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Inquinamento e virus

Riccardo Graziano

 

Parecchi studi indicano una relazione fra i livelli di inquinamento dell’aria e l’incidenza delle epidemie. La letteratura scientifica in materia è già consistente ed è probabile che l’attuale emergenza da Covid-19 fornirà ulteriori evidenze in tal senso, come i primi dati empirici sembrano indicare. L’inquinamento agevola la propagazione del contagio in duplice modo, indebolendo le nostre difese e facendo da vettore ai virus.

Il primo effetto è quello di abbassare le nostre difese immunitarie, ovvero la naturale barriera del nostro organismo contro l’azione dei patogeni. Uno studio sulle sindromi influenzali e similari ha rimarcato che l’esposizione agli inquinanti più comuni (particolato fine PM 2,5 e PM 10, ossidi di azoto NOx, ozono O3, monossido di carbonio CO) provoca danni alla copertura epiteliale delle prime vie aeree e inibisce la capacità dei nostri anticorpi di contrastare l’infezione.

Particolarmente interessante uno studio epidemiologico sulla SARS - il cui agente scatenante è un virus con caratteristiche simili all’attuale responsabile della Covid 19 - che ha analizzato la virulenza della sindrome in Cina, giungendo alla conclusione che l’inquinamento atmosferico era da considerare in correlazione con l’aumento delle percentuali di mortalità dei pazienti. Analoghe relazioni hanno individuato questo collegamento anche nel caso di altre epidemie esplose negli ultimi anni, fino ad arrivare a quella che stiamo subendo attualmente.

In questi giorni è stato pubblicato uno studio della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) che evidenzia la connessione fra gli elevati livelli di PM registrati in determinate giornate dalle centraline di rilevamento dell’ARPA e l’impennata di contagi da Coronavirus. Dati che peraltro ricalcano e confermano quelli delle ricerche effettuate sulle precedenti epidemie, dai quali risulta che spesso i focolai sono concentrati in zone con elevati livelli di inquinamento, come la Cina e la nostra Pianura padana.

È stato rilevato come il virus, grazie a un processo di coagulazione, sia in grado di legarsi al particolato presente in atmosfera, cosa che gli consente di sopravvivere più a lungo in attesa di penetrare all’interno di un organismo recettore. Evidente quindi che maggiore è la quantità di particolato in atmosfera, più ci sono probabilità di mantenere alto il numero dei virus in circolazione. Dunque cresce il rischio di infezione, sia per quanto riguarda il numero di potenziali contagi sia, soprattutto, per l’incidenza percentuale delle forme più acute.

In questo senso, il calo delle attività produttive e, conseguentemente, della mobilità e dell’inquinamento ci tutela doppiamente, sia dalla minaccia di veicolare il virus, sia in generale per la migliore qualità dell’aria che introduciamo nei polmoni. In questi tempi drammatici di Covid-19 non bisogna infatti dimenticare un’altra emergenza epidemiologica non meno letale, che tuttavia non sembra destare preoccupazione perché meno evidente.

Secondo quanto asserisce l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento è causa diretta di un numero impressionante di morti premature: a livello mondiale circa 8 milioni di persone all’anno, 80.000 in Italia, oltre 200 al giorno. Una strage silenziosa che non riempie le prime pagine dei quotidiani e non viene affrontata con la stessa determinazione con la quale – giustamente – stiamo combattendo questa epidemia. Paradossalmente però, proprio le misure prese per contrastare la Covid-19, col blocco del traffico e di molte attività produttive, potrebbero ridurre anche queste morti premature, grazie alla drastica diminuzione degli inquinanti.

È chiaro però che la terapia shock di questi giorni non sarebbe sostenibile sul lungo periodo. Ecco dunque che questa pandemia, con le misure draconiane che ha imposto, potrebbe anche essere occasione per ripensare il nostro sistema produttivo e socio-economico, per renderlo maggiormente sostenibile dal punto di vista della salute delle persone e dell’ambiente. L’attuale situazione di crisi ci dà la possibilità di riconsiderare concetti paradigmatici come “crescita” e “sviluppo” sostituendoli con “progresso”, che sembra un sinonimo, ma non lo è. Perché i primi due sono concetti preminentemente quantitativi, mentre il progresso è un fatto qualitativo.

Buttare tonnellate di cemento e asfalto in nome dello “sviluppo” farà anche crescere il PIL, ma questa emergenza ci dovrebbe aver insegnato che le cose importanti sono altre, come la possibilità di poter contare su un sistema sanitario efficiente, in grado di salvarti la vita anche in condizioni estremamente critiche. Questo è progresso: riuscire a curare mali che sembravano incurabili, aumentare benessere e qualità della vita delle persone di qualunque età.

Ma per fare questo occorre investire in didattica, educazione, formazione, ricerca, tecnologia. Forse il dramma che stiamo vivendo servirà a farci cambiare direzione verso nuove prospettive, che mettano al centro la persona anziché il profitto. Per poi magari scoprire che, investendo in salute e tutela dell’ambiente, anche l’economia potrebbe trarne giovamento.

 

Malattia e ambiente

Franco Rainini

Moltissimi, in questi orribili giorni, si sono ritrovati a sfogliare le vecchie edizioni scolastiche dei Promessi Sposi, a cercare in fondo al libro la storia della peste di Milano e a trovarvi traccia di un elemento di logica e di continuità storica e culturale con l’inatteso presente che stiamo affrontando. Le pagine del Manzoni sono per tutti noi che abbiamo vissuto, almeno in misura preponderante, in tempi di pace, (percepita) prosperità e salute assicurate, possono forse essere un pezzo di questo elemento, il primo tratto del percorso che dobbiamo fare.

L’esigenza che sentiamo, forse tutti, è ritrovare senso e continuità con quello che era la nostra vita normale solo un mese fa, recuperare nella nostra esperienza, nella nostra cassetta degli attrezzi, ciò che spiega il presente e dà speranza a quello che deve arrivare. Per questo rileggiamo il XXXI e XXXII Capitolo del librone che ci è stato somministrato all’inizio dell’adolescenza e che mai avremmo pensato di poter sperimentare nella nostra esistenza.

Pagato il debito dovuto con il nostro passato più remoto, a chi è impegnato nel volontariato e nella militanza ambientalista, è subito evidente che nella narrazione del presente vi è una grave imprecisione: da più parti questa epidemia è stata descritta come un “cigno nero”, un evento imprevedibile che cambia il paradigma d’interpretazione della realtà, tanto inaspettato quanto il meteorite che sterminò i dinosauri, o la fortuita circostanza che provoca un incidente. Come ambientalisti dobbiamo quietamente dissentire da questa spiegazione. Nelle scienze biologiche e umane la dipendenza tra malattie e cicli storici è stata ampiamente dibattuta, ognuno di noi ha letto volumi di divulgazione scientifica o antropologica dove questi legami sono trattati e messi a disposizione del grande pubblico; negli ultimi decenni gli avvisi della possibilità di una grave crisi sanitaria sono stati numerosi e una vera e propria catastrofe epidemica, Ebola, ciclicamente si riattiva e si spegne dal 1976 in Africa, su un substrato di permanente crisi politica, ecologica, sanitaria e alimentare.

I cambiamenti ambientali (di cui quelli climatici sono solo un aspetto) e la velocità delle comunicazioni sono occasione del rapido diffondersi delle malattie. È falso sostenere che non si è posta attenzione a questi aspetti, la ridotta bibliografia in calce è un ridotto campione di quanto si può trovare in libreria e sulla rete. Piuttosto pare che l’attenzione scientifica e la consapevolezza che deriva dal nostro terribile passato di miseria e di epidemia non abbiano influito sulla valutazione del sistema di relazioni con l’ambiente e tra di noi, abitanti diverse parti del mondo.

La peste e il Manzoni ci suggeriscono un primo spunto di riflessione: nel libro è raccontato come l’arrivo della peste abbia causa nel passaggio dell’esercito imperiale attraverso la Lombardia, Manzoni ha cura di riferire l’episodio del soldato tedesco sbandato che, nell’opinione dell’epoca, avrebbe avviato il contagio. Oggi che l’origine e l’ecologia della peste sono più noti, sappiamo che il singolo evento non fu verosimilmente tanto determinante, quanto lo fu invece lo stato di confusione sociale, i movimenti di persone all’interno della zona oggetto del conflitto, la mutata conseguente relazione tra gli ambienti di vita e le popolazioni di roditori sinantropi. Questa questione è trattata in un articolo americano del 1969 sul ruolo dei roditori nella (possibile) diffusione della peste nel Vietnam, allora in stato di guerra con la presenza di 500.000 soldati americani su quel territorio. La peste in quella regione era certamente argomento di grande preoccupazione per gli Stati Uniti, anche per la possibile importazione del contagio favorita dal grande e rapido scambio di persone e materiali tra i due paesi. Un passo delle conclusioni dell’articolo di oltre cinquant’anni fa è, alla luce di quello che sta succedendo oggi, premonitore : ”l’attuale situazione in RVN (Vietnam del Sud) è tale che sussiste un potenziale di diffusione internazionale. Topi e pulci infetti di peste sono stati raccolti dentro e intorno a molti dei grandi porti e aeroporti e un importante serbatoio epidemico, Rattus exulans, è stato trovato in un crescente numero di navi ed aerei arrivati negli USA dal Vietnam. Gli attuali viaggi aerei in jet sono capaci di portare, topi, pulci ed esseri umani infetti in ogni parte del mondo in poche ore” (20). Quindi nel 1969 vi era già piena consapevolezza dei rischi di diffusione delle malattie create dalle condizioni combinate del disagio sociale e ambientale creato dalla guerra, insieme alla velocità dei trasporti.

Gli aspetti più squisitamente ecologici delle epidemie sono stati trattati da numerosi autori, uno dei contributi più interessanti è quello fornito da Richard Ostfeld sugli studi della malattia di Lyme, trasmessa da zecche del genere Ixodes all’uomo. La zecca vive in ambiti forestali e compie il ciclo su numerose specie di mammiferi. Gli studi presentati nel libro di Ostfeld (1) sono stati effettuati con il monitoraggio di migliaia di piccoli mammiferi nelle foreste del Nord Est degli Stati Uniti e hanno portato a conclusioni di grande importanza. I primi capitoli del libro servono a dissipare la presunta attribuzione a specie selvatiche (cervi, roditori …) della responsabilità della diffusione della malattia, che, presente anche da noi, è diventata un fattore di allarme sociale e sanitario negli Stati Uniti, tanto da comparire persino in diverse serie televisive.

Nei capitoli successivi l’autore focalizza l’attenzione sui cambiamenti dell’ambiente forestale nell’area di studio, fino a dimostrare il collegamento tra la diffusione della malattia e la perdita di biodiversità, anche in questo caso, come in quello raccontato oltre, l’autore pone l’accento sull’importanza della continuità forestale. Ciò che è alla base del mantenimento ed estensione dei corridoi ecologici: “Così la biodiversità di vertebrati, ottenuta evitando la frammentazione forestale, ci protegge dall’esposizione al morbo di Lyme (pag. 118)”, affermazione questa abbastanza interessante alla luce delle polemiche sul ritorno dei grandi predatori da noi.

In altra parte del testo la diffusione (prevalenza) dell’agente infettante, dei vettori, e delle specie serbatoio è posta in relazione con le dinamiche della componente arborea della foresta, condizionata in ampie zone del nord America dalla presenza del lepidottero defoliatore Lymantria dispar, importato intenzionalmente dall’Europa per tentare, invano, di sviluppare un’alternativa al baco (Bombyx mori) per la produzione della seta: “le esplosioni demografiche della falena hanno diversi potenziali impatti sulle zecche e sul rischio di esposizione al morbo di Lyme. In primo luogo la defoliazione toglie l’ombreggiamento del suolo che diventa più caldo e secco d’estate, causando una temporanea riduzione delle zecche. In secondo luogo la produzione di ghiande richiede l’accumulo di riserve da parte delle piante nel corso di diversi anni, una defoliazione pospone di almeno un anno la produzione di ghiande, alterando la dinamica delle popolazioni di arvicole, ospiti delle zecche. In terzo luogo attraverso la morte delle querce, può accelerare il declino di queste specie, come avviene in gran parte degli Stati Uniti. Quest’ultimo fenomeno può avere effetti di lungo termine sulla malattia di Lyme, stabilizzando la popolazione di zecche, generalmente sottoposta a fluttuazioni (pag. 107)”. Si conclude che il fenomeno indagato può avere effetti diversi nel breve e lungo periodo sulla malattia e l’effetto definitivo può rivelarsi opposto e sfavorevole. Anche in questo caso è facile rintracciare nella nostra esperienza di ambientalisti esempi diversi di mezzi messi in atto per riparare a danni immediati che si rivelano disastrosi sul lungo periodo.

Quest’ultimo passo scritto da Ostfeld oltre dieci anni fa sembra anche profetico della situazione attuale: “L’approccio molecolare non ha avuto molto successo (ma anche meno) nel dirigere gli interventi di prevenzione [delle malattie veicolate dagli animali], pure l’interesse e il supporto per questo obiettivo continua ad accelerare. Questo è bene. Ma fino a quando noi avremo creato, prodotto in scala e distribuito vaccini sicuri, economici ed efficaci per ogni patogeno emergente, o rimpiazzato le popolazioni selvatiche di vettori con altre geneticamente modificate, incapaci di trasmettere i patogeni le conoscenze ecologiche rimarranno indispensabili. In altre parole le conoscenze ecologiche saranno sempre indispensabili”. Oltre al significato per l’accaduto questo passaggio contiene un giudizio implicito sull’uso delle tecnologie genetiche immesse negli ambienti naturali (pag. 185).

L’effetto della forestazione sulla diffusione della malaria, in ambito tropicale, è indagato in un altro articolo, cofirmato dal grande ecologo Richard Levins (18). L’articolo tratta sessanta esempi di cambiamenti nell’uso del suolo che hanno comportato cambiamenti nell’ecologia del vettore (la zanzara anofele). Il risultato dell’indagine è che la deforestazione e lo sviluppo di coltivazioni intensive, che – è bene ricordarlo – sono destinate alla produzione di beni esportati verso i paesi ricchi, provocano condizioni favorevoli alla malaria. Anche in questo caso la gestione della foresta è particolarmente rilevante alle condizioni di sviluppo della malattia.

Procedendo in questo parziale elenco delle emergenze sanitarie collegabili a squilibri ambientali, è opportuno ricordare i focolai di Hendra Virus che si sono verificati in Australia dagli anni ’90. L’interesse per queste vicende deriva soprattutto dal largo dispiego di elementi conoscitivi che hanno permesso di ricostruire con sufficiente chiarezza lo sviluppo delle vicende e la loro genesi (21). Oltre che dalle grandi capacità di chi ha effettuato gli studi, si deve considerare il fatto che la malattia ha colpito un paese ricco e un settore particolarmente ricco. Hendra ha ucciso cavalli, allevatori di cavalli e veterinari in una regione un tempo coperta da foresta primaria (Queensland), che nel tempo è stata notevolmente antropizzata. Lo studio citato illustra come il cambiamento nell’ecologia delle volpi volanti (pipistrelli frugivori) ha portato questi animali a diventare stanziali presso le aree verdi intorno alle città, modificando così nel contempo l’ecologia del virus, che un tempo generalmente diffuso e universalmente presente all’interno delle popolazioni di chirotteri, è diventato anch’esso frammentario nella distribuzione e più violentemente epidemico negli scoppi di focolai. L’alta emissione di virus emessa dalle popolazioni recentemente contagiate ha permesso il salto di specie verso i cavalli e da questi all’uomo. Una descrizione particolarmente efficace del contesto in cui si è sviluppata la malattia è presente in Quenman (19).

La storia di Hendra ha anche un’altra evidenza: focolai di virus simili si sono registrati in Asia (nipah virus). Anche in questo caso la genesi della malattia è stata individuata da cambiamenti ecologici che hanno interessato le volpi volanti e hanno portato questi animali a contatto con l’uomo.

Genesi simile e risultati assai più disastrosi ha avuto anche il fenomeno Ebola. Le cronache di questa malattia sono terrificanti, mentre le prove del legame che esiste tra il degrado ambientale e il morbo sono diventate via via più robuste e infinito è l’elenco delle pubblicazioni che lo supportano; in bibliografia sono riportati solo alcuni esempi (4, 5, 10, 11, 12). Altri spunti di riflessione e un resoconto particolarmente appassionato e toccante si trovano nel già citato libro di Quenmen(19).

Secondo gli autori citati, in particolare Wallace, molti, se non tutti i focolai e le epidemie di Ebola sin qui registrati, sono da collegarsi con eventi di intrusione dell’uomo che modifica la foresta, a partire dai primi casi registrati.

Per quanto riguarda l’ultima epidemia per cui è stato prodotti un gran numero di studi, quella in Africa Occidentale, partita da un focolaio in Guinea ed estesasi soprattutto attraverso quel paese, in Liberia ed in Sierra Leone, sotto attenzione e oggetto di modellazione matematica è stato il cambio del sistema agroecologico di coltivazione della palma da olio, coltura tradizionalmente diffusa in quei territori: la palma da olio oggi estesa in tutto il mondo, ben oltre i limiti del suo areale storico, e a parere di molti molto più diffusa in forma intensiva di quanto doveva essere.

L’ambiente dove è esplosa l’epidemia è così descritta dagli autori (4): “l’immagine mostra un arcipelago di appezzamenti di olio di palma nel supposto “ground zero” dell’infezione. L’uso del suolo appare come un mosaico di villaggi circondati da densa vegetazione, interrotta da piantagioni di fruttiferi, un ambiente adatto ai pipistrelli frugivori, cruciale serbatoio di Ebola”. Anche in questo caso la deforestazione avrebbe provocato un cambiamento nelle modalità di alimentazione dei pipistrelli che avrebbero una maggiore frequente presenza sulle coltivazioni di palma da olio. In questo caso sarebbe quindi il cambiamento nella destinazione d’uso del suolo in una, isolata località del nord della Guinea ad innescare la disastrosa epidemia. In altri studi (10, 11), tra cui quello condotto dal Politecnico di Milano, si pone in rilievo come la frammentazione della foresta sia condizione compatibile alla comparsa dell’epidemia.

Sono presenti diverse specie di Ebola, una di queste è Reston Ebolavirus (Rebov), unica presente in Asia. Questa malattia ha colpito gli allevamenti industriali di suini nelle Filippine ed in Cina. In questi paesi si è assistito negli ultimi decenni a forte intensificazione degli allevamenti suini, nelle Filippine la deforestazione e la conseguente riduzione delle popolazione di volpi volanti ha favorito il passaggio del virus dal chirotteri ai maiali. Ovviamente la preoccupazione che questo virus possa fare un altro salto di specie, dai maiali all’uomo, è ampiamente diffusa e oggetto di dibattito.

Il salto di specie dagli animali di allevamento all’uomo è evidentemente un anello della catena di passaggio dall’ambiente naturale in sofferenza: esso è del resto ampiamente presente e dimostrato. Non è un fatto nuovo ed è connaturato all’addomesticamento degli animali. Gli esempi si sprecano. In una recente intervista (13) la virologa Ilaria Capua ricorda l’origine zoonotica (cioè frutto di un salto di specie dai bovini all’uomo) del morbillo, lo stesso può dirsi per altre malattie come il vaiolo (la cui profilassi ha battezzato il termine vaccino, essendo in origine effettuato traendo l’essudato dalle pustole del vaiolo bovino). L’esempio più terribile è quello dell’influenza aviaria, da cui si è originata l’epidemia di influenza Spagnola, a cavallo della fine della prima Guerra Mondiale. Anche se la terribile virulenza di quell’evento è stata amplificata dalle particolari condizioni sanitarie e alimentari del periodo, la preoccupazione di un nuovo passaggio altamente aggressivo sulla nostra specie si ripropone ciclicamente, ed era certamente una ipotesi considerata assai più probabile dell’evento che ci sovrasta oggi.

Il punto cruciale è l’intensificazione delle produzioni zootecniche, un problema devastante per molte ragioni: le condizioni di allevamento incompatibili con le necessità del benessere animale, la trasformazione dei nutrienti minerali (azoto e fosforo) presenti nei reflui degli allevamenti in inquinanti che minano il sistema idrologico. Anche il rischio di diffusione di malattie all’interno del ciclo degli allevamenti e da questi verso l’uomo è un grave segnale di insostenibilità. È di pochi mesi fa la diffusione della peste suina africana in Cina, che ha condotto all’abbattimento di centinaia di milioni di maiali in quel paese, che è il maggiore allevatore mondiale di suini. Questo fatto è stato paventato come una possibile catastrofe nazionale, perché l’eventuale introduzione in Italia avrebbe compromesso la fiorente esportazione dei rinomati prodotti di carne suina made in Italy. Purtroppo è successo di peggio.

Il passaggio dall’allevamento tradizionale alle concentrazioni proprie degli allevamenti industriali ha modificato la probabilità e l’intensità degli eventi epidemici, la contemporanea perdita di ambienti o connettività naturali – soprattutto nelle aree tropicali – porta e definire lo scenario descritto da Wallace (5): “Mentre molti patogeni selvatici si estinguono con le loro specie ospiti un sottoinsieme di infezioni che una volta si estinguevano in modo piuttosto veloce, a seguito di incontri occasionali nella foresta ora si propagano attraverso la suscettibile popolazione umana [e attraverso quelle dei suoi animali d’allevamento], la cui vulnerabilità all’infezione è esacerbata negli ambienti urbani” Questa riflessione è stata pubblicata su un libro della Springer (di limitata diffusione) alcuni anni prima dell’esplosione del Covid 19, in modalità praticamente uguale a quella annunciata.

Per la verità un elemento di sorpresa nell’esplosione di questo coronavirus è presente, in Big Farm Make Big Flu (2) lo stesso autore sembrava suggerire che “The Next Big One”, la futura grande epidemia che sembra si sia realizzata in questi giorni, potesse prodursi dal sistema agro-industriale e avere la forma di una influenza, così non è (ancora) stato, ma gli elementi a sostegno di questo rischio sono numerosi. Secondo l’autore un predatore o un parassita sono limitati nel loro sviluppo dal numero e dalla suscettibilità delle loro prede o ospiti: un parassita troppo efficiente stermina la coorte di ospiti con cui viene a contatto e riduce la sua possibilità di diffusione.

Inoltre una diversa suscettibilità degli individui presenti all’interno della popolazione ospita limita lo sviluppo del parassita. Le condizioni di allevamento eliminano questi due vincoli. Tutti gli animali condividono un patrimonio genetico sostanzialmente comune e sono tanto ammassati da poter escludere l’ipotesi di esaurimento delle possibilità di contagio. In più, gli allevamenti sono spesso concentrati in aree geografiche limitate (il Minnesota è la zona di elezione per l’allevamento dei tacchini, mentre la Provincia di Brescia e il Veneto Occidentale vedono la maggiore concentrazione di allevamenti avicoli in Italia). Il risultato è ovviamente una maggiore esposizione alle catastrofi epidemiche. Il passaggio della malattia alla popolazione umana concentrata avrebbe gli effetti che sperimentiamo nella diversa contingenza attuale.

Per le ragioni sopra riportate (certo parziali e suscettibili di essere ulteriormente ampliate citando ad esempio i casi degli arbovirus, la cui diffusione è certamente favorita dai cambiamenti climatici) si deve ritenere che non siamo di fronte a nessun evento imprevedibile, non c’è nessun cigno nero all’orizzonte e quanto era successo si poteva prevedere, certo non nel particolare meccanismo che si è creato: ma proprio la sua imprevedibilità ci riporta alla necessità di applicare alle questioni ambientali quel principio di precauzione, spesso inutilmente invocato di fronte ai rischi individuali, come quelli legati alla sicurezza sul lavoro o alla sicurezza alimentare (8).

È ancora opportuno ricordare che la necessità di adattare l’ambiente in cui si compie la nostra vita alle nostre necessità ecologiche non è appannaggio di qualche specialista ecologo o epidemiologo, slegato dal pensiero comune del main stream delle politiche sanitarie. Le convenzioni, i trattati e le carte espresse dalle varie conferenze sulla salute delle Nazioni Unite contengono direttamente o in modo mediato impegni per la creazione di un ambiente che promuova la salute. L’incapacità oggi evidente di assicurare che tali principi diventassero agenti operativi nel senso auspicato è forse il principale problema politico che l’umanità deve affrontare.

Siamo forse di fronte a un cambiamento importante che manderà in frantumi molto di quello che abbiamo sino ad oggi considerato sicuro e consolidato, in un recente post su Facebook uno scienziato americano (epidemiologo) afferma che nessun epidemiologo sopravvive a una pandemia, la sopravvivenza (si spera) è da interpretarsi in senso figurato come la necessità di adeguare il paradigma di conoscenze alla nuova terribile novità.

Lo stesso potrebbe essere detto per i politici, gli economisti, i dirigenti industriali. Le sollecitazioni presenti nei testi elencati in bibliografia, e in gran parte citati nel testo, devono forse diventare patrimonio comune e elemento di indirizzo, molte cose devono necessariamente cambiare.

Certamente il movimento ambientalista deve riconoscere nel doloroso passaggio che stiamo attraversando una conferma dei moniti e delle previsioni avanzate fin dall’inizio della sua storia. Da alcuni anni la crisi ambientale è diventata sui mass media sinonimo di cambiamento climatico, dimenticando i diversi aspetti che presenta e soprattutto le profonde interrelazioni che esistono tra questi.

In un libro curioso e interessante scritto dal singolare biologo tedesco di origine lituana Jakob von Uexkull, il cui cui titolo è “Ambienti umani e ambienti animali” (in italiano edito da Quadliber), l’autore – tra l’altro amico del filosofo tedesco Heidegger – svolge una critica all’approccio meccanicista proprio della fisiologia classica dell’epoca. In particolare adotta la metafora della macchina e del macchinista per enfatizzare la presenza di una soggettività dell’animale che ha un proprio ambiente definito dagli stimoli sensoriali che possiede, ambiente certo percepito in modo fenomenologicamente diverso da quello da noi percepito, ma ugualmente suscettibile di essere condizionato attivamente dall’organismo, quanto da noi sulla base delle nostre capacità percettive. Non è evidentemente solo una digressione oziosa: gli organismi con cui condividiamo la terra sono capaci di reazione alle nostre azioni: non sono solo macchine (più o meno docili), sono elementi di complessità che rispondono in modo inaspettato (creativo?) alle sollecitazioni che gli imponiamo, forse questo è un altro pezzo del percorso che dobbiamo fare.

Per concludere (e per pareggiare politicamente con Heidegger) vale la pena citare un altro improbabile ecologista. Friedrich Engels, alla fine della sua vita, scrisse un testo (Dialettica della Natura, contenuto all’interno di Antiduhring), quasi sempre mal digerito dalla critica marxista, in cui è contenuto questo brano: “Non compiaciamoci troppo delle vittorie umane sulla natura. Per ognuna di queste vittorie la natura prende la sua vendetta su di noi. Ogni vittoria, è vero, in prima istanza ci porta ai risultati attesi, ma in seconda e terza istanza ha effetti abbastanza diversi e imprevisti che troppo spesso cancellano i primi”.

 

 

Bibliografia

1 Lyme desease the ecology of a complex system, R. S. Ostfeld, ed. Oxford University Press;

2 Big Farm Mag Big Flu, R. Wallace, Monthly Review Press;

3 Super Bugs in the Anthropocene Jan Angus, Monthly Review, June 2019;

4 Neoliberal Ebola, R. G. Wallace e R. Wallace (editors), ed. Springer;

5 Clear Cutting Disease Control, R. Wallace et al, ed. Springer;

6 Global ecology and Enequal Exchange – Fetishism in a zero-sum World, A. Hornburg, ed. Reutledge Studies in Ecological Economics;

7 A Prosperous Way Down, Howard T. Odum e Elisabeth C. Odum, ed. University Press of Colorado;

8 The Preucationary Principle in Environmental Science, D. Kriebel, R. Levins et.al., in Environmental Health Perspective, september 2001;

9 Effect of Species diversity on disease risk, F. Keesing, R.D. Holt e R.S. Ostfield, Ecology Letters (2006) 9;

10 The nexus between forest fragmentation in Africa and Ebola virus disease outbreaks, M.C. Rulli, M. Santini, D. TS Hayman e P. D’Odorico, www.nature.com/scientificreports;

11 Recent loss of closed forests is associated with Ebola virus desease outbreaks, I. Olivero et. al., www.nature.com/scientificreports;

12 Conservation Medicine and a New Agenda for Emerging Diseases, Ann. New York Academy of Sciences 1026: 1-11 (2004);

13 Intervista di Raffaele Alberto Ventura alla Dott.ssa Ilaria Capua, virologa direttrice Emerging Pathogens Institute, Università della Florida;

14 La Dichiarazione di Alma Ata OMS e UNICEF, Conferenza Internazionale sull’Assistenza Sanitaria Primaria, 6-12 settembre 1978;

15 La Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della Salute (Jakarta Declaration on Leading Health Promotion into the 21st Century), Quarta Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute, Jakarta, Indonesia, 21-25 luglio 1997;

16 Gli ambienti favorevoli alla Salute, La dichiarazione di Sundsvall sugli ambienti favorevoli alla salute, Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite, Consiglio dei Ministri dei Paesi Nordici - Organizzazione Mondiale della Sanità, 3a Conferenza internazionale sulla Promozione della Salute;

17 M. Davis on COVID-19: The monster is finally at the door, Mike Davis Monthly Review On Line 19 marzo 2020, https://mronline.org/2020/03/19/mike-davis-on-covid-19-the-monster-is-finally-at-the-door ;

18 Impact of deforestation and agricultural development onanopheline ecology and malaria epidemiology, J. Yasuoka and R. Levins, Dept of Population and International Health, Harvard School of Public Health, Boston, Massachusetts, Medical Journal of Tropical Medicine and Hygiene, 76(3), 2007, by The American Society of Tropical Medicine and Hygiene;

19 Spillover, D. Quanmen, W.W. Norton and Company, ed. Italiana, Spillover ed. Adelphi;

20 The role of commensal rodents and their ectoparasites in the ecology and transmission of plague in south east asia; D.C. Cavanaugh, P.F. Ryan, J.D. Marshall, Bull. Wildlife Disease Assoc. Vol. 5, July, 1969;

21 Urban habituation, ecological connectivity and epidemic dampening: the emergence of Hendra virus from flying foxes (Pteropus spp.), Raina K. Plowright et al., Proceeding of the Royal Society, Published online, 11 May 2011.

 

Coronavirus: oltre l'emergenza sanitaria

Riccardo Graziano

L’Italia è in quarantena. Una misura estrema, ma necessaria, perché è il metodo più efficace per fermare un’epidemia.

È stato così nel 2003 per la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), anch’essa partita dalla Cina per poi diffondersi in altri Paesi, tramite viaggiatori infetti che si spostavano in aereo verso le destinazioni più disparate. All’epoca, però, quando fu chiaro che in Cina c’era questo problema, vennero prese drastiche misure di contenimento a partire dagli aeroporti, dove i passeggeri a rischio venivano posti immediatamente in isolamento, per evitare il diffondersi del contagio. Grazie a queste misure di prevenzione e nonostante l’elevata virulenza, la malattia si propagò in un numero limitato di Paesi. Questo consentì di contenere le vittime, sebbene la percentuale di mortalità fosse alta. Il bilancio finale della SARS parla di poco più di 8.000 contagiati in 17 Paesi, con oltre 700 decessi, quasi il 10% dei pazienti.

Con il nuovo Coronavirus purtroppo le misure di contenimento non sono state altrettanto stringenti. Nonostante la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan avesse segnalato già il 31 dicembre all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) una serie di casi sospetti di polmonite con cause ignote nella città e nell’intera provincia dell’Hubei, a livello mondiale nessuno ha pensato di approntare misure di prevenzione di livello elevato. Per questo motivo l’epidemia ha potuto dilagare ovunque, diventando pandemia. I dati ufficiali al 14 marzo indicavano una penetrazione in 140 Paesi, con oltre 152.000 contagiati e più di 5.000 morti. L’Italia è fra le nazioni più colpite, registrando alla stessa data quasi 17.000 contagi e oltre 1.400 vittime.

Da qui la necessità di mettere in quarantena tutto il territorio nazionale, obbligando la popolazione a stare chiusa in casa salvo esigenze primarie, una situazione impensabile fino a poche settimane fa. E probabilmente non è molto consolatorio pensare che la quarantena in un certo senso l’abbiamo inventata noi, visto che venne ideata nella Repubblica di Venezia all’epoca della Peste nera, quando le navi venivano costrette a rimanere al largo per 40 giorni prima di attraccare al porto, in modo da evitare lo sbarco di persone che potessero essere fonte di contagio. Da allora, il termine è rimasto quello, anche se il periodo si è ridotto, limitandosi al tempo di incubazione della malattia sotto osservazione.

Così oggi gli italiani si ritrovano forzatamente tappati in casa per una quindicina di giorni, salvo proroghe. Una situazione oggettivamente disagevole, che tuttavia, come tutte le crisi, riserva delle opportunità.

Per prima cosa, abbiamo capito l’importanza di avere un Sistema Sanitario pubblico efficiente. Nonostante da parecchi anni fosse in corso una precisa strategia di smantellamento della Sanità pubblica a favore di quella privata, con tagli a fondi, strutture e personale, all’arrivo dell’epidemia la reazione è stata esemplare. Pronta riorganizzazione delle strutture per implementare le terapie intensive, individuazione delle priorità, introduzione di protocolli di cura mirati, anche se forzatamente sperimentali. E, su tutto, un impegno del personale sanitario ai limiti delle forze umane, con grande sacrificio sia in termini sanitari – molti i casi di contagio fra gli operatori – sia personali, visto che i tempi di lavoro dilatati hanno certamente sottratto spazi agli affetti e alla vita familiare. Tutto questo mentre la risposta della sanità privata tardava parecchio ad arrivare. Se pensiamo che fino a poco tempo fa non era raro leggere di episodi di contestazioni, denunce o addirittura aggressioni al personale sanitario, ci rendiamo pienamente conto di come si sia ribaltata la situazione e di quale sia l’importanza del loro ruolo sociale. Da questa consapevolezza, che oggi si concretizza in piccoli gesti di solidarietà e riconoscenza spontanei, deve partire un processo di rafforzamento della Sanità pubblica, interrompendo la politica di tagli indiscriminati e sostituendola con nuovi investimenti in strutture, attrezzature e ricerca. E, soprattutto, garantendo un miglior trattamento economico e normativo agli operatori, a partire dagli infermieri.

Più in generale, si delinea la necessità di un nuovo rapporto fra pubblico e privato, perché per troppo tempo i servizi pubblici sono stati penalizzati per dimostrare che era meglio privatizzare tutto. Ma l’emergenza ci ha mostrato chiaramente che l’assistenza pubblica è fondamentale e non può essere sostituita da un sistema che mette al primo posto il profitto, anziché il benessere delle persone. Una lezione da tener presente anche finita l’emergenza.

Poi abbiamo scoperto che internet e canali social, troppo spesso usati per diffondere false notizie e messaggi d’odio, potevano invece servire per cose utili, come vedere e sentire i propri cari anche se a distanza, o provare a portare avanti la didattica a scuole chiuse. Soprattutto, con il telelavoro abbiamo scoperto che possiamo fare da casa moltissime cose che facevamo in ufficio, magari risparmiandoci ore e ore di trasferimenti da pendolari, su mezzi pubblici affollati o imbottigliati nel traffico. Per la cronaca, il ridimensionamento delle attività produttive e la drastica riduzione degli spostamenti e del traffico, hanno consentito un significativo abbattimento dei livelli di inquinamento proprio sulla pianura padana, quel “catino” sommerso di micropolveri e sostanze nocive che sembrava impossibile ripulire. Oggi, chi non è rimasto vittima del contagio respira meglio che nei mesi scorsi e ha meno rischi di incorrere in affezioni respiratorie causate dall’inquinamento. È evidente che sul lungo periodo non è possibile fermare tutto, ma questo dovrebbe farci riflettere sulla possibilità di fare le stesse cose in modo diverso, più sostenibile.

Però l’isolamento forzato ci ha fatto anche capire che i collegamenti virtuali non bastano, ci serve il calore umano. E abbiamo riscoperto la vita familiare, magari con qualche screzio per la vicinanza forzata e continua, ma con la consapevolezza di poter contare su una rete di sostegno. Una rete che, uscendo dalle mura domestiche, ci ha fatto ritrovare il senso di essere comunità, uniti nell’affrontare i problemi, con la riaffermazione della solidarietà al posto dell’individualismo che dominava nella società. Perché tutti hanno capito che nessuno può farcela da solo, individuo o nazione che sia.

Un sentimento che, paradossalmente, rafforza i legami proprio nel momento della segregazione forzata, e ci fa scoprire nuovi modi di stare insieme, a partire dai cori intonati nei cortili, dove ritorna protagonista l’Inno di Mameli, per lungo tempo bistrattato. Già, perché fra le molte cose che abbiamo riscoperto, c’è anche quella di essere una Nazione. L’emergenza reale del contagio ha spazzato via le residue pulsioni “indipendentiste” del lombardo-veneto, la zona al momento più colpita, restituendo al Governo centrale quel ruolo di guida che era stato troppo demandato alle regioni. In poche parole, gli italiani si sono ricordati di essere Italiani, con la “I” maiuscoli, ma non sovranisti, semplicemente patrioti, orgogliosi di noi stessi e del nostro splendido Paese. E questo, finita la crisi, sarà da un lato il presupposto per la ridefinizione dei rapporti fra Stato e Amministrazioni decentrate, dall’altro ci lascerà la consapevolezza che l’unità e la solidarietà possono darci più forza di quella che pensavamo di avere per superare qualunque difficoltà e crisi.

Tratto da: www.agendadomani.it

Consumo di suolo: rapporto 2019

Riccardo Graziano

Il consumo di suolo è uno dei principali problemi dell’era industriale e nel nostro Paese è particolarmente acuto. Abbiamo già avuto occasione di occuparcene e ora ci torniamo per aggiornare la situazione con gli ultimi dati ISPRA-SNPA, che riflettono una situazione in ulteriore peggioramento nei centri urbani, con la lodevole eccezione di Torino che, seppure di poco, aumenta gli spazi verdi.
I dati relativi alle aree urbane ad alta densità dicono che nel 2018 abbiamo perso 24 metri quadrati per ogni ettaro di area verde. In totale, quasi la metà della perdita di suolo nazionale dell’ultimo anno si concentra nelle aree urbane, il 15% in quelle centrali e semicentrali, il 32% nelle fasce periferiche e meno dense.
A Roma, su 75 ettari di consumo totale, ben 57 sono stati sottratti ad aree verdi. Ancora peggio fa Milano, che cementifica 11 ettari di aree verdi su un totale di 11,5.
In controtendenza, come dicevamo, Torino, che recupera 7 ettari di suolo, estensione non trascurabile, oltre all’importante segnale di una inversione di rotta rispetto alla tendenza precedente e a quella di tutti gli altri.
La cosa illogica e preoccupante è che ormai il consumo di suolo e la continua pulsione edificatoria sono totalmente disgiunti dal fattore demografico. Ovvero, se negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso il boom edilizio aveva un suo perché, vista la crescita demografica del Paese e il progressivo inurbamento della popolazione, oggi non è più così. La curva demografica è pressoché stabile, la popolazione non cresce e non di rado le città perdono abitanti, con i centri storici che si svuotano progressivamente, tuttavia si continua a costruire. Attualmente ogni cittadino italiano “occupa” una superficie di oltre 380 m2 di aree coperte da cemento, asfalto o costruzioni in altri materiali artificiali, estensione che cresce di quasi 2 metri quadrati ogni anno, mentre la popolazione diminuisce.
La cementificazione acuisce anche il fenomeno dell’aumento delle temperature, dal momento che le superfici ricoperte da materiali artificiali assorbono quantità di calore sensibilmente superiori rispetto a quanto fa il suolo libero, creando l’effetto cosiddetto delle “isole di calore”, dove la temperatura può risultare superiore di alcuni gradi rispetto alle zone non urbanizzate. Un fenomeno che non solo aumenta le temperature diurne, ma impedisce o comunque riduce il raffrescamento notturno, quando il calore immagazzinato durante il giorno si irradia nel microclima metropolitano.
L’analisi del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) sul territorio nazionale evidenzia altri 51 chilometri quadrati di superficie costruita nel 2018, pari a 14 ettari al giorno in media, ovvero 2 metri quadrati al secondo, un ritmo tuttora insostenibile, anche se inferiore ai valori record degli anni pre-crisi, ma ancora lontano dall’obiettivo europeo che prevede l’azzeramento del consumo di suolo netto, ovvero il pareggio fra suolo occupato da nuove costruzioni e aree recuperate con interventi di demolizione, deimpermeabilizzazione e rinaturalizzazione.
I numeri dicono che, tra i comuni con popolazione maggiore di 50.000 abitanti, Roma guida la classifica della cementificazione con i suoi 75 ettari di consumo di suolo, seguita a distanza da Verona (33 ettari), L’Aquila (29), Olbia (25), Foggia (23), Alessandria (21), Venezia (19) e Bari (18). Tra i comuni più piccoli, spicca Nogarole Rocca, in provincia di Verona, con quasi 45 ettari di incremento.
Più della metà delle trasformazioni dell’ultimo anno si devono ai cantieri (2.846 ettari), in gran parte per la realizzazione di nuovi edifici e infrastrutture, quindi con perdita permanente e irreversibile.
Il Veneto è la regione con gli incrementi maggiori, +923 ettari, seguita da Lombardia +633, Puglia +425, Emilia-Romagna +381 e Sicilia +302. Rapportato alla popolazione residente, il valore più alto si riscontra in Basilicata (+2,80 m2/ab), Abruzzo (+2,15 m2/ab), Friuli-Venezia Giulia (+1,96 m2/ab) e Veneto (+1,88 m2/ab).
Il consumo di suolo cresce perfino nelle aree protette, sia per abusi, sia regolarmente autorizzato (+108 ettari nell’ultimo anno), nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica (+1074 ettari), in quelle a pericolosità idraulica media (+673 ettari) e da frana (+350 ettari) e nelle zone a pericolosità sismica (+1803 ettari).
Secondo alcune stime l’Italia ha perso negli ultimi sei anni superfici che erano in grado di produrre tre milioni di quintali di prodotti agricoli e ventimila quintali di prodotti legnosi, nonché di assicurare lo stoccaggio di due milioni di tonnellate di carbonio e l’infiltrazione di oltre 250 milioni di metri cubi di acqua piovana che ora, oltre a non contribuire più a ricostituire le risorse idriche nelle falde acquifere, scorreranno veloci sulle nuove superfici impermeabilizzate, aggravando la pericolosità idraulica del nostro territorio.
La perdita di questi servizi ecosistemici garantiti dal suolo naturale viene valutata con un corrispettivo economico che gli esperti valutano essere compreso tra i 2 e i 3 miliardi di euro all’anno.
Le nuove coperture artificiali non sono l’unico fattore che minaccia il suolo e il territorio, che sono soggetti anche ad altri processi di degrado come la frammentazione, l’erosione, la desertificazione, la perdita di habitat, di produttività e di carbonio organico.
Una prima stima delle aree minacciate è stata realizzata dall’ISPRA per valutare la distanza che ci separa dall’obiettivo della Land Degradation Neutrality, previsto dall’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Dal 2012 al 2018, le aree dove il livello di degrado è aumentato coprono 800 km quadrati, quelle con forme di degrado più limitato addirittura 10.000 km quadrati.
ISPRA e SNPA, all’interno del progetto europeo SOlL4LIFE, stanno lavorando con le Regioni alla realizzazione di Osservatori Regionali sul consumo di suolo, ai quali spetterà il compito di supportare, con il monitoraggio del SNPA, le attività di pianificazione sostenibile del territorio.
Un nuovo assetto normativo a livello nazionale che regolamenti in senso restrittivo il consumo di suolo è infatti ormai urgente e indifferibile.
Il Rapporto ISPRA sul Consumo di suolo in Italia e le schede dettagliate delle regioni, province e comuni (da cui sono state prelevate le immagini riportate nella presente pagina), sono disponibili on line all’indirizzo http://www.isprambiente.gov.it.

Fabio Clauser: ha 100 anni il decano dei forestali italiani

Gianni Marucelli

È giunto a 100 anni, non in punta di piedi, ma pubblicando nell'ultimo quadriennio ben due libri di grande interesse, “Romanzo forestale” e “La parola agli alberi”. Fabio Clauser, nato in Trentino nel 1919, decano dei Forestali italiani, è stato festeggiato nell'ottobre scorso presso il Teatro degli Antei”, a Pratovecchio (AR), in quella magica vallata, il Casentino, che è stata per molti decenni il suo luogo di lavoro.
Non basterebbe un voluminoso tomo, per narrare compiutamente le vicende della lunga vita di questo studioso e amministratore del patrimonio forestale del nostro Paese: lui, sobriamente, l'ha riassunta in un libro di 190 pagine (“Romanzo forestale”, appunto), che reca come sottotitolo la dicitura “Boschi, foreste e forestali del mio tempo”. Un tempo, potremmo aggiungere, che non si è ancora affatto esaurito, se Clauser, con la stessa solidità e pacata energia di un faggio secolare, continua a darci lezione di amore per la Natura e a esortarci a preservarla.
Con umiltà e decisione, come io stesso posso testimoniare, quando, alla presentazione del suddetto volume, quattro anni fa, ebbe a dirmi, mentre me lo autografava: “Continuate a battervi, voi di Pro Natura, perché, senza voi ambientalisti, noi possiamo fare poco!”.
Entrato nella Milizia Forestale nel 1940 (il regime aveva voluto cambiar nome al Regio Corpo forestale, per suggerire un che di bellicoso), e  conseguita la laurea presso l'Accademia Militare di Scienze forestale di Firenze, Clauser fu spedito a “farsi le ossa” in Piemonte, da dove poi fu trasferito nel natio Trentino. Il tragico periodo degli ultimi anni di guerra è narrato, con sobrietà ma anche con stimolante ironia e autoironia da Clauser: tra le pagine più godibili certamente quelle in cui il giovane Forestale rifiuta di far giuramento nel nome di Mussolini e della Repubblica di Salò, pena il licenziamento, e le righe che narrano la brevissima e incruenta adesione alla Resistenza, prima del 25 aprile.
Le successive esperienze, quale direttore del Parco Nazionale dello Stelvio quando questa importantissima area protetta era ridotta allo stremo per mancanza assoluta di risorse economiche, e poi, per molti anni, all'Azienda di Stato delle Foreste Demaniali del Casentino, quella zona che sarebbe in seguito divenuta l'attuale Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, esaltarono le capacità di gestione selvicolturale di Fabio Clauser, sempre più orientata nel senso della valorizzazione naturalistica della foresta. In questo contesto, prese vita l'idea di preservare totalmente un'area, destinata al taglio, di accesso difficilissimo, un'area situata sulle pendici di Poggio Scali, versante settentrionale. Il bosco era qui caratterizzato dalla presenza di alberi di alto fusto di varie specie diverse: faggi, abeti, frassini, aceri, tassi, olmi, querce, alberi, scrive lo stesso Clauser “di dimensioni inconsuete nei boschi appenninici, piante in parte piene di vita, malgrado la loro secolare esistenza, in parte espressione evidente di una maestosa e vigorosa vecchiaia, in parte disfatte in un lungo processo di riciclaggio del legno in humus, in parte piantine giovanissime, segno di una rinnovazione lenta, ma sicura del bosco”.
Altri, al suo posto, avrebbero ordinato di procedere all'abbattimento anche di questo lembo di bosco antico. Non il Forestale venuto dal Trentino, che, abusivamente, “risparmia” un centinaio di ettari: “non era il caso di turbarne l'aspetto così commovente nemmeno con il taglio di un solo albero”.
Naturalmente, Clauser si rendeva perfettamente conto che la situazione restava di fatto precaria, e suscettibile di distruzione non appena fosse cambiato il Direttore: perciò decise di intraprendere una strada all'epoca (siamo negli anni '50) assai audace: l'istituzione di una Riserva Naturale Integrale quale ne esistevano in altri paesi europei, create dall'UICN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura).
Fu un'impresa lenta e difficile, che incontrò ostacoli non solo dalla burocrazia, ma anche dal mondo accademico. Finché non intervennero con il loro peso scientifico il prof. Mario Pavan e il prof. Gosswald (Università di Wurzburg), e la proposta fu alla fine approvata (1959) con l'istituzione di una Riserva su una superficie di 113 ettari, in seguito ampliata per altri 400 ettari circa. Nacque così la Riserva Naturale Integrale di Sassofratino, che il prof. Pavan riuscì a far inserire fra le Riserve del Consiglio d'Europa. Quest'ultimo conferì molti anni dopo (1985) alla stessa l'ambito riconoscimento del Diploma Europeo per la Conservazione della Natura.
Se la Riserva di Sassofratino rimarrà per sempre legata al nome di Fabio Clauser (e perché non intitolargliela ufficialmente?), l'impegno del decano dei Forestali continuò ad espletarsi ancora per decenni, prima come funzionario dello Stato poi come libero cittadino e studioso impegnato nella difesa dell'ambiente forestale, ed è per questo che, in tanti, noi compresi, al compimento del secolo di vita, si sentono onorati di averlo conosciuto e di potergli ancora augurare “cento di questi giorni!”.

L'Associazione Pro Natura L'Aquila in alta quota

per il giardino alpino di Campo Imperatore

Laura Asti (Presidente Pro Natura L’Aquila) & Loretta Pace (Responsabile scientifico Giardino Alpino, Univaq)

Il Gran Sasso d’Italia rappresenta per la città dell’Aquila la sua essenza ed il suo carattere: forte e gentile. La montagna austera con i suoi rigidi inverni, le copiose nevicate, gli ambienti straordinari e solitari inducono ad un profondo rispetto. Il risveglio primaverile e l’allungarsi delle giornate soleggiate mostrano una signorile bellezza con spettacolari scenari che riempiono il cuore e la vista di variegate fogge, colori, profumi. È in questo scenario che si inserisce il Giardino Alpino di Campo Imperatore, localizzato lungo il pendio meridionale di Monte Aquila sul versante occiden-tale del Gran Sasso d’Italia, in prossimità del valico tra Campo Imperatore ed i Tre Valloni a 2.117 m, oltre il limite della vegetazione forestale.
Fondato nel 1952 dal Prof. Vincenzo Rivera, docente di Botanica e primo rettore dell’Università dell’Aquila, è attualmente gestito dalla sezione di Scienze Ambientali del Dipartimento di Medicina clinica, Sanità pubblica, Scienze della Vita e dell’Ambiente.
Il Giardino Alpino, situato nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, è stato riconosciuto di interesse regionale ai sensi della L.R. 9 Aprile 1997 n. 35 “Tutela della biodiversità vegetale e gestione dei giardini ed orti botanici” dalla Regione Abruzzo.
Nel Giardino vengono coltivate le piante degli habitat altitudinali dell’Appennino Centrale che vivono in un ambiente molto selettivo a causa delle bassissime temperature, della forte irradiazione solare, dei venti spesso violenti e del prolungato innevamento. Per tale ragione la stagione vegetativa è brevissima, inferiore, in media, ai 130 giorni per anno. Nel Giardino sono presenti circa 300 specie vegetali autoctone, molte delle quali rare e vulnerabili, numerosi endemismi e relitti glaciali.
Gli argomenti esposti dai relatori Laura Asti, presidente Pro Natura L’Aquila, ed i responsabili scientifici del Giardino Gianfranco Pirone (past), Fernando Tammaro (past) e Loretta Pace (attuale) hanno messo in evidenza la necessità di sostenere ed incrementare le attività di questo importante centro di ricerca e di divulgazione didattica. A conclusione del Progetto, il Rettore ha donato una targa ricordo all’Associazione Pro Natura L’Aquila per “esprimere il più vivo apprezzamento per l’impegno profuso con passione e generosità”.

Bibliografia breve:
PACE L., CATONICA C., 1998 - Origine ed attualità del Museo Giardino Alpino di Campo Imperatore. Aree Protette in Abruzzo, Carsa Edizioni : 204- 209.
PACE L.,PACIONI G., 2002 - Il Giardino Alpino di Campo Imperatore a cinquant’anni dalla fondazione; Boll. IV serie n°9 : 33- 50.Giugno 2002 C.A.I., Gruppo Tipografico Editoriale.
PACE L., 2002 - A Campo Imperatore una preziosa eredità da custodire: il Giardino Alpino, CARSA Edizione, 72 -75.
PACE L., PACIONI G, PIRONE G., RANIERI L., 2005 – Il Giardino Alpino di Campo Imperatore (Gran Sasso d’Italia, L’Aquila). Informatore Botanico, 37 (2) 1211-1214, Atti “I Giardini della Sapienza”.

Maglie della rete - Termina un annus horribilis

Fabio Balocco

Da quando siamo entrati nell’Antropocene probabilmente nessun anno come questo che sta per terminare ha confermato la follia delle attività poste in essere dalla specie umana.
Gli incendi dell’Amazzonia, gli incendi della Siberia, il primo ghiacciato estinto in Islanda, con tanto di funerale, la “spirale della morte dell’Artide”, la terribile estate calda che abbiamo vissuto, sono lì a testimoniare, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, che stiamo rapidamente distruggendo la nostra casa, la sola che abbiamo. Siamo l’unica specie che distrugge talvolta solo per il gusto di distruggere ("Siamo animali crudeli noi umani. Siamo animali terribili" ricorda Sebastiao Salgado), talaltra soprattutto per raggiungere e mantenere condizioni di vita che non si può permettere.
La cartina al tornasole è l’overshoot day che quest’anno per l’Italia è caduto ancor prima, il quindici maggio.

Eppure i politici di tutto il mondo non sanno/non vogliono prendere provvedimenti adeguati per fronteggiare la catastrofe che stiamo vivendo.
Sono solo capaci di prenderci in giro, parlando di green economy, quasi che non sapessimo che non è captando tutti i corsi d’acqua con impianti idroelettrici, non è costellando di turbine eoliche i crinali dei monti, non è installando pannelli solari a terra e consumando ulteriore suolo, non è azzerando boschi per alimentare centrali a biomassa che si può fronteggiare la crisi, bensì solo con provvedimenti drastici di riduzione dei consumi, solo con una brusca virata verso la decrescita. Ma può un regime democratico prendere provvedimenti in direzione esatta e contraria rispetto all’andamento di quella economia che la politica stessa sostiene? Andiamo, su, non viviamo sulla luna. Lo stesso Luca Mercalli in una recente intervista ha solo auspicato che i provvedimenti li possa prendere un regime democratico, intendendo che forse solo con la forza essi possano essere adottati.

D’altra parte il 2019 è stato anche l’anno della presa di coscienza da parte soprattutto di una frangia di giovani che non ci si può più permettere di vivere così: i Fridays for Future con le loro divise colorate e i loro motti che ricordano quelli movimentisti (da “avete rotto i polmoni”, a “se credete che l’economia sia importante, provate a trattenere il fiato mentre contate i soldi”), ma soprattutto gli inglesi Extinction Rebellion, con le loro clamorose azioni di protesta, ne sono esempi.
Ma sono una ristrettissima minoranza, la stragrande maggioranza della popolazione se ne frega dell’estinzione delle altre specie, o della possibilità che l’uomo stesso si estingua, supportata in questa direzione da una informazione sempre meno libera, sempre più legata al capitale, un’informazione che ci dice che bisogna preoccuparsi se il PIL diminuisce, o se diminuisce la popolazione, ma bisogna esultare se fa bel tempo, o se si realizzano la TAV o la Pedemontana Veneta, e che comunque bisogna mangiare carne.

Del resto, è anche vero quello che afferma Timothy Morton: la catastrofe in atto è un iperoggetto dentro al quale noi viviamo giornalmente e che non riusciamo ad apprezzare nella sua reale gravità. Quindi, continuiamo così, continueremo così: come i ciechi di Bruegel il Vecchio che finiscono dentro al fosso. Ormai, non c’è più spazio per l’ottimismo né per la speranza. Facciamocene una ragione.

Bestiario. Farfalle in migrazione - meduse alla deriva

Virgilio Dionisi

21 Agosto 2018
Da diversi giorni assisto al passaggio di tantissime farfalle bianche lungo il litorale fanese. Sono cavolaie maggiori: Pieris  brassicae è il loro nome scientifico.
Non c’è istante che non ne scorga qualcuna in volo sopra la spiaggia; tutte dirette verso sud.  Non formano fitti sciami - come mi è capitato di osservare in montagna -, volano alla spicciolata.
È per lo più un volo parallelo alla costa, anche se per le farfalle è difficile seguire una linea retta. La traiettoria si fa particolarmente ingarbugliata quando un maschio si mette a corteggiare una compagna incontrata in volo; per una manciata di secondi il dover migrare verso sud è sopraffatto da un altro istinto.
Ogni mattina, appena il sole ha asciugato l’umidità sulle ali, riprendono il loro viaggio.
Nell’Area floristica protetta di Baia del Re qualcuna si ferma a far rifornimento sui fiori sopravvissuti alla calura estiva.
Volano pochi metri al di sopra della spiaggia, sopra gli ombrelloni, sopra la gente a passeggio sulla battigia, sopra la massicciata ferroviaria che costeggia la spiaggia. Quando il treno passa, la turbolenza dell’aria le spazza via ma dopo pochi secondi eccole di nuovo in transito sui binari.
Ma c’è un altro fenomeno naturale a cui oggi ho assistito, non sopra la spiaggia ma dentro l’acqua: la fioritura di meduse.
Durante il bagno ho incontrato tantissime meduse appartenenti alla specie cassiopea mediterranea (Cotylorhiza tuberculata): ne ho contate 46. Ho anche visto 6 esemplari di polmone di mare (Rhizostoma pulmo).
La medusa cassiopea ha l’ombrello a forma di disco con una gobba al centro; vista da sopra ha un po' l’aspetto di un uovo cucinato a occhio di bue, infatti viene anche chiamata “Medusa occhio di bue”.  Nella parte inferiore vi sono numerosi tentacoli, corti e sottili, che terminano in bottoni apicali di colore viola.
L’altra specie di medusa incontrata, il polmone di mare, ha invece l’ombrello semisferico, una colorazione bianco-latte, leggermente trasparente, i bordi blu-viola.
Gli individui incontrati di entrambe le specie hanno un diametro che va da 10 ad oltre 30 centimetri.
La medusa cassiopea è quasi innocua, non è così il polmone di mare.
Qualche settimana fa un esemplare di questa specie mi ha sfiorato con i suoi tentacoli provocando un fastidio per l’intera giornata e lasciandomi sulla pelle per diversi giorni i segni di quel contatto.
Entrambe le specie si muovono attivamente attraverso il pulsare dell’ombrello. Le trovo a profondità diverse, alcune a mezz’acqua, altre vicine alla superficie.
Farfalle e meduse, accomunate dal viaggiare silenzioso. Non fa rumore lo sbattere delle ali  delle farfalle – ali di burro, butterflies, così le chiamano gli inglesi -, delle meduse non si sente il pulsare dell’ombrello. È silenzioso il suggere del nettare, non si sentono le urla delle prede catturate coi tentacoli.
Mentre le farfalle bianche “sanno” dove andare e indomite percorrono la rotta verso sud, senza farsi condizionare dalla direzione del vento, le grosse meduse - un polmone di mare può raggiungere i 10 chilogrammi - non hanno meta; il pulsare del loro ombrello nulla può contro la forza della corrente che le trascina via.
Per questi animali pelagici trovarsi a lambire il litorale è solo un caso, un gioco delle correnti. Se non finiranno spiaggiate o se qualche bagnante non le toglierà dall’acqua trasformando il loro bel corpo in un ammasso di gelatina, prima o poi torneranno in alto mare, dove non c’è nulla ad interrompere la linea dell’orizzonte: anche se le meduse non se ne accorgono, il loro sistema visivo permette di percepire solo le variazioni d’intensità luminosa.
Una buona parte delle meduse cassiopee ha dei piccoli pesci argentei al seguito. Sono gli stadi giovanili di specie pelagiche che trovano nelle meduse un rifugio sicuro. La selva di tentacoli urticanti protegge questi avannotti dai predatori.
Mentre la medusa pulsando si sposta, i pesciolini la seguono restando a ridosso dei corti tentacoli o addirittura rifugiandosi sotto l’ombrello nelle cavità del suo corpo, solo qualche impavido pesciolino esce per qualche attimo allo scoperto portandosi sull’ombrello.  
Queste meduse trasportano anche altri ospiti: noto un granchio rifugiato nel corpo grumoso di un polmone di mare ed un altro aggrappato ad una medusa cassiopea.
Mentre faccio snorkeling vedo spesso granchi sul fondo sabbioso; di solito quando mi avvicino si mettono sulla difensiva, alzano le chele puntandole nella mia direzione, qualche volta risalgono verso la superficie, sfruttando il paio di zampe con l’estremità a paletta, per poi tornare sul fondo. Oggi, mentre sto guardando delle meduse a mezz’acqua, un granchio lascia il fondo e si porta vicino a loro, anche se non lo vedo “salire a bordo”.
Oltre che di uovo a occhio di bue, la medusa cassiopea ha la forma di un disco volante. I granchi e pesciolini al seguito mi sembrano l’equipaggio di astronavi alla deriva, disperse nell’immensità dello spazio (pelagico).

Sponde del Po: pioppi o biodiversità?

Giovanni Barcheri

A poco più di un anno dalla presentazione pubblica della candidatura a Riserva Biosfera Mab Unesco del tratto medio padano del Po è arrivato, nel mese di giugno 2019, a Parigi – nella prestigiosa sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura – l’ambito riconoscimento che promuove, grazie alla proclamazione ufficiale, il progetto italiano coordinato dall’Autorità Distrettuale del Fiume Po e sostenuto dal Ministero dell’Ambiente e dal Governo in quest’ultimo decisivo sprint finale verso il traguardo ora raggiunto. La decisione della promozione a Riserva Mab di PoGrande è arrivata nel corso della trentunesima sessione del Consiglio Internazionale di Coordinamento del Programma MaB, che si è svolta nella capitale francese dal 17 al 21 giugno e l’ufficialità è stata comunicata direttamente al Segretario Generale del Distretto Po Meuccio Berselli in rappresentanza dell’ente ministeriale, di tutto lo staff tecnico che ha redatto il dossier posto successivamente all’attenzione e alla vigilanza della Commissione Internazionale e dei qualificati ed imprescindibili partners che hanno contribuito alla realizzazione della proficua intesa territoriale.
Resta il fatto che da decenni lungo le rive del Po e dei principali fiumi padani sono già state cancellate e vengono distrutte le preziose fasce boscate ed ancora naturalizzate che dovrebbero rappresentare la serie vegetazionale dei boschi igrofili ripariali e che conservano un prezioso valore di biodiversità.
E la causa di tale devastazione sono gli impianti intensivi della pioppicoltura intensiva, che utilizzano cultivar di pioppi ibridi canadesi che non hanno davvero nulla a che fare con la vegetazione autoctona delle aree planiziali delle Regioni del nord Italia.
Le cultivar di pioppo ibrido canadese non hanno nulla a che vedere, oltre che con la vegetazione ripariale ad ontano nero (Alnus glutinosa), salici, saliconi (Salix spp.pl.) e pioppo nero (Populus nigra), neppure con la vegetazione autoctona del bosco planiziale, il querco carpineto che una volta ricopriva la Pianura padana ed oggi è ridotto a pochi lembi lungo le principali valli fluviali tutelate nei Parchi.
I pioppeti coltivati a schiera in ogni caso sottraggono spazi alla biodiversità anche quando sono impiantati illegalmente nelle lanche, che sono demaniali (!), e lungo le fasce di rispetto dei fiumi. Ma anche i fautori della poco "green" ma nei fatti solo economy, e di una "sostenibilità" solo a parole dovrebbero usare più precauzione prima di avallare scelte di approvvigionamenti energetici a biomasse, tenuto conto poi che il pioppo non fotosintetizza neppure da settembre ad aprile e quindi è pure un arbitrio evocare il Protocollo di Kyoto. Ci vuole invece più precauzione ad avallare scelte solo economiche quando ciò comporta la cancellazione di foreste naturali, alla stregua di quanto accade nelle foreste pluviali del mondo a causa degli impianti industriali a palma da olio africana.
E soprattutto quando lo si usando fondi che sono destinati al miglioramento ambientale e non alla distruzione delle ultime tracce di foresta naturale.
E soprattutto quando lo si fa usando fondi che sono destinati al miglioramento ambientale e non alla distruzione delle ultime tracce di foresta naturale.
La Regione Lombardia, nell'ambito del Piano di sviluppo rurale, ha pubblicato un bando da 4 milioni di euro per supportare progetti di forestazione e imboschimento. Il bando è rivolto alle imprese agricole individuali e alle società agricole di persone, capitali o cooperative.
La superficie minima interessata dall'impianto deve essere di 10.000 metri quadri. Le domande sono già state presentate dal 13 marzo 2019.
Evidentemente quanto sostenuto da Regione Lombardia per promuovere questa misura, e cioè di voler contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici, ridurre gli apporti chimici, incrementare la biodiversità e migliorare il paesaggio, è solamente pretestuoso, perché la realizzazione di produzioni legnose incompatibili con le condizioni ecologiche del territorio padano, ed anzi qualora comporti la distruzione
della vegetazione igrofila e delle aree umide lungo i fiumi padani, non può avere alcun connotato di reale sostenibilità, perché comporta lungo i fiumi dissesto idro geologico e gravissima perdita di biodiversità.