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La conservazione della biodiversità richiede efficaci programmi di monitoraggio

Ettore Randi (Unione bolognese Naturalisti)

Quattro miliardi di anni di evoluzione hanno generato e rigenerato l’incalcolabile numero di organismi viventi, microorganismi, funghi, piante e animali che sono esistiti nel passato, che esistono oggi ed hanno plasmato gli ambienti in cui loro vivono e che noi stessi condividiamo. L’unicità del Pianeta Terra è il prodotto di queste evoluzioni. La biodiversità è una rete di individui, popolazioni, specie ed ecosistemi strettamente interconnessi tramite processi complessi ed in costante evoluzione. Questi equilibri dinamici fra stabilità degli ecosistemi ed evoluzione di nuovi adattamenti determinano, in ultima analisi, i destini di individui e specie, inclusa la nostra (vedi articolo di Ferdinando Boero in questo numero).

Sappiamo che biodiversità e integrità funzionale degli ecosistemi devono essere tutelate e gestite molto accuratamente. Infatti, la grande accelerazione della crescita delle popolazioni umane, sempre più energivore e tecno-dipendenti, ha prodotto nell’ultimo paio di secoli impatti impressionanti su tutta la biosfera, dai cambiamenti climatici ed atmosferici fino nel profondo degli oceani, dalla megafauna alle oscure comunità di microorganismi. La tutela della naturalità sopravvissuta è necessaria, ma non è sufficiente. Occorre ridurre i fattori di rischio globale: gas climalteranti, pesticidi ed altre sostanze inquinanti, dispersione delle plastiche, agricoltura intensiva con grande uso di fertilizzanti e pesticidi, distruzione degli habitat, sovrapesca ecc. Occorre anche ripristinare l’integrità e le funzioni di quel 30% dei terreni, oltre che degli ecosistemi marini e costieri (la stragrande maggioranza dello spazio abitato dalla vita), che sono degradati (FAO; https://www.fao.org/documents/card/en/c/cb7654en). Non esistono isole di biodiversità occupate da ecosistemi che evolvono indipendentemente. Se è vero che la biodiversità è una immensa rete di relazioni funzionali, allora la biodiversità a rischio va tutelata e ripristinata sistematicamente e globalmente. Il lavoro di studio e divulgazione sui cambiamenti climatici e le loro cause, svolto negli ultimi trent’anni dall’IPCC ed altre istituzioni di ricerca, ha finalmente imposto questi problemi all’attenzione delle popolazioni e dei governi (https://www.ipcc.ch/reports/). Ora dovremmo riuscire ad imporre all’attenzione di tutti anche i rischi derivanti dalla distruzione della biodiversità. Questi sono anni di grande attività di ricerca e divulgazione che, però, ancora non ha toccato a fondo le sensibilità dei cittadini. Proviamo a partire dalle conclusioni della recente assemblea generale della Convenzione sulla Biodiversità, per identificare alcune azioni che dovrebbero essere implementate, anche con la partecipazione dei cittadini, per contribuire a migliorare la conservazione della natura e contemporaneamente la consapevolezza in tutti noi.

Le risoluzioni adottate dalla COP15, la quindicesima conferenza dei partner della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (CBD), che si è tenuta a Montreal dal 7 al 19 dicembre 2022, ribadiscono ripetutamente la necessità di monitorare l’efficacia delle misure di conservazione che gli stati aderenti sono tenuti a implementare tramite l’elaborazione di specifiche strategie nazionali. Fra gli obiettivi generali fissati dalla COP15, quelli che più direttamente riguardano la biodiversità sono:

- lo slogan 30x30, che indica l’obiettivo di arrivare entro il 2030 a garantire la conservazione e la gestione efficace di almeno il 30% delle terre emerse, delle acque interne, delle zone costiere e degli oceani del mondo, con priorità per le aree che includano ecosistemi rappresentativi della biodiversità e che siano connessi tramite reti ecologiche funzionanti, (teniamo conto che le statistiche indicano che attualmente sono ritenuti formalmente protetti rispettivamente il 17% e il 10% delle aree terrestri e marine del mondo, dove formalmente significa: sulla carta; è assai probabile che la protezione effettiva ed efficace in realtà riguardi percentuali molto minori di aree terrestri e marine);

- si richiede che venga completato o che sia in corso di completamento il ripristino di almeno il 30% degli ecosistemi degradati terrestri, delle acque interne, costiere e marine;

- che al 2030 sia prossima allo zero la perdita di aree ad alta biodiversità (hotspot)

- occorre poi prevenire l'introduzione di specie esotiche invasive note, ridurre di almeno la metà l'introduzione e l'insediamento di altre specie esotiche potenzialmente invasive ed eliminare o ridurre la diffusione di specie esotiche invasive sulle isole e in altri siti prioritari.

La COP15 ha lanciato 23 nuovi target, gli obiettivi che dovrebbero essere raggiunti entro la fine di questo decennio (il post-2020 Global Biodiversity Framework; https://www.cbd.int/article/draft-1-global-biodiversity-framework). Fra questi, almeno sei target sono esplicitamente destinati alla protezione della biodiversità negli ambienti marini, costieri, terrestri e nelle acque interne. Da oggi al 2030 deve essere azzerata la perdita di aree ad alta biodiversità, inclusi gli ecosistemi ecologicamente integri (Target 1); devono essere effettivamente restaurate almeno il 30% delle aree degradate (dove “effettivamente” significa che questi ecosistemi devono riprendere a funzionare; Target 2); deve essere effettivamente conservato e gestito almeno il 30% delle aree di particolare importanze per la biodiversità ed il funzionamento degli ecosistemi e per l’erogazione dei servizi ecosistemici (sottolineo “effettivamente”; Target 3); devono essere significativamente ridotti i rischi di estinzione delle specie minacciate, e deve essere mantenuta la diversità genetica delle popolazioni selvatiche o domestiche per preservare intatto il loro potenziale adattativo ed evolutivo (Target 4); il prelievo, l’uso ed il commercio di specie selvatiche deve essere legale e sostenibile (cioè non deve compromettere il potenziale demografico ed evolutivo delle popolazioni; Target 5); occorre eliminare, minimizzare ridurre o mitigare l’impatto delle specie invasive (Target 6).

L’accordo è stato sottoscritto dalla grande maggioranza dei 195 paesi che hanno partecipato alla COP15. Ma il limite principale è che questi accordi non sono vincolanti e lasciano ai singoli paesi gli obblighi, quasi solo morali, di realizzare obiettivi che non sono quasi mai raggiunti. La precedente strategia per la biodiversità 2011-2020 aveva individuato 20 target (https://www.cbd.int/sp/targets/). Come indica il Global Biodiversity Outlook (il rapporto periodico che riassume i dati sullo stato e le tendenze della biodiversità e valuta lo stato di attuazione della CBD; https://www.cbd.int/gbo5), nessuno di questi è stato completamente raggiunto, in parte per inadeguate articolazioni nelle strategie nazionali o per mancanza di volontà. In ogni caso per abissale carenza delle necessarie risorse economiche.

Il tema delle risorse disponibili annualmente ed effettivamente spese per la tutela della biodiversità (escludendo quindi operazioni truffaldine e di greenwashing) è controverso. Per esempio, uno studio stima che le risorse finanziarie spese in media ogni anno dal 2015 al 2017 per la biodiversità sia stato di circa 78-91 miliardi di dollari. Contemporaneamente i governi hanno speso circa 500 miliardi di dollari all’anno per sostenere attività potenzialmente dannose per la biodiversità, una cifra più di sei volte quanto speso per la biodiversità (https://www.oecd.org/environment/resources/biodiversity/report-a-comprehensive-overview-of-global-biodiversity-finance.pdf). Queste stime sembrano piuttosto aleatorie e altri studi indicano cifre differenti. Per esempio, uno studio del Paulson Institute ritiene che il divario tra l'importo attualmente speso per la conservazione della biodiversità e quanto sarebbe necessario sia molto ampio. A partire dal 2019, la spesa attuale per la conservazione della biodiversità sarebbe compresa tra 124 e 143 miliardi di dollari all'anno, contro un fabbisogno totale compreso tra 722 e 967 miliardi di dollari all'anno. Ciò lascia un attuale deficit di finanziamento della biodiversità compreso tra 598 e 824 miliardi di dollari all'anno (https://www.paulsoninstitute.org/conservation/financing-nature-report/).

Comunque sia, la conclusione è la stessa: i finanziamenti disponibili per la biodiversità, ricerca e conservazione, sono ampiamente insufficienti e come minimo dovrebbero venire raddoppiati o triplicati. Tuttavia, il target indicato dalla COP15 si limita, forse più realisticamente, ad indicare che per finanziare l’attuazione delle misure delineate dai target sia necessario reperire almeno 200 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Non è chiaro chi dovrà reperire questi soldi (governi, privati, ONG). Viene indicato un meccanismo per finanziarne l’attuazione tramite un fondo globale per la biodiversità. Alcuni paesi come il Canada e la Germania hanno già dichiarato che intendono incrementare significativamente le risorse disponibili. La COP15 ha anche raccomandato l’istituzione di un fondo solidarietà internazionale, destinato a compensare i costi sostenuti dai paesi più vulnerabili e più ricchi di biodiversità. Resta da verificare se effettivamente questi fondi verranno raccolti e poi come verranno investiti.

I target individuati dalla COP15 riprendono in modalità più ampia la visione e gli obiettivi di conservazione molto più limitati che sono stati da tempo definiti dalle principali convenzioni internazionali (per esempio, la Convenzione di Washington; CITES; https://cites.org/eng) e comunitarie: le direttive Uccelli e Habitats (https://ec.europa.eu/environment/nature/natura2000/index_en.htm), e la Convenzione di Berna (https://www.coe.int/en/web/bern-convention). Le direttive europee interessano una parte limitatissima della biodiversità. Solo nove habitat marini, tutti bentonici, sono presi in considerazione, ignorando, in questo modo, gli ambienti marini che ospitano la maggior parte della biodiversità ed erogano insostituibili benefici ecosistemici. L’articolo 11 della direttiva Habitats impone agli stati membri di monitorare gli habitat e le specie elencati negli allegati, mentre l'articolo 17 chiede l'invio alla Commissione Europea di un report di valutazione dello stato di conservazione degli habitat e delle specie oggetto della direttiva ogni sei anni. Le valutazioni vengono compilate sulla base delle informazioni sullo stato, tendenze e minacce delle popolazioni, specie o degli habitat, che vengono fornite da enti, gruppi di ricerca, studiosi o esperti. La compilazione dei report è responsabilità dei ministeri competenti (in Italia il Ministero dell’Ambiente; MISE). Le tecniche di indagine ovviamente variano a seconda dei casi (diversi tipi di habitat; stime di distribuzione e di abbondanza adeguate alle caratteristiche delle diverse specie ecc.), secondo logiche che dovrebbero essere adattative, ma che talvolta sono forzatamente opportunistiche, anche per carenza di personale esperto e di risorse finanziarie. Queste informazioni eterogenee confluiscono in valutazioni finali sullo stato di conservazione di habitat o specie che viene definito come “favorevole”, oppure “sfavorevole-inadeguato” oppure “sfavorevole-cattivo”. Sono osservazioni prevalentemente qualitative, comunque di grande importanza per ottenere valutazioni sintetiche sullo stato di habitat e specie, ma che non possono essere considerate veri e propri monitoraggi. Le metodologie utilizzate per arrivare a queste valutazioni potrebbero essere almeno in parte standardizzate per elaborare alcuni indicatori quantitativi. Resta ancora fare molto lavoro di ricerca, soprattutto in quegli ambienti e biomi che finora sono stati sottovalutati e poco studiati. E resta ancora molto lavoro da fare per trasformare i risultati della ricerca in linee guida e procedure dettagliate utilizzabili per piani di monitoraggio quantitativo. Per fare solo un esempio, per quanto riguarda il nostro paese il documento “Linee guida per le regioni e le province autonome in materia di monitoraggio delle specie e degli habitat di interesse comunitario” elaborato dal Ministero dell’Ambiente e da ISPRA fornisce solo indicazioni di carattere generale.

Le Liste Rosse raccolgono e sintetizzano le valutazioni delle minacce e dei rischi di estinzione di parte della flora italiana, nonché  “di tutte le specie di pesci d'acqua dolce, anfibi, rettili, uccelli nidificanti, mammiferi, pesci cartilaginei, libellule, coralli e coleotteri saproxilici, native o possibilmente native in Italia, nonché quelle naturalizzate in Italia in tempi preistorici” (http://www.iucn.it/liste-rosse-italiane.php). Ancora una volta, l’attenzione dei compilatori delle liste è focalizzata principalmente su specie terrestri e di acqua dolce. Restano ancora molto trascurati gli invertebrati e le specie marine. Le valutazioni dei rischi di estinzione sono basate sulle 11 categorie di rischio elaborate dalla IUCN (https://www.iucnredlist.org/), che esprimono sinteticamente le stime fornite dagli esperti dei gruppi tassonomici considerati prioritari. Sia le stime che le categorie di rischio sono essenzialmente qualitative e non sono traducibili in veri e propri piani di monitoraggio. Per es. il rischio può essere classificato come: “elevato”, “molto elevato” o “estremamente elevato”. Il monitoraggio dello stato di conservazione di habitat e specie è essenziale anche per valutare gli esiti delle azioni previste dalle decisioni deliberate dalla COP15. Come sarà possibile valutare la funzionalità delle nuove aree protette e dei corridoi ecologici che verranno istituiti nell’ambito dello schema 30x30? Come valutare se le azioni di ripristino di ecosistemi degradati avranno raggiunto il loro scopo? Come accertare se la perdita di biodiversità verrà effettivamente azzerata quando restano immense regioni e biomi ancora sostanzialmente inesplorati? La diffusione di specie aliene invasive e dannose sarà in effetti bloccata o almeno rallentata? In ognuno di questi casi servono per prima cosa programmi ricerca dedicati ad approfondire la conoscenza della diversità biologica, e poi servono programmi di monitoraggio efficaci e realizzabili, quindi finanziati.

Un programma di monitoraggio consiste essenzialmente nella definizione di almeno un indicatore quantitativo che consenta di misurare con precisione (inclusa la relativa misura di incertezza) uno o più parametri biologici, per esempio l’assorbimento di CO2 in un determinato ecosistema, la numerosità delle popolazioni di una determinata specie e così via. Questo ipotetico indicatore deve restare stabile ed essere applicato regolarmente nel tempo per replicare le misure ed ottenere così un trend per valutare la tendenza temporale delle variabili biologiche sottostanti. Le realizzazioni dei target indicati dalla COP15 e dalle normative comunitarie devono essere misurabili, basate sulle necessarie conoscenze scientifiche. Devono produrre risultati chiaramente comunicabili anche a chi non è del mestiere, per es. politici, amministratori, manager. Ricercatori e gruppi di ricerca conducono continuamente ottimi programmi di ricerca di biologia evoluzionistica, ecologia, sistematica e tassonomia, con risultati teoricamente utilizzabili per la tutela di ecosistemi e specie marine, terrestri e di acque dolci. Tuttavia, questi programmi di solito hanno durata limitata, utilizzano tecniche complesse e costose e non sempre sono in grado di fornire indicazioni che si materializzino in indicatori e programmi di monitoraggio. La ricerca scientifica è essenziale e va intensificata soprattutto in quei biomi e gruppi tassonomici tradizionalmente trascurati. Ma non è sufficiente. Per la tutela della natura nel “mondo reale” (M. E. Soulé. Conservation Biology and the “real world”, pp.1-13 in Conservation Biology. The science of scarcity and diversity. Ed. by M. E. Soulé, 1986, Sinauer) è necessario anche monitorare le azioni intraprese per conservare e ripristinare la biodiversità. Così come i ricercatori devono offrire le necessarie conoscenze scientifiche, i governi devono garantire i necessari investimenti anche in programmi pluriennali di monitoraggio.

In Italia ora abbiamo a disposizione i fondi del PNRR, oltre 220 miliardi il 37% dei quali deve essere investito in misure green, cioè a tutela della biodiversità o perlomeno senza arrecarle ulteriori danni. In attesa di conoscere quali progetti green verranno lanciati e di verificare come questi ingenti fondi verranno effettivamente spesi, almeno un obiettivo è stato realizzato: il centro nazionale per la biodiversità, opportunamente denominato in lingua inglese: National Biodiversity Future Center (NBFC). Un consorzio fra 31 istituti universitari, enti pubblici e privati di ricerca e 48 partner, costituito nel giugno del 2022, coordinato dal CNR e finanziato con oltre 320 milioni di euro per i primi tre anni (2023 - 2025). La mission di NBFC “… is to promote the sustainable management of Italian biodiversity in order to improve the planet’s health and return beneficial effects, essential for all people”. Fra le altre finalità dichiarate dalla Presidenza del CNR all’atto della costituzione del NBFC, leggiamo che: “NBFC è nato con la finalità di aggregare la ricerca scientifica nazionale di eccellenza e le moderne tecnologie per supportare interventi operativi volti a: - monitorare, preservare e ripristinare la biodiversità negli ecosistemi marini, terrestri e urbani della Penisola; - valorizzare la biodiversità e renderla un elemento centrale su cui fondare lo sviluppo sostenibile.  NBFC consentirà di raggiungere i seguenti risultati: - fornire strumenti innovativi ed efficaci ai decisori politici per contrastare l’erosione della biodiversità (conservazione e ripristino), quantificare i servizi ecosistemici e realizzare azioni volti alla conservazione e ripristino della biodiversità in tutto il Mediterraneo …” (https://www.cnr.it/it/intervento-presidente/11208/national-biodiversity-future-centre-firmato-l-atto-costitutivo). Sono dichiarazioni importanti. Vedremo se e come questi interventi verranno realizzati da qui al 2025. Evidentemente non sarà possibile elaborare indicatori quantitativi praticabili e reperire finanziamenti sufficienti per lanciare progetti di monitoraggio per la stragrande maggioranza delle specie di flora e fauna, oltre che per monitorare la funzionalità degli ecosistemi, ma ci aspettiamo che qualcosa di significativo venga realizzato. Decenni di ricerche, ancora in corso, hanno almeno parzialmente individuato parametri e gruppi di specie “sentinella” che possono essere adattati e trasformati in indicatori quantitativi. Il volume di ricerca che resta ancora da fare è moltissimo, ma supponiamo che NBFC abbia risorse, anche umane, sufficienti per svolgerlo almeno in parte.

Oltre allo sviluppo di progetti di monitoraggio realizzabili e finanziabili nel mondo reale della conservazione, proponiamo un ulteriore obiettivo che va nella direzione indicata dalla Presidenza del CNR, e cioè: “creare nella società civile una consapevolezza e partecipazione nei confronti della tutela e valorizzazione della biodiversità.” La società civile e prima di tutto le scuole, studenti e docenti, vanno coinvolte in programmi di educazione, diffusione di conoscenze e di citizen science. Ma serve anche un momento di sintesi, un centro informativo sulla biodiversità nel nostro paese, mari inclusi, che vorremmo chiamare: Atlante della Biodiversità. Già esistono nel web alcuni portali di documentazione della biodiversità: la Carta della Natura (https://sinacloud.isprambiente.it/portal/apps/webappviewer/index.html?id=885b933233e341808d7f629526aa32f6) e l’EcoAtlante (https://ecoatlante.isprambiente.it/); il Network Nazionale Biodiversità (https://www.nnb.isprambiente.it/en/the-network), gestiti da ISPRA per conto del Ministero dell’Ambiente con la collaborazione delle regioni. Questi i portali sono poco user-friendly, forse più utili per le amministrazioni pubbliche, anche se non sappiamo quanto siano realmente utilizzati. Per esempio, sarebbe interessante sapere quante scolaresche o quanti corsi universitari usino queste risorse. Per realizzare un Atlante della Biodiversità serve un approccio molto meno istituzionale, molto attrattivo e stratificato, cioè con livelli di accesso differenziati in relazione agli utenti target (cittadini, studenti, studiosi, tecnici, manager, amministratori, decisori). Dovrebbe ospitare banche dati e link alle altre banche dati della biodiversità disponibili nel web. Ma dovrebbe anche offrire visualizzazioni cartografiche sintetiche e dinamiche delle distribuzioni di habitat e specie, marine, terrestri e di acqua dolce. Poiché cambia il clima e cambiano gli ambienti, soprattutto a causa degli impatti antropici, l’Atlante dovrebbe documentare la biodiversità esistente entro e oltre il sistema delle aree protette. Ma dovrebbe anche sviluppare proiezioni prospettiche per aiutare tutti a comprendere, nei limiti del possibile, come potranno cambiare le distribuzioni e le composizioni di habitat e specie qualora il deterioramento ambientale si inasprisse o, al contrario, dove efficaci misure di conservazione venissero attuate. Già esistono tantissimi studi e pubblicazioni che documentano la presenza e distribuzione di specie, talvolta anche con stime di abbondanza. Queste informazioni, ora disperse in innumerevoli pubblicazioni e siti web, dovrebbero essere in qualche modo validate, sintetizzate e rese pubblicamente disponibili all’interno dell’Atlante. Tanti programmi LIFE e Interreg hanno prodotto negli anni innumerevoli informazioni sullo stato di settori specifici della biodiversità che attualmente sono disperse in altrettanti siti web. Ancora una volta, l’Atlante che qui proponiamo potrebbe sintetizzare queste informazioni e renderle pubblicamente disponibili in forma attraente ed accessibile a tutti. Infine, a vantaggio di una più diffusa cultura ecologica e naturalistica, l’Atlante potrebbe promuovere in modo scientificamente corretto le informazioni su quanto sappiamo della biodiversità nei parchi e nelle aree protette del nostro Paese e su quanto ancora ci resta da scoprire.

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