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COP 26, ennesimo fallimento annunciato

Riccardo Graziano
Un fallimento annunciato, l’ennesimo. Questo il bilancio sintetico della CoP 26 di Glasgow, la “Conferenza delle Parti” che per la ventiseiesima volta (!) ha provato, inutilmente, a mettere d’accordo i vari Paesi del mondo sulla necessità di ridurre le emissioni di gas a effetto serra per contenere il riscaldamento globale in atto e mitigare i mutamenti climatici che rischiano di portare al collasso il pianeta.
Nonostante gli organizzatori del vertice – in primis i britannici, ma anche l’Italia ha dato un ampio contributo - e i rappresentanti di alcuni Paesi abbiano provato a sostenere la positività dell’accordo raggiunto, organizzazioni ambientaliste e attivisti mettono in risalto il sostanziale nulla di fatto ottenuto dopo giorni di estenuanti trattative, chiuse con una semplice enunciazione di buone intenzioni, senza impegni vincolanti, pianificazioni precise, date da rispettare, eventuali sanzioni agli inadempienti. Un documento generico e poco incisivo, impietosamente definito da Greta Thunberg come “bla bla bla”, parole inutili, zero fatti, mentre il tempo per arginare la catastrofe si riduce drammaticamente, rendendo sempre più incombente il punto di non ritorno.

A quasi trent’anni dalla Conferenza di Rio de Janeiro (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development, meglio nota come Summit della Terra, tenuta nel 1992) quando per la prima volta venne siglato un trattato che puntava alla riduzione delle emissioni di gas serra per rallentare il surriscaldamento globale, siamo sostanzialmente ancora al punto di partenza. Nonostante  l’ormai diffusa consapevolezza dell’importanza e dell’urgenza di frenare l’effetto serra per evitare mutamenti climatici già avviati e potenzialmente catastrofici, i summit annuali delle CoP  da oltre un quarto di secolo si risolvono regolarmente in accordi annacquati e privi di efficacia, mentre il tempo per intervenire scivola via inesorabilmente.
Il perché accada questo ormai è chiaro ai più, e dovrebbe esserlo anche a coloro che si ostinano a organizzare questi incontri: la verità è che i vari Paesi non partecipano per trovare un accordo, ma semplicemente per difendere i propri interessi, dunque più che di “Conferenza delle Parti” dovremmo parlare di Conferenza “di parte”, dove ognuno pensa a tirare acqua al proprio mulino infischiandosene dei problemi altrui e puntando strenuamente a difendere lo status quo. A farne le spese sono – per ora - quelle nazioni che già oggi subiscono gli effetti dei mutamenti climatici, prime fra tutte le comunità insulari, che rischiano letteralmente di scomparire, inghiottite dall’innalzamento degli oceani, ma il cui grido d’allarme rimane impietosamente inascoltato.
Tuttavia, questo atteggiamento difensivo pecca di grave miopia, oltre che di mancanza di etica e solidarietà. L’India, per esempio, difende pervicacemente il proprio “diritto” a bruciare carbone per alimentare la sua crescita economica e a Glasgow ha ottenuto una modifica che recita “riduzione graduale” invece di “eliminazione graduale” del suddetto combustibile, responsabile del 40% delle emissioni totali di CO2. Il governo di Nuova Delhi sembra non rendersi conto dell’impatto che avrà sul suo territorio l’innalzamento delle temperature. Il sub-continente indiano, infatti, si trova già ora in una fascia climatica a temperatura elevata, cosicché un aumento anche di pochi gradi finirà per rendere inabitabili ampie porzioni del paese, provocando esodi e migrazioni di proporzioni bibliche. Stiamo parlando di uno stato che sfiora una popolazione di un miliardo e duecento milioni di abitanti. Se anche solo il dieci per cento di questa enorme massa di individui dovesse abbandonare le proprie case, avremmo 120 milioni di migranti climatici, un’enormità rispetto al numero dei profughi attuale, che pure determina già una serie di problematiche allarmanti.
Quest’onda migratoria, fatalmente, si riverserà anche sui Paesi ricchi, segnatamente USA e Unione Europea. I quali, dal canto loro, avevano promesso l’istituzione di un fondo da 100 miliardi di dollari per aiutare la transizione ecologica dei paesi meno sviluppati, finanziamento di cui si è persa ogni traccia o menzione.
Nel dettaglio, si registra una crescita dei membri della Powering Past Alliance, coalizione che punta all’abbandono totale del carbone, e del numero di Stati che, insieme a USA e UE, intendono diminuire del 30% le emissioni di metano, altro gas a effetto serra, entro il 2030. Nel complesso, l’obiettivo della neutralità carbonica, ovvero il pareggio fra emissioni e assorbimento di CO2, viene fissato al 2050 da Unione Europea e Stati Uniti, mentre la Cina lo dilaziona al 2060 e l’India addirittura al 2070. Secondo molti osservatori, troppo poco e troppo tardi.
Anche se alcuni stimano aumenti contenuti, fra 1,8 e 2,4 gradi centigradi da qui a fine secolo grazie alle misure preventivate, la maggioranza degli esperti prevede che, di questo passo, l’incremento sarà decisamente superiore, dell’ordine di 3-5 gradi centigradi, a seconda degli scenari. In entrambi i casi, il surriscaldamento globale è destinato a provocare un mutamento climatico accentuato, con sfumature che vanno dal preoccupante al catastrofico.

Vista la inconcludenza delle 26 CoP effettuate finora, e tenendo conto che le prossime CoP 27-28-29 si dovrebbero tenere rispettivamente in Egitto, Emirati Arabi Uniti e a Odessa, nella Crimea ex Ucraina attualmente occupata dalla Russia, cioè in casa di produttori di petrolio e gas ben poco sensibili alle tematiche ambientali, forse l’unico modo per rendere davvero utili questi summit globali sarebbe di non farli.
Almeno così si eviterebbero le emissioni di CO2 necessarie a organizzarli e attuarli, comprese quelle delle centinaia di voli privati con cui i potenti del mondo raggiungono le località che ospitano questi incontri, dove poi regolarmente non concludono nulla.

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