro” nelle femmine giovani.
- Divieto dell’allevamento, del trasporto, del commercio di cinghiali vivi.
Cercare di impedire le possibili fughe nell’ambiente, volute o involontarie, di cinghiali è essenziale.
- Tutela delle colture e prevenzione dei danni.
Le moderne tecniche di difesa delle colture attraverso le recinzioni elettriche sono in grado di impedire l’accesso degli ungulati al campo coltivato. Sono ormai tantissime le realizzazioni effettuate con successo. Certamente il posizionamento dei recinti elettrici non può effettuarsi ovunque e richiede periodica manutenzione. Se correttamente posizionate e manutenute le difese elettriche offrono garanzia di successo vicino al 100% e costi gestionali sostenibili. Il Prof. Andrea Marsan dell’Università di Genova ne ha ampiamente parlato al convegno.
- Controllo della fertilità.
La somministrazione anticoncezionale iniettabile è già disponibile anche se richiede la temporanea cattura degli animali. Negli ultimi vent’anni i vaccini contraccettivi sono stati sempre più perfezionati e oggi una monodose causa infertilità nell’animale per almeno 3-5 anni dopo la somministrazione. La somministrazione iniettabile oggi disponibile ci auguriamo sia presto sostituita da quella per via orale.
Le difficoltà risiedono principalmente nelle modalità di distribuzione in maniera equilibrata nella popolazione. Viste le grandi cifre sborsate dagli enti pubblici per il rimborso dei danni, sicuramente conviene investire nella ricerca per azzerarli.
- Attraversamenti stradali.
Le vie di comunicazione contribuiscono alla frammentazione del territorio e registrano un impressionante numero di incidenti che vedono coinvolte e vittime le specie selvatiche. Oltre ai danni materiali dei mezzi coinvolti non sono rari gli incidenti con feriti o morti umani.  La Regione Piemonte aveva iniziato ad affrontare il problema studiando modalità sicure di attraversamento delle strade da parte della fauna selvatica. La pubblicazione della Regione Piemonte e di ARPA “Fauna selvatica ed infrastrutture lineari” datata 2005 lasciava ben sperare. Poi però alle buone intenzioni non sono seguiti i fatti.
La pubblicazione è scaricabile dal sito di ARPA al link:
http://www.arpa.piemonte.it/pubblicazioni-2/pubblicazioni-anno-2005/fauna-selvatica/capitoli-1-4.pdf
In Europa ci può insegnare molto il Belgio che negli anni ha realizzato ben 66 ecodotti che consentono agli animali l’attraversamento in sicurezza delle vie di comunicazione e la drastica riduzione degli incidenti stradali. Le strade a scorrimento veloce dovrebbero essere realizzate in modo da non consentire alla fauna di guadagnare l’asfalto e nello stesso tempo garantire modalità di attraversamento sicuro per gli animali. Invece di scavare gallerie inutili di 57 chilometri nella montagna l’ammodernamento in questa direzione delle esistenti vie di comunicazione creerebbe posti di lavoro e salverebbe vite umane e animali.
Il Piano Faunistico Venatorio dell’Emilia Romagna prevede lungo le strade più a rischio di collisioni con la fauna la sistemazione di sensori luminosi e dissuasori acustici che allertano animali e automobilisti del reciproco avvicinarsi, al fine di aumentare la sicurezza sulle strade.
I sensori già sono stati sperimentati dal 2014 nelle province di Rimini, Modena, Reggio Emilia, Piacenza con incoraggianti risultati. Sulle SS.PP: n. 23 e n. 12 del Reggiano si è assai ridotto il numero di incidenti gravi. Il superamento del conflitto con le specie animali selvatiche e con il cinghiale in particolare risiede nella ricerca e nella sperimentazione di strade nuove “ecologiche” e rispettose degli animali, come d’altra parte prevede l’art. 19 della L. 157/1992, troppo spesso aggirato dalle nostre Istituzioni.
Si appendano i fucili al chiodo e si cerchi di realizzare strategie volte alla pacifica convivenza con le forme di vita e con il pianeta che ci ospita.

Caro Coronavirus

Fabio Ligabue

L’attenzione del mondo intero, oggi, è rivolta a te. Ti vorrei parlare in nome di tutte quelle migliaia di persone che hai colpito.
Sei un virus nuovo, sconosciuto, no? Qui c’è grande confusione e nessuno, penso, ha capito bene che origine tu abbia avuto. C’è ancora tutto da scoprire su di te, perché sei   esploso all’improvviso e ci hai preso, così sembra, tutti sottogamba.
Dimmi la verità, ti prego, dammi l’anteprima: come sei nato, veramente?
Ti confido: tra le varie ipotesi che ho sentito, tra noi comuni mortali (per così dire gente semplice come me), c’è quella che sostiene che tu sia frutto della sporcizia e della poca igiene che regna nella zona che ti ha messo al mondo.
Oppure c’è quella (ed è ciò che mi preoccupa di più), che dice che tu sia frutto – sostanzialmente – del fatto che siamo troppi e mal distribuiti sulla Terra  e che, col nostro progresso, stiamo andando ad occupare le nicchie ecologiche che l’evoluzione aveva assegnato ad altre specie viventi.
Dai, dimmi: è così? Stiamo andando troppo veloce? È necessario un ritorno al passato?
Sai, sto rileggendo un libro che già qualche anno fa, mi aveva coinvolto molto e che si intitola proprio “Ritorno al passato, la crisi della società fondata sul petrolio e il futuro che ci attende”.
Lo sto rileggendo perché, come una profezia, già dalla sua prima edizione, diversi anni fa, in estrema sintesi, sostiene che anche la nostra società “evoluta”, basata sulla crescita, crescita e ancora crescita (economica e di conseguenza demografica), sarebbe destinata inevitabilmente a raggiungere presto il suo apice, il suo culmine, da cui subirebbe il suo inesorabile tracollo.
Così avrebbero fatto anche altre civiltà, tra cui il glorioso popolo romano, 2000 anni fa, che tanto ha dato allo sviluppo del mondo.
Conclude invece affermando che ciò che è sempre rimasto, nel corso della Storia (ma che, se andiamo avanti così verrà presto distrutto), sono essenzialmente le popolazioni primitive o per così dire semplici, perché, nella loro essenzialità e forse, inconsapevolezza, vivono in simbiosi con il mondo, con la natura, con l’ecosistema.
Chi, con un briciolo di sensibilità, non rimane motivato da queste parole?
Non è così???
Io penso che questa sia la verità, ma capisco che ognuno sia figlio della propria epoca e tornare indietro, quando si è raggiunto un certo livello, è molto difficile, se non impossibile.
In effetti, anche presso i popoli primitivi prima o poi c’è stato progresso, c’è stata una spinta evolutiva, per esempio a fare meno fatica nel lavorare   la terra, nell’attingere o trasportare acqua,… nel cercare maggiori agiatezze.
Nella mia povera ignoranza, penso però a come la spinta evolutiva sia insita nella natura umana e che, evidentemente, il problema sta nel capire il limite (l’equilibrio nell’ecosistema), entro cui fermarsi.
Mia nonna, così pure come ho sentito da alcuni nostri vecchi che ho intervistato qualche anno fa, dice che si stava meglio quando si stava peggio. Al di là della perdita dal valore inestimabile di vite umane di questo periodo, lei, classe 1930, dice sempre che si mette A RIDERE quando oggi sente dire in giro che c’è crisi!
Ma, pensandoci, quante volte l’ho sentito dire, non solo da lei: “si stava meglio quando si stava peggio”...
E forse, sotto molti aspetti a ragione.
Anche qui sta l’eterna lotta tra ciò che è bene e ciò che è male? Tra la bramosia del volere sempre di più e il sapersi accontentare e godere di quel che ci è stato donato?
Ma allora la crisi, a cui ci stai trascinando (e per cui mia nonna si mette a ridere), nasce nel momento in cui si riesce a fare il confronto tra peggio e meglio e non ci si accontenta più delle cose che abbiamo o di cui possiamo fruire.
Ma allora forse ci vuoi insegnare qualcosa!!!
Che la storia si ripete e che la saggezza popolare insegna sempre???
Mah…
Mi pervade, quindi, il pensiero   di come tutto quel che riceviamo dalla Terra debba essere sano, pulito, custodito e restituito tale, perché anche noi, in fin dei conti, ne siamo parte e che se i componenti di un ecosistema si ammalano, nel loro equilibrio, le conseguenze possono essere disastrose.
Quindi, questa tragedia è “il tuo caso”?
Allora forse, ce la siamo proprio cercata noi, si dice così no?, con la nostra bramosia di potenza e ricchezza e tu ne sei un frutto.
Quindi probabilmente non sei nato cattivo, siamo solo noi che ti abbiamo creato. Non è così?
Non abbiamo ancora capito che il valore di questo Mondo è, in definitiva, la Vita e ciò che la   Vita/Natura ci può offrire. Nel suo rispetto.
Se è così, allora guida pure il mondo come ritieni, ma tuttavia, ti chiedo di essere un po’ meno spietato…,   di farci mandare giù la pillola un po’ per volta…, di fare in modo che ognuno di noi “EVOLUTI”   faccia proprio il pensiero che   finora abbiamo sbagliato e ti prego, ancora una volta, anche in nome di tutte quelle persone che sono morte cercando di salvare gli altri, fa che si abbia ancora il tempo di regolarsi di conseguenza.

Artico in agonia

Riccardo Graziano

I cambiamenti climatici interessano tutto il pianeta, ma in alcune zone sono più evidenti sia nell’entità, sia per le conseguenze. Fra i territori particolarmente colpiti dal surriscaldamento globale ci sono naturalmente i ghiacciai, sia quelli alpini, sia quelli di Artico e Antartico, ma anche le fasce climatiche sub-polari sono in sofferenza.
È di qualche settimana fa la notizia dell’ennesimo disastro ambientale avvenuto in quelle regioni, precisamente a Norilsk, nella penisola di Taymyr, nel nord della Russia. Qui, il 29 maggio scorso circa ventimila tonnellate di gasolio fuoriuscite dai depositi della NTEC (società del gruppo Nornikel) hanno contaminato il suoloe oltre venti chilometri di fiumi.
Le cause dello sversamento non sono chiare, vista la poca trasparenza con la quale trapelano le notizie da Mosca, ma sembra esserci una correlazione con lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno profondo perennemente ghiacciato che si trova nelle regioni caratterizzate da basse temperature lungo tutto il corso dell’anno. Infatti l’incidente sarebbe avvenuto, secondo l’azienda, a causa del crollo dei serbatoi provocato dal cedimento del permafrost sottostante, che si sarebbe liquefatto per via delle temperature insolitamente elevate dell’ultimo periodo.
Dal momento che la Procura locale ha aperto un’indagine penale sull’incidente, il riferimento allo scioglimento del permafrost potrebbe anche essere uno stratagemma strumentale del Nornickel Mining Group – principale produttore mondiale di nichel e palladio, a cui fa capo l’impianto oggetto dello sversamento – per cercare di evitare qualsiasi responsabilità attribuendo le cause del disastro a un fenomeno naturale, quale sarebbe secondo loro lo scioglimento del permafrost. Se questa strategia dovesse avere successo, non sarebbe certo la prima volta che un incidente ambientale di ampie proporzioni rimane senza colpevoli, con il danno ecologico ed economico che va a impattare sulla collettività anziché sui veri responsabili. In Russia c’è una ricca casistica in proposito, ma anche l’Italia non è certo da meno, come del resto la gran parte dei Paesi.
Ora, occorre sottolineare due fatti: il primo è che il permafrost si sta effettivamente sciogliendo in misura preoccupante, ma non si tratta di un fenomeno “naturale”, bensì dovuto al surriscaldamento globale provocato dall’effetto serra, a sua volta causato dalle emissioni antropiche dovute all’(ab)uso di combustibili fossili; il secondo è che – anche ammettendo che tale scioglimento sia alla base del cedimento dei serbatoi di combustibile – si tratterebbe comunque di una concausa, ma il grosso della responsabilità sarebbe in ogni caso di chi ha insediato un’attività produttiva altamente impattante in una zona fragile, senza monitorare in maniera adeguata l’evolversi della situazione.
In altre parole, se gestisci un impianto appoggiato sul permafrost, devi essere conscio del fatto che esiste la concreta possibilità che ti si squagli il terreno sotto i piedi, quindi devi controllare costantemente la situazione della consistenza del sottosuolo e delle fondamenta ed essere pronto a intervenire per evitare il collasso delle strutture. Cosa sarebbe successo se al posto dei serbatoi ci fosse stato un condominio? Avremmo attribuito la tragedia a cause naturali? Probabilmente sì, visto che lo facciamo in continuazione, in occasione di allagamenti, frane o altri eventi “naturali” dove invece è estremamente elevata la corresponsabilità dell’azione antropica, per esempio perché si insediano abitazioni o attività dove non si dovrebbe, come nel caso dell’impianto russo.
Vale la pena ricordare che già nel 2009 l’organizzazione ambientalista Greenpeace aveva ammonito sui “rischi per le infrastrutture dell’industria russa del petrolio e del gas, associati al degrado del permafrost a causa dei cambiamenti climatici”. La situazione era dunque già nota da tempo e non si può attribuire l’attuale disastro al fatto che negli ultimi mesi le temperature si sono alzate di circa 4°C sopra le medie locali. Inoltre, il fenomeno dello scioglimento del permafrost russo è un fatto assodato da anni. Approfittando dello scongelamento del terreno, alcune popolazioni dell’estremo nord hanno addirittura messo in piedi un commercio quantomeno singolare: quello dell’avorio delle zanne di mammuth, che riemergono dalla prigione di ghiaccio in cui erano rimaste sepolte per millenni e vengono recuperate e vendute (in genere per cifre ridicole) a commercianti che le indirizzano verso i mercati asiatici.
Ma tale commercio è ben poca cosa rispetto al cinismo dei petrolieri russi, che approfittano dello scioglimento della banchisa polare per installare nuove piattaforme petrolifere marine sempre più a nord, implementando l’industria dei combustibili fossili che è la principale causa del riscaldamento globale. In pratica, anziché contrastare il fenomeno che provoca i cambiamenti climatici, si agisce per accelerarlo. Del resto, la cosa vale anche per lo scioglimento del permafrost: il terreno ghiacciato per centinaia di migliaia di anni ha fatto da “tappo”, trattenendo nel sottosuolo milioni di metri cubi di gas metano, che ora invece fuoriesce proprio a causa dello scioglimento della copertura, disperdendosi in atmosfera. Il problema è che il metano, a sua volta, è un gas che contribuisce al riscaldamento globale in maniera rilevante, visto che la sua capacità di creare “effetto serra” è 25 volte più elevata di quella dell’anidride carbonica, dunque il ciclo riscaldamento/scioglimento del permafrost è un circuito che si autoalimenta e, conseguentemente, accelera.
Ne consegue che i cambiamenti climatici sono ancora più incombenti di quanto stimassero le previsioni e le loro conseguenze dirette e indirette sempre più devastanti. Tanto per dare un’idea, gli esperti hanno valutato che le barriere poste sui fiumi riusciranno a intercettare solo una minima parte delle ventimila tonnellate di gasolio fuoriuscito nell’incidente russo, mentre il resto degli idrocarburi inquinerà acque e suolo, con danni ambientali ingenti. Le città industriali di Norilsk e della regione di Krasnoyarsky hanno dovuto dichiarare lo stato di emergenza e i danni ai sistemi idrici della regione sono stati valutati in 77,5 milioni di euro, senza contare i costi della bonifica dell’ambiente contaminato.
I danni economici di questi “incidenti” crescono di pari passo con i danni ambientali e, esattamente come questi ultimi, ricadono sulla collettività, mentre gli inquinatori non vengono mai inchiodati alle loro responsabilità e continuano a fare soldi a palate. In realtà, se si applicasse il semplice principio “chi inquina paga” diventerebbe palese che l’industria dei combustibili fossili non è così conveniente come vogliono farci credere. O meglio, lo è per i petrolieri che incassano, ma non per tutti noi che ne paghiamo le conseguenze.

Tratto da Agendadomani (agendadomani.it)

Codice Forestale Camaldolese - Le radici della sostenibilità

Dom Salvatore Frigerio

La comunità monastica di Camaldoli, fin dal suo primo sorgere attorno al 1024, stabilì un rapporto vitale con l’ambiente forestale, fino ad assumerlo a simbolo e custode della vita monastica. Qui troviamo il nodo che collega la tradizione camaldolese a quella biblica.
Nel 1080 Rodolfo, il quarto Priore dell’Eremo, codifica per la prima volta le consuetudini di vita della comunità romualdina (Liber eremiticae regulae aeditae a Rodulpho eximio doctore. Biblioteca della città di Arezzo, cod. 333, sec XI). La sua opera viene ampliata da Rodolfo II all’inizio del XII secolo. In questo nuovo codice camaldolese l’Autore ci offre pagine altamente dimostrative del rapporto tra i monaci e la foresta. In una pagina particolarmente ricca di poesia è raccolta tutta la tensione ascetica dei monaci che vivono in sintonia con l’ambiente, fino a registrare la loro “identificazione” con gli alberi. Il brano (cap. 49) canta i sette alberi elencati nel libro di Isaia quali segno della fertilità della terra rifondata da Dio (Is 41,19) e, contemplandone le proprietà, vi scopre l’indicazione di quelle virtù che ogni monaco deve possedere. Ma va oltre affermando che ogni monaco deve diventare quegli alberi!

“Pianterò, Egli dice, nel deserto, il cedro e il biancospino, il mirto, l’olivo, l’abete, l’olmo e il bosso”. Se dunque desideri di possedere di questi alberi in abbondanza o se brami di essere tra loro annoverato (ut inter eos computari), tu chiunque sii, studiati di entrare nella quiete della solitudine (in solitudine quiescere). Quivi infatti potrai possedere, o diventare tu stesso (aut cedrus fieri) un cedro del Libano che è pianta di frutto nobile, di legno incorruttibile, di odore soave: potrai diventare, cioè, fecondo di opere, insigne per limpidezza di cuore, fragrante per nome e fama; e come cedro che si innalza sul Libano, fiorire di mirabile letizia (mira iocunditate florescas). Potrai essere anche l’utile biancospino, arbusto salutarmene pungente, atto a far siepi, e varrà per te la parola del profeta “sarai chiamato ricostruttore di mura, restauratore di strade sicure”. Con queste spine si cinge la vigna del Signore: “affinché non vendemmi la tua vigna ogni passante e non vi faccia strage il cinghiale del bosco né la devasti l’animale selvatico”. Verdeggerai altresì come mirto, pianta dalle proprietà sedative e moderanti; farai cioè ogni cosa con modestia e discrezione, senza voler apparire né troppo giusto né troppo arrendevole, così che il bene appaia nel moderato decoro delle cose. Meriterai pure di essere olivo, l’albero della pietà e della pace, della gioia e della consolazione. Con l’olio della tua letizia illuminerai il tuo volto e quello del tuo prossimo e con le opere di misericordia consolerai i piangenti di Sion. Così darai frutti soavi e profumati “come olivo verdeggiante nella casa del Signore e come virgulto d’olivo intorno alla sua mensa”. Potrai essere abete slanciato nell’alto, denso di ombre e turgido di fronde, se mediterai le altissime verità, e contemplerai le cose celesti, se penetrerai, con l’alta cima, nella divina bontà: “sapiente delle cose dell’alto”. E neppure ti sembri vile il diventare olmo, perché quantunque questo non sia albero nobile per altezza e per frutto, è tuttavia utile per servire di sostegno: non fruttifica, ma sostiene la vite carica di frutti. Adempirai così quanto sta scritto:”Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo”. Finalmente non tralasciare di essere bosso, pianticella che non sale molto in alto ma che non perde il suo verde, così che tu impari a non pretendere d’essere molto sapiente, ma a contenerti nel timore e nell’umiltà e, abbracciato alla terra, mantenerti verde. Dice il profeta:”Non alzate la testa contro il cielo” e Gesù: “chi si umilia sarà esaltato”. Nessuno dunque disprezzi o tenga in poco conto i ministeri esteriori e le opere umili, perché per lo più le cose che esteriormente appaiono più modeste, sono interiormente le più preziose. Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione a alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza.”

Il testo esalta virtù che appartengono indistintamente ai monaci e agli alberi, in un sorprendente reciproco confondersi. In questa pagina è gettato il fondamento di tutta l’attenzione amorosa ed edificatrice che i monaci hanno offerto alla “loro” foresta. Proprio da qui si dipana il lavoro di custodi appassionati, che nel turgore della foresta riflettono il turgore della loro ascesi e che ritrovano le tappe del loro cammino monastico negli alberelli posti a dimora. Per questo non vi sarà più una legislazione successiva, riguardante la vita della comunità monastica, che tralascerà di disciplinare il rapporto monaco-foresta, se non quando questo sarà interrotto dalle soppressioni civili che ne toglieranno ai monaci la cura, nel 1810 (soppressione napoleonica) e nel 1866 (soppressione sabauda tuttora vigente). Si verifica quindi una legislazione forestale del tutto singolare: non viene promulgato un codice a parte, specifico per la gestione forestale, ma questa è parte integrante delle Costituzioni che regolano la vita dei monaci. Si tratta di un caso unico in tutto il monachesimo cristiano. Nel 1520, stampato con i tipi in legno della nuovissima tipografia installata nel monastero, viene pubblicato un libro di grande importanza: la Regola di vita eremitica (Paulus Justiniani, Eremitice vite regula a beato Romualdo Camaldolensibus Eremitis tradita: seu Camal.Eremi Istitutiones, Monasterio Fontis Boni MDXX, p.37 ss.). Si tratta della prima organica legislazione, promulgata dal priore Paolo Giustiniani, dotto umanista veneziano (1476-1528). Quest’opera, che possiamo considerare il primo compendio ben articolato di tutte le precedenti norme stabilite dai Camaldolesi, ci dimostra come il rapporto con la foresta fosse parte integrante della regola di vita di quei monaci. Silvano Razzi, abate del Monastero fiorentino di S. Maria degli Angeli, ci dà, nel 1575, una traduzione della Regola del Giustiniani in lingua toscana (Regola della Vita Eremitica… Le Constituzioni Camaldolesi tradotte dalla lingua latina nella toscana, a cura di Silvano Razzi, Fiorenza MDLXXV, pp. 22-23 e p. 198). Da questa riprendiamo alcuni passi.

“… se saranno gl’Eremiti studiosi veramente della solitudine, bisognerà che habbiano grandissima cura, & diligenza, che i boschi, i quali sono intorno all’Eremo, non siano scemati, ne diminuiti in nium modo, ma piu tosto allargati, & cresciuti. Si possono adunque tagliare Abeti, per edificazione della Chiesa, delle Celle, & dell’altre stanze, & officine dell’Eremo; (…) con la sola licenza, & concessione del Maggiore [il Priore. Ndr]. Quando poi bisogna tagliarne quantità maggiore (…) ciò si faccia, ma con speciale licenza del Capitolo dell’Eremo: ne altri si conceda licenza di tagliare Abeti. (…) Procurino (…) con diligente cura che per ogni modo, si piantino ciascun’anno, in luoghi opportuni, & vicini all’Eremo, quattro, ò cinque mila Abeti. (…) La qual cosa, se per sorte, un anno (che Dio nol voglia) non si facesse, l’anno seguente facciasi per l’uno, & per l’altro. Ne altrimenti si possano tagliare Abeti, se ciò prima non sarà stato fatto” .“Alla cura finalmente de gl’Abeti, si dee deputare uno del numero dei fratelli (…); l’ufficio del quale sia attendere con diligente cura, & sollecitudine, che non siano ne tagliati, ne offesi, ò vero guasti in alcun modo; & procurare, che di nuovo, come si è detto sopra a suo luogo, se ne piantino. & usare ogni diligenza alli piantati, accio che possano crescere; & quando se n‘ha da tagliare, mostrare quali, & dove si possa fare con manco danno della bellezza della selva; & fare in breve con diligenza tutte le cose, che appartengono alla cura, & custodia de gl’Abeti”.

Nel 1639 le nuove Costituzioni di Camaldoli introducono la Guardia Forestale. Così recita l’articolo 7:
“Molto importa che le selve dei nostri eremi siano ben guardate, e conservate, e però si habbi l’occhio chi sia, e di condizione, il custode di quelle: perciò deve essere giovane, e robusto, che possa una volta, et ancora due bisognando, ogni giorno circondare le selve, et cacciare via gli animali di vicini, et procurare che non si facci danno.” (da G. Cacciamani, L’antica foresta di Camaldoli, Ed. Camaldoli, 1965, p. 31).

Nel 1850 un Regolamento del Priore dell’Eremo documenta la creazione di un Caporale che sovrintende al lavoro dei Taglialegna (Bifolci) e dei Macchiaioli (D.G.B. Casini, Regolamento per i Macchiajoli, 1850, copia ms. Archivio di Camaldoli).
L’ultimo intervento risale al 1866, esattamente due mesi prima della soppressione Sabauda. In via ordinaria era esclusiva competenza del Capitolo di Camaldoli, cioè dell’assemblea della Comunità, prendere tutte le decisioni necessarie per garantire la buona gestione della foresta. In quelle assemblee, i cui Atti Capitolari ci offrono ampia documentazione, spettava al Priore e al Cellerario (economo) dell’Eremo presentare le proposte; dopo la discussione si procedeva alla votazione segreta; decideva solo la maggioranza assoluta (50%+ I). La proposta approvata passava agli Atti Capitolari e neppure il Priore poteva modificarla. Qualora questo si fosse verificato, il responsabile, fosse anche il Priore Generale, incorreva nella ‘scomunica”! E non sembri esagerato il provvedimento, dal momento che la decisione era stata presa dalla Comunità in modo solenne, e dunque, trasgredirla significava “rompere la comunione” con la Comunità stessa. Se, nell’ambito della vita civica, emanare leggi e osservarle è un atto di maturità etica, nella Comunità monastica diviene espressione e testimonianza di condivisione del cammino di fede. Anche questo può diventare monito per tutti noi, cittadini, amministratori e politici! Anche in questo la regola di vita camaldolese può essere richiamo per tutti.
Le maggiori preoccupazioni della suddetta legislazione erano:
I) La custodia della foresta, e in particolare degli abeti, non intesa come “imbalsamazione”: la foresta era “viva” ed era “sacra” e perciò doveva essere “nutrita” con un premuroso avvicendamento che la rinvigorisse. Per il mondo cristiano il sacro non è statico ma dinamico!
2) Da quanto sopra derivava una regolamentazione del taglio degli abeti, controllato da disciplina ferrea.
3) La piantagione degli abeti. I primi documenti al riguardo risalgono al XVI secolo: nella Regola del I520 si disciplinò per la prima volta la messa a dimora dell”Abies Alba”, presente da sempre in quella foresta. Vi fu fissato un numero minimo di 4-5000 abeti l’anno. Anche questo numero andò crescendo, fino ad arrivare ai 30.000 annui del 1801.
4) La vendita degli abeti. La prima documentata risale al 1313, fatta al Fiorentino Guiduccio Tolosini: si trattava di un taglio di 3.000 tronchi, al prezzo complessivo di 2.500 fiorini d’oro. Ciò intensificò il rinnovamento ciclico della foresta che però non fu mai sottoposta a sfruttamento irrazionale. Essa fu sempre difesa, anche quando si prospettò la Soppressione. Proprio in quella occasione nel 1866 i monaci rifiutarono l’offerta di un milione di lire di un ricco mercante di Livorno per un vasto taglio di abeti che avrebbe compromesso l’integrità del patrimonio forestale. 

Nel 1866 la soppressione sabauda ha interrotto definitivamente l’opera forestale dei Monaci Camaldolesi.
Dicevo, introducendo, come, oltre ai libri, la vita della foresta fosse regolata da una miriade di fogli sparsi lungo i secoli, la cui importanza è determinante per documentare la vivace dinamica della silvicoltura camaldolese.
Si tratta di decreti di priori; atti capitolari; tariffari per il prezzo del legname confrontato con quello di altre segherie; note per il pagamento dei barrocciai che trasportavano il legname fino al porto di Poppi, sull’Arno; tabelle per gli stipendi dei dipendenti; ricevute doganali; contratti di vendita del legname; atti di acquisto di nuovi terreni boschivi; liti per lasciti testamentari o per problemi di vicinato, particolarmente vivaci con le confinanti foreste dell’Opera del Duomo di Firenze; lettere che chiedono consigli tecnici; documenti con i quali il Granduca di Toscana nel 1817 affida ai Camaldolesi le suddette foreste dell’Opera del Duomo; memorie presentate al Parlamento del nuovo Stato Italiano dai Comuni del Casentino per scongiurare la soppressione della comunità monastica e della sua foresta; carte della nuova amministrazione demaniale che si serve della competenza tecnica dei “monaci soppressi” e di uno in particolare che lavora a tempo pieno presso il nuovo ufficio statale
Da questa costellazione di fogli è possibile apprendere, passando a volte di sorpresa in sorpresa:
- le tecniche per la rinnovazione del bosco, artificiali per i vivai e naturali tramite il prelievo dei selvaggioni in bosco;
- i tipi di taglio, pochissimi a raso, fitosanitari con ripuliture del sottobosco, e “a scelta” per assortimenti particolari (alberi maestri per navi);
- le strutturazioni coetanee e pure di abete bianco, con l’adozione dei “ronchi utili” per depurare il terreno dai parassiti, con la rotazione di colture, con la rinnovazione naturale che garantiva la selezione;
- la disposizione per spazi conservati alla silvicoltura spontanea;
- l’uso di marchiare a martellatura le piante destinate al taglio;
- le numerose elemosine in legname per i più diversi destinatari;
- le punizioni per i trasgressori delle norme di taglio;
- lo scavo dei laghetti per l’irrigazione dei vivai;
- l’assistenza gratuita ai dipendenti malati, accolti nell’ospedale del Monastero allestito nel 1046 accanto alla Foresteria o Hospitium di Fontebona e gestito dai monaci fino alla soppressione napoleonica del 1810 (da notare che Spedale e Hospitium erano sostenuti nel loro servizio gratuito dall'utile ricavato dall'amministrazione della foresta);
- le pensioni di vecchiaia per gli stessi dipendenti;
- la provvigione della dote di nozze alle figlie dei dipendenti o alle giovani indigenti del territorio;
- le percentuali sugli utili del legname trasportato via fiume concesse al gestore del porto di Poppi;
- il contratto per la fornitura di 360 travi per la ricostruzione del tetto e della soffittatura della Basilica di S.Paolo in Roma, distrutta dall’incendio del 1832.
Questi “Fogli” preziosi sono conservati nell’Archivio del Monastero di Camaldoli e nell’Archivio di Stato di Firenze e sono ora consultabili grazie al lavoro svolto in tre anni di ricerca che ne ha digitalizzato oltre 45.000 permettendo così la pubblicazione di quattro volumi, come risulta dal Sito www.forestaetica.com.

Vi era poi la coltivazione di un orto botanico dove i monaci “speziali” coltivavano le numerose erbe medicamentose (officinali) che si aggiungevano a quelle che spontaneamente nascevano in foresta, usate per la confezione dei medicinali per lo “Spedale” (da G. Ciocci, Cenni storici del S. Eremo di Camaldoli, Firenze 1864, pp.102-104).
E poi ancora gli innumerevoli e diversificati interventi sul territorio e oltre, che provvedevano alla costruzione di lazzaretti, ospedali, opifici o addirittura, in Firenze (XIII sec.), all’edificazione del quartiere popolare di San Frediano, primo esempio di architettura popolare realizzato per venire incontro al problema delle masse contadine che dalle campagne ormai insicure si riversavano in città (fenomeno di urbanesimo allora in corso). Dunque un modo di operare che non nasceva da meri progetti di investimento economico ma dalla preoccupazione di edificare un rapporto con gli uomini e l’ambiente secondo il progetto proposto dalla Parola di Dio rivelata nella Scrittura Giudaico-Cristiana.
E ancora lettere di visitatori, illustri e no, che descrivono l’incanto di quei luoghi che testimoniano “quanto possa operar natura, quando non la si maltratta, e quanto essa contraccambi l’amor dell’uomo”, come scrive Halfred Bassermann nel suo commento alla Divina Commedia di Dante Alighieri, riferendosi proprio alla foresta di Camaldoli, descrivendo il Casentino nel XXX Canto dell’Inferno (vv.64-67).
Si tratta dunque di un materiale veramente prezioso nei contenuti e incalcolabile nella quantità.
Materiale testimone di “un mondo che non è solo una riserva di alberi e di animali, ma che, proprio perché è un mondo, è un risultato di vite, di storie, di processi, di testimonianze, di ricerche, di fatiche, di lotte e di successi, di sconfitte e di vittorie, di solitudini e di incontri non riducibili a un mero problema tecnico ed economico; questo solo non si addice certamente a una realtà viva e perciò depositaria di un mistero che solamente la sua storia può far percepire e che nessun tecnico può mutare ma solo ascoltare e servire perché tale mistero sia conservato. (…) Qui tutti, dalla possente e secolare quercia al trepido e armonioso capriolo, sono depositari di una storia che nessun turista, e tanto meno nessun tecnico, ha il diritto di ignorare (…) soprattutto oggi che questi splendidi luoghi (…) possono rischiare di essere trasformati in doloroso oggetto di consumo, destinato a quell’usa e getta a cui ci stiamo tanto abituando, salvo poi a pagarne tutti insieme e singolarmente le dolorose conseguenze.” (Simone Borchi, Foreste Casentinesi, prefazione di Salvatore Frigerio, pagg.8-9, Ediz. DREAM, 1989).
Oltre ottocentocinquanta anni di lavoro complesso e appassionato che attende di essere conosciuto perché molto può offrire alla conoscenza storica del nostro Paese, alla riflessione di chi non vede nella natura un idolo inappellabile ma una realtà che con l’uomo e per mezzo dell’uomo cammina verso il suo compimento armonico; alla competenza tecnica di chi, oggi, lavora affinché il “servizio all’ambiente” sia sempre più un servizio all’uomo riappacificato con se stesso e con tutto il cosmo. Sono convinto che solo questa riappacificazione possa promuovere quella “qualità della vita” che oggi si ripropone come “esigenza nuova” come segno della capacità insita nell’Uomo di “emergere” dalle sue obnubilazioni passate e presenti, capacità che non deve sfuggire a coloro che nella comunità civile, nella ‘polis”, hanno esattamente il compito di “educare” i rapporti, gestendo e individuando tutti gli strumenti atti a sostenere e a dare compimento a questa vocazione dell’Uomo e dell’Ambiente in comunione tra loro.
È dunque altamente significativo il fatto che l’UNESCO abbia posto  l’attenzione a questa Etica monastica camaldolese nei confronti del rapporto Uomo/Ambiente, avviando il progetto del suo riconoscimento quale Valore Immateriale Universale in questi nostri giorni tanto bisognosi di attenzione amorosamente operativa nei confronti di tutta questa nostra Madre Terra, di questo Giardino che è stato a noi consegnato perché lo “servissimo” (è il termine esatto di Genesi 2,15 che ha un valore cultuale!) per poterlo coltivare.

Posidonia: le foreste sottomarine

Ferdinando Boero

Posidonia oceanica, una delle più importanti piante dell’area Mediterranea, è spesso confusa con un’alga. È invece una pianta con fiori e frutti, che abita i fondali mediterranei dalla superficie fino a 30-40 m e, se l’acqua è particolarmente limpida, anche a profondità maggiori. Come molte altre piante, la posidonia perde le foglie e queste si accumulano sulle spiagge dove, di solito, vengono chiamate “alghe” da chi non sia molto esperto di mare. La città sarda di Alghero deve il suo nome agli ingenti ammassi di foglie di posidonia che si accumulano da tempi immemorabili sulle sue spiagge e che, ovviamente, sono da sempre considerati alghe.
La posidonia ha radici che si insinuano tra le rocce o la sabbia (a seconda del fondale), un fusto, detto rizoma, e un fascio di foglie. I rizomi morti restano sul posto e su di essi crescono i nuovi rizomi, formando piattaforme che innalzano il livello del fondo marino, rendendolo compatto. Le praterie di posidonia sono presenti lungo tutte le coste italiane, con l’eccezione di quelle del centro e del nord Adriatico. Molte specie oggetto di protezione sono rare, ma la posidonia è un habitat prioritario per l’Unione Europea proprio per la grande diffusione delle sue praterie.
Perché sono così importanti?
Il primo motivo, ovviamente, è che sono un’espressione della natura, e già solo per questo meritano rispetto. Ma le praterie di posidonia rivestono grande utilità anche per la nostra specie. Dato che le piattaforme sono vere e proprie biocostruzioni, come le formazioni coralline tropicali, se c’è la posidonia, il fondale è “vivo” e cresce. Se manca la posidonia il fondale va più facilmente in erosione a causa del moto ondoso. Il primo servizio che la posidonia ci offre, quindi, è di proteggere le coste dall’erosione e non è solo la presenza dei rizomi attaccati al fondo a smorzare l’azione delle onde. Le foglie vive, attaccate ai rizomi, infatti, attutiscono il moto ondoso e lo rendono meno devastante. Anche le foglie morte svolgono ruoli importanti. Queste, infatti, sulle spiagge formano ammassi enormi, abitati da una fauna molto particolare, su cui si frangono le onde. Invece di portar via la sabbia, le onde si accaniscono sulle foglie morte che, quindi, sono un’efficace difesa costiera. Le foglie si sfilacciano e le onde le “lavorano” facendole diventare quelle palle di fibre che i biologi chiamano egapropili. Sono in molti a considerare come sporcizia gli ammassi di foglie che, quindi, vengono rimossi. Chi va al mare, spesso, vorrebbe essere come in piscina, e considera “sporcizia” ogni manifestazione della natura. Un grave errore. Assieme alle foglie, infatti, si rimuove anche la sabbia e, tolta la protezione, le onde erodono la spiaggia “pulita”. Oltre a proteggere la costa dall’erosione, inoltre, le praterie di posidonia sono un habitat accogliente per molte specie di pesci di valore commerciale, soprattutto per gli stadi giovanili che trovano rifugio tra foglie e rizomi: la posidonia aumenta la pescosità del mare! Oltre ai pesci, spesso considerati come l’unica manifestazione di un qualche valore della vita marina, la posidonia ospita numerose specie che vivono solo in questo habitat. Si tratta di piccoli invertebrati, e di alghe. La maggior parte della biodiversità è costituita da specie poco appariscenti che, a occhi profani, non rivestono particolare importanza. Sono queste specie a rendere possibile il funzionamento degli ecosistemi e, quindi, anche l’esistenza della fauna che tanto ci piace. Come tutte le piante, inoltre, la posidonia assorbe anidride carbonica e produce ossigeno. Le nostre attività, invece, consumano ossigeno e producono anidride carbonica. La deforestazione è un moltiplicatore del cambiamento climatico dovuto a eccesso di anidride carbonica in atmosfera, e la perdita di praterie di posidonia è una forma di deforestazione, con conseguenze identiche a quelle riscontrate a terra: diminuisce la biodiversità, aumenta l’erosione, si perde il “servizio” di rimozione di anidride carbonica e di produzione di ossigeno.
L’elenco di attività che costituiscono un pericolo per l’integrità delle praterie è molto lungo. La pesca a strascico è illegale nelle praterie di posidonia, ma viene comunemente praticata, assieme a molti altri tipi di pesca che, invariabilmente, lasciano profonde cicatrici nelle piattaforme di rizomi, contribuendo alla loro erosione. Anche l’ancoraggio delle barche da diporto ferisce le piattaforme di posidonia, per non parlare di trincee scavate per far passare condotte sottomarine. La sedimentazione causata dalle attività umane tende a soffocare la prateria: le difese costiere, le massicciate, le discariche sono assolutamente proibite in presenza di posidonia, ma il divieto viene spesso ignorato. Chi non conosce l’importanza della posidonia trova inconcepibile che una qualsiasi attività possa essere proibita per la sua presenza, e persino chi deve far rispettare le regole spesso non è molto sensibile a queste tematiche.
Si innescano così processi di degrado causati da profonda ignoranza. Se gli ammassi di foglie sulla spiaggia sono rimossi, la spiaggia arretra. Ogni metro di spiaggia rappresenta un reddito per i balneari, e così la spiaggia viene ricostituita attraverso opportuni ripascimenti: si deposita sabbia sulla linea di costa, per sostituire quella portata via dal mare. Le foglie che si accumulano vengono opportunamente rimosse, così l’erosione continua. Il mare, invece di portar via le foglie, porta via la sabbia e la deposita sulla prateria, soffocandola. Così, oltre alla protezione delle foglie morte, viene meno anche l’azione di smorzamento delle onde dovuta alla presenza della prateria viva. L’erosione aumenta e i ripascimenti non bastano più. Si ricorre alle difese rigide e si costruiscono massicciate per proteggere il litorale, magari uccidendo gli ultimi resti della prateria. In questo modo si sostituisce una costa rocciosa (la massicciata) alla costa sabbiosa, e spesso si forma una lagunetta putrida tra la massicciata e la spiaggia, oramai priva di qualunque attrattiva. Il processo può richiedere molti anni e avviene in modo graduale, così si stenta a comprendere quali siano le cause di questa catastrofe. La spiaggia che si voleva proteggere e “pulire”, magari per avere un reddito con la gestione degli stabilimenti balneari, viene distrutta. Finita la posidonia, il mare è anche meno pescoso e la varietà dei pesci diminuisce.
Come spesso avviene quando si distrugge il capitale naturale (in questo caso la posidonia) per incrementare il capitale economico (la gestione della spiaggia a fini turistici), nel lungo termine si hanno svantaggi economici (in termini di perdita di metri di spiaggia) ben superiori rispetto agli iniziali vantaggi. Distruggere la natura non conviene neppure economicamente.

Queste le cattive notizie, ma ve ne sono anche di buone. Il Mediterraneo, cinque milioni di anni fa, si prosciugò quasi completamente e restarono solo lagune molto salate nelle aree più profonde. Questo periodo di regressione viene chiamato Crisi del Messiniano. Alcune specie che abitavano quel mare quasi prosciugato (la Tetide) sopravvissero e ripresero il loro spazio quando, aperto lo stretto di Gibilterra, l’acqua dell’Atlantico entrò a costituire il Mediterraneo odierno. La posidonia è un “relitto tetideo”: una specie che è sopravvissuta alla crisi del Messiniano. Dagli stagni sul fondo dell’antica Tetide, la posidonia è risalita verso la superficie man mano che si innalzava il livello del nuovo mare: il Mediterraneo.
Le nuove condizioni, però, probabilmente non erano così favorevoli ad una specie che vive in condizioni di elevata temperatura e salinità. Nella parte settentrionale del Mediterraneo, a memoria d’uomo, la posidonia si è riprodotta solo asessualmente, con nuovi rizomi originati dai vecchi rizomi, senza produrre fiori e frutti e senza produrre, quindi, nuove piante attraverso la riproduzione sessuale. Le fioriture di posidonia si osservavano soltanto sulle coste africane del Mediterraneo.
A partire dagli anni 80 del secolo scorso, però, le fioriture di posidonia sono diventate via via più frequenti, assieme all’attecchimento dei semi e la nascita di nuove piante per riproduzione sessuale. Siamo tutti preoccupati per il riscaldamento globale, ma pare che l’innalzamento della temperatura del Mediterraneo stia favorendo la pianta più importante del bacino che, quindi, potrebbe anche affrontare con maggiore resistenza le traversie dovute alle nostre pratiche dissennate. La riproduzione sessuale, inoltre, tende a far aumentare la variabilità genetica e permette una diversificazione su cui agisce la selezione naturale: le varianti più idonee tendono a prevalere su quelle più deboli e la specie si “rinforza”.
È ancora presto per poter dire che la posidonia è in ottime condizioni, visto che nel Mediterraneo orientale, e precisamente in Libano, è recentemente scomparsa a causa dello sconsiderato sviluppo costiero e dell’inquinamento. Sono inoltre pochissimi gli studi sull’impatto sulle piante marine degli erbicidi usati in agricoltura: i pesticidi dilavano in mare attraverso le falde e i fiumi e, come sono programmati per uccidere le piante nocive all’agricoltura, così potrebbero avere effetti negativi sulle piante marine. Questo campo di indagine è ancora quasi inesplorato.

Le associazioni ambientaliste hanno maturato, negli ultimi decenni, una sensibilità ai temi ambientali che va ben oltre le specie carismatiche che tutti ben conosciamo. Se è facile puntare sull’emotività del grande pubblico chiedendo la protezione di animali come i delfini o le tartarughe, è senz’altro più difficile convincere chi è digiuno di questioni ambientali che non bisogna “pulire” le spiagge dalle foglie morte di posidonia e che quegli ammassi sono una benedizione per l’ecologia costiera.  L’alfabetizzazione ecologica è ancora un pio desiderio che renderà finalmente effettiva la conversione ecologica predicata da Papa Francesco in Laudato Si’. Per convertirsi a una scienza, l’ecologia, è necessario conoscerla. Nei percorsi di formazione, dalle elementari alle medie superiori, l’ecologia trova pochissimo spazio e viene spesso sacrificata per approfondire altre discipline. Si tratta di un errore madornale: non si può proteggere e rispettare ciò che non si conosce, e non si può concepire la natura solo come manifestazione estetica (il paesaggio e gli animali carismatici) senza comprendere il ruolo essenziale delle specie apparentemente poco importanti, come la posidonia. Ancora trattata alla stregua di spazzatura che lorda le spiagge e che deve essere prontamente rimossa.

Foreste al macello

Riccardo Graziano

È di qualche settimana fa il rapporto di Greenpeace “Foreste al Macello”, che mette in luce il rapporto tra la carne che viene importata in Europa e Italia dal Sudamerica e la deforestazione in atto in quei territori, in particolare nell’Amazzonia brasiliana.
L’organizzazione ambientalista spiega nel dettaglio come avviene in genere il processo che porta a insediare allevamenti intensivi di bovini nelle zone di foresta disboscata: “La foresta, che appartiene al pubblico demanio, viene distrutta (spesso illegalmente) e trasformata in pascoli da una determinata azienda agricola; tramite un’autodichiarazione, l’azienda agricola iscrive l’area forestale, deforestata e occupata, nel Registro Ambientale Rurale per regolarizzarne la proprietà; dopo un certo periodo di tempo, gli animali che pascolano sull’area deforestata vengono venduti a un’altra azienda agricola che opera in aree non legate a deforestazione; la nuova azienda agricola acquista regolarmente il bestiame e lo vende a un macello o ad aziende di lavorazione della carne; le aziende di lavorazione della carne la rivendono sul mercato nazionale o internazionale; nei nostri fast-food, ristoranti, supermercati arriva, assieme ad altre produzioni, carne prodotta a scapito delle foreste, di cui spesso i rivenditori europei ignorano l’origine”.
Infatti i vari passaggi servono proprio a “confondere le acque”, cioè a nascondere la “reale provenienza della carne, occultando il legame fra produzione della carne e deforestazione”. Per accertare il reale luogo di provenienza occorrerebbe un’indagine approfondita sulla filiera di produzione, cosa che in genere non viene fatta, per cui è possibile che la carne venduta da noi sia “contaminata” dalla deforestazione.
Nel rapporto, asserisce Greenpeace “abbiamo analizzato il caso dell’azienda agricola Paredão, edificata e avviata all’interno del parco statale Ricardo Franco, nello stato del Mato Grosso in Brasile. L’area è classificata come protetta e Paredao è accusata di spostare il bestiame fuori dal parco prima di venderlo, per nascondere il legame delle sue attività con le aree deforestate illegalmente nel Parco. Secondo le nostre indagini, tra aprile 2018 e giugno 2019, l’azienda Paredão ha venduto 4.000 capi di bestiame all’azienda Barra Mansa, che si trova fuori dai confini del Parco. Barra Mansa rifornisce le principali aziende di lavorazione della carne del Brasile: JBS, Minerva e Marfrig, che a loro volta esportano carne in tutto il mondo, Italia inclusa”.
È già di per sé singolare il fatto che si consenta l’insediamento di una simile attività produttiva all’interno di un parco. In questo caso è poi particolarmente grave, visto che l’area protetta, come ci evidenzia la stessa Greenpeace, presenta caratteristiche peculiari di notevole rilievo: “Il parco statale Ricardo Franco, creato nel 1997, copre un’area di 158 mila ettari (una superficie superiore all’estensione della città di Roma) e si trova al confine tra il Brasile (stato del Mato Grosso) e la Bolivia, dove si incontrano l’Amazzonia, il Cerrado, la savana più ricca di biodiversità del Pianeta e il Pantanal, la più grande zona umida del mondo. Si tratta quindi di un’area preziosa, in cui interagiscano specie animali e vegetali uniche, dando origine a una biodiversità ricchissima che include 472 specie di uccelli e numerosi mammiferi in via di estinzione, come il formichiere gigante. Nonostante la sua importanza, il parco non è mai stato adeguatamente protetto e nel corso degli anni il 71 per cento della sua estensione è stato occupato da 137 aziende agricole, interessate a creare pascoli per bestiame destinato al macello, a scapito della foresta”.
Questo disastro ecologico, che va a incidere su uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta e su una riserva di biodiversità unica al mondo, avviene con la complicità (inconsapevole?) degli importatori europei, che non si curano particolarmente di capire quale sia la reale provenienza della carne importata dal Sudamerica, nonostante siano ormai numerose le evidenze che dimostrano come troppo spesso la produzione avviene a scapito della foresta. In particolare, Greenpeace stima che: “i consumi nell’Unione europea sono legati al 10 per cento della deforestazione globale, che avviene prevalentemente al di fuori dei confini dell’Ue”.
Il problema è legato principalmente alle aziende importatrici, ma non bisogna dimenticare che “i cittadini europei – ammonisce Greenpeace – rischiano di essere complici inconsapevoli della distruzione di foreste fondamentali per il Pianeta, come l’Amazzonia”. Per tale motivo l’organizzazione ambientalista ha chiesto alla Commissione europea “di presentare rapidamente una normativa che garantisca che carne e altri prodotti, come la soia, l’olio di palma e il cacao, venduti sul mercato europeo, soddisfino rigorosi criteri di sostenibilità e non siano legati alla distruzione o al degrado degli ecosistemi naturali e alle violazioni dei diritti umani”.
È importante sottolineare, infatti, che la deforestazione, oltre a incidere sui meccanismi del riscaldamento globale e contribuire alla perdita della biodiversità, spesso va a colpire le popolazioni indigene, che vedono ridursi i territori e le risorse che permettono loro di vivere da sempre in armonia con l’ambiente che li circonda. Per tale motivo, esorta Greenpeace “multinazionali e governi devono impegnarsi immediatamente ad interrompere le relazioni commerciali con chi distrugge biomi essenziali per le persone e il Pianeta!”.
Un monito rivolto ai vertici, ma che occorre declinare anche a livello di noi cittadini/consumatori. Infatti, occorre sottolineare che, in definitiva, sono le nostre scelte a orientare il mercato: diminuire il consumo di carne – come evidenziato da numerosi studi e rapporti internazionali – è uno dei metodi più efficaci per ridurre il nostro impatto sul pianeta, sia in termini di emissioni nocive, sia per porre un freno alla deforestazione e alla perdita della biodiversità.
Soprattutto, è un modo per tutelare la nostra salute, visto che gran parte delle epidemie degli ultimi anni, compresa l’attuale, devastante Covid-19, appartiene alla categoria delle zoonosi, ovvero malattie di provenienza animale spesso causate dall’insediamento di allevamenti in territori un tempo coperti di vegetazione naturale. È proprio in quei luoghi, infatti, che ci sono le più elevate possibilità di spillover, ovvero il cosiddetto, temutissimo “salto di specie”, quello che porta virus sconosciuti a passare dagli animali selvatici a quelli domestici e da questi all’uomo.

Tratto da Agendadomani (www.agendadomani.it)