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I diritti calpestati del suolo

Alessandro Mortarino, coordinatore nazionale del Forum Salviamo il Paesaggio

Spesso sono pervaso dalla netta sensazione che il suolo sia percepito come un semplice spazio: uno spazio da occupare. Sia, cioè, riconosciuto non per ciò che è ma per ciò che vorremmo fosse, relegando all'oblio il valore “vero” di questo elemento, in realtà prioritario ed essenziale per l'uomo e per la sua sopravvivenza.

Se anziché un semplice spazio da occupare lo considerassimo, innanzitutto, per la sua indispensabile utilità, oso immaginare che la sua piena tutela raccoglierebbe quell'attenzione oggi ancora negatagli e la sua compromissione (ogni centimetro di cemento, asfalto, materiale impermeabilizzante) raggiungerebbe un grado di sacralità da anteporre ad ogni occasione edificante. Provocando la domanda preventiva: è davvero così indispensabile condannare la “terra” alla perdita della sua naturalità, fertilità, godimento paesaggistico? Potremmo farne a meno?

Domande che oggi fatichiamo ad esprimere e, quando lo facciamo, risultano puntualmente successive ad un'azione che già ha aggredito la delicata vitalità del suolo, la pelle viva del pianeta Terra. Una pellicola fragile.

Nel suolo vivono miliardi di creature viventi, un quarto della biodiversità di tutto il pianeta. I soli microrganismi possono essere oltre un miliardo in un solo grammo di suolo, ma nello stesso grammo si possono contare oltre 10.000 specie diverse. Tutti questi organismi viventi sono fondamentali per la genesi e la fertilità dei suoli e contribuiscono al suo armonico sviluppo che richiede tempi lunghissimi: stiamo quindi parlando di una risorsa finita non rinnovabile e per questo preziosa almeno al pari dell’acqua, dell’aria e del sole.

Se volessimo riportare un terreno compromesso (asportando il cemento o asfalto che lo ricopre per l’intervento dell’uomo) alla sua “naturalità”, quanti anni dovremmo attendere?

Non anni, ma secoli: per formare 1 cm di suolo occorrono infatti dai 3 ai 4 secoli. E circa 3 mila anni per raggiungere uno spessore utile ai fini agricoli. Tempi di rigenerazione che dovrebbero farci riflettere e che non dovrebbero lasciare dubbi per decidere di avviare un processo di vera salvaguardia dei suoli naturali ancora esistenti.

La posta in gioco è davvero elevata e l'esponenziale consumo di suolo che ha caratterizzato gli ultimi 50 anni del nostro sviluppo non corrisponde neppure ad autentiche esigenze abitative: secondo l'Istat nel nostro Paese sono infatti presenti oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi definitivamente chiusi, 55 mila immobili confiscati alle mafie. “Vuoti a perdere” che snaturano il paesaggio e le comunità a contorno, a fronte di un andamento demografico che vede la popolazione residente nel nostro Paese in riduzione costante dal 2014.

Dunque non dovrebbe essere giustificato continuare a trasformare “allegramente” le terre libere in colate di cemento e asfalto, che ricoprono ormai 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400 - una superficie grande quanto la Liguria - riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato. Un consumo di suolo che risulta pari al 7,11% del territorio nazionale, rispetto alla media UE del 4,2%.

Ma non dimentichiamoci che la superficie dell'Italia è per circa il 35% di carattere montuoso, dove non è possibile edificare. Dunque la cementificazione ha eroso le aree di pianura, che rappresentano il 25% dell’intera superficie del nostro Paese e un'ampia parte di quel restante 40% di superficie fatto di colline sotto gli 800 metri. Luoghi ormai caratterizzati dai cartelli “vendesi” o “affittasi”...

Secondo l'ultimo Rapporto ISPRA, nel 2021 il consumo di suolo è tornato a crescere alla media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, a una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, sfiorando i 70 km2 di nuove coperture artificiali in un solo anno.

Il rapporto ISPRA evidenzia anche quanto ci costa questo sproporzionato consumo di suolo in termini sociali. Le conseguenze sono anche economiche e i “costi nascosti”, dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire a causa della crescente impermeabilizzazione e artificializzazione degli ultimi otto anni, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno (che vanno ad aggiungersi ai costi fissi accumulati negli anni precedenti). Valori che sono attesi in aumento nell’immediato futuro e che potrebbero erodere in maniera significativa le risorse disponibili anche in base alle previsioni del programma Next Generation EU. Si può stimare, infatti, che se fosse confermato il trend attuale e, quindi, la crescita dei valori economici dei servizi ecosistemici persi, il costo cumulato complessivo, tra il 2012 e il 2030, arriverebbe quasi a 100 miliardi di euro, praticamente la metà dell’intero PNRR.

ISPRA stima un costo annuale medio per la perdita dei servizi ecosistemici (stoccaggio e sequestro di carbonio, qualità degli habitat, produzione agricola, produzione di legname, impollinazione, regolazione del microclima, rimozione di particolato e ozono, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, disponibilità di acqua, purificazione dell’acqua) compreso tra 66.000 e 81.000€ a ettaro, per il flusso di servizio che il suolo non sarà più in grado di assicurare e tra 23.000 e 28.000€ a ettaro, per lo stock di risorsa perduta. Complessivamente, quindi, tra 89.000 e 109.000€ l’anno per ciascun ettaro di terreno libero che viene impermeabilizzato.

Il consumo di suolo costa davvero tanto alle nostre comunità! E non solo sotto il profilo “ambientale”, ma anche sotto quello finanziario.

Il suolo è spesso considerato esclusivamente per le sue funzioni legate alle produzioni di alimenti, poiché ogni ettaro di terreno fertile, se coltivato, risulta in grado di sfamare 6 persone per un anno: stiamo parlando, in piccolo, di “sovranità alimentare”.

Il Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali ci ricorda che il nostro Paese è in grado, oggi, di produrre appena l’80-85% del proprio fabbisogno primario alimentare, contro il 92% del 1991. Significa che se, improvvisamente, non avessimo più la possibilità di importare cibo dall’estero, ben 20 italiani su 100 rimarrebbero a digiuno e che quindi, a causa della perdita di suoli fertili, il nostro Paese oggi non è in grado di garantire ai propri cittadini la sovranità alimentare. Termine che, non a caso, è ora entrato a far parte della stessa denominazione del Ministero.

Ma il suolo è anche un elemento fondamentale per contrastare la crisi climatica: ogni ettaro di terreno fertile assorbe circa 90 tonnellate di carbonio ed è in grado di drenare 3.750.000 litri d’acqua: in questo particolare momento, a fronte di precipitazioni atmosferiche di portata sempre maggiori e di lunghi periodi siccitosi, il nostro suolo, oltre a drenare l’acqua piovana (contribuendo a contenere gli effetti di possibili inondazioni e alluvioni), ne conserva quanto basta per alimentare ciò che in esso vive e si sviluppa.

Credo che questi semplici dati (ne potremmo citare molti altri...) dovrebbero farci riflettere e iniziare a considerare il suolo e la sua salvaguardia come prima preoccupazione quotidiana. Invece assistiamo a puntuali “balletti” - guidati dalle decisioni politiche - che mirano a minimizzare e procrastinare un piano serio di tutela dei suoli liberi. Balbettii che negli ultimi anni – vissuti tra crisi pandemiche e venti di guerra - si sono moltiplicati, rendendo evidente come gli aspetti economici abbiano ormai egemonizzato il pensiero, relegando le questioni ambientali a un ruolo subalterno: se una “cosa” non produce PIL, può essere sacrificata...

Nel nostro caso, il consumo di suolo continua ad essere vissuto come un male accettabile. Come dimostra il caso della produzione di energia da fonti rinnovabili. La guerra tra Russia e Ucraina e la crisi energetica che ha toccato tutte le economie occidentali hanno reso urgente, in maniera drammatica, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e indotto gli Stati ad accelerare lo sviluppo del settore delle energie “pulite” ricavate dal sole, dal vento, dall'acqua, dal mare. Mi verrebbe da dire: finalmente realizzati i sogni di tutto il pensiero ambientalista!

C'è, però, un “però”... E so di addentrarmi in un territorio minato, abitato da tanti dubbi e mille contrapposizioni, anche sul fronte dell' “ambientalismo” militante. La logica ricorrente è, infatti, quella di ritenere che l'obiettivo principale è slegarsi dalle fonti fossili e di farlo in fretta. Questo sta significando favorire lo sviluppo di impianti fotovoltaici a terra (privilegiando le grandi superfici e, dunque, i terreni naturali e fertili), di “parchi” eolici lungo i crinali, di centrali idroelettriche lungo i corsi d'acqua. E' la scelta giusta? Ed è un sacrificio che possiamo permetterci anche se queste scelte concorrono a danneggiare altri elementi primari come il suolo?

L’applicazione del Pnrr-Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) prevede di  mettere “a terra” in meno di sei anni circa 15 GigaWatt (12 dal Piano con l’opzione “Power-up” e tre con misure ad hoc). Per questi soli 15 GigaWatt di solare potrebbero essere necessari tra i 10 e i 18mila ettari di suolo (agricolo) e complessivamente è stimabile un aumento del 50% del consumo di suolo annuale. Un rischio grave di ritrovarci con ancor meno suolo fertile a disposizione e meno paesaggi per “cibare” le nostre anime.

Se fossimo così avveduti da applicare anche a questo tema il principio "Do No Significant Harm" (DNSH) previsto dall'UE per il finanziamento degli interventi individuati dai PNRR nazionali, non dovrebbero esserci dubbi nell'evitare che la "caccia" alle energie pulite possa creare danni a una risorsa primaria come il suolo. Il principio chiede che non si arrechi nessun danno significativo ad alcuno di diversi obiettivi ambientali, compresa la biodiversità.

Il tema è, però, controverso. Ad esempio: in molti sostengono che il cosiddetto “agrivoltaico”  possa rappresentare una risposta corretta alla necessità di produrre energia rinnovabile tramite pannelli solari senza sottrarre terreni produttivi all’agricoltura e all’allevamento, ma bensì andando ad integrare le due attività. Energia, insomma, senza danneggiare le attività agricole.

Gli stessi equiparano, anche, la bellezza paesaggistica dei parchi eolici italiani con gli acquedotti dei romani o le cattedrali del Rinascimento, fino a dire che "le pale eoliche e le ferrovie ad alta velocità sono le nostre moderne cattedrali...".

Ma è così, davvero? Abbiamo necessità di mantenere e addirittura accrescere la disponibilità di energia oppure dovremmo innanzitutto pianificare una drastica azione di riduzione degli sprechi? E se, invece di intaccare suoli liberi e crinali e fiumi, ci impegnassimo a piazzare nuovi impianti su superfici già antropizzate/impermeabilizzate, quanta energia potremmo ricavare senza danneggiare altri elementi naturali primari?

Poche settimane fa due notizie importanti ci fanno sperare in una diversa attenzione ai diritti del suolo. A livello continentale il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico (provvisorio, in attesa di piena adozione) sull’aumento del contributo che il settore dell’uso del suolo, del cambiamento di uso del suolo e della silvicoltura (LULUCF-Land use, land-use change, and forestry) ) dovrà offrire agli obiettivi dell’UE in materia di clima.

Che cosa significa? Che, finalmente, la politica europea riconosce l'enorme ruolo ecosistemico del suolo e lo collega strettamente al contrasto del cambiamento climatico. Il suolo assume una prioritaria identità di “attore” strategico per il raggiungimento del “Fit-for-55”, cioè l’obiettivo che l’Unione Europea si è posto per raggiungere nel 2030 la riduzione delle emissioni di gas serra, pari al 55% rispetto all’anno 1990.

Per traguardare questo obiettivo, anche il suolo dovrà (e potrà) fare la sua parte. E l'accordo tra gli Stati europei la regola definendo un obiettivo generale a livello UE di 310 milioni di tonnellate di CO2 equivalente di assorbimenti netti solo grazie ai settori di competenza dell’accordo. Il settore LULUCF comprende l’uso di terreni, alberi, piante, biomassa e legname ed è responsabile sia dell’emissione che dell’assorbimento di CO2 dall’atmosfera. L’obiettivo è aumentare progressivamente gli assorbimenti e ridurre le emissioni in modo da raggiungere l’obiettivo a livello dell’UE, impegnando ogni Stato membro a perseguire un obiettivo nazionale vincolante assegnatogli, da conseguire entro il 2030. Potremmo definirlo un preciso “patto contrattuale”: ogni Stato UE conosce oggi in quale misura dovrà tutelare la primaria risorsa suolo ed è lecito credere che il suo consumo possa così tendere ai minimi termini.

In Italia, invece, è ritornata in Parlamento – alla Camera dei Deputati – la Proposta di Legge del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati“, ed è una bella notizia perché a (ri)presentarla è una eletta per il suo secondo mandato, che ha riconosciuto all'importante lavoro dell'intera Rete del Forum (oltre mille organizzazioni e decine di migliaia di aderenti individuali) non solo l'elevato valore “ambientale” ma anche la sua “forza” giuridica. La parlamentare è l’onorevole Stefania Ascari, avvocato quarantaduenne (Movimento 5 Stelle) che si è detta ben conscia delle difficoltà che la norma incontrerà sul suo cammino dopo essere stata incardinata nel 2018 in commissioni congiunte Ambiente e Agricoltura del Senato per poi essere gravemente “congelata” dalle pressioni di potenti lobbies. Che, evidentemente, ancora non hanno compreso come l'arresto del consumo di suolo e la salvaguardia del suolo italico ancora non antropizzato e compromesso, suggeriscano un pieno orizzonte di sviluppo per l’intero comparto edilizio orientato al recupero e riuso dell’ingente patrimonio esistente e non utilizzato anziché alle nuove costruzioni.

Incrociamo le dita e auguriamoci  che il suolo che abitualmente calpestiamo riesca a vedere affermati i suoi pieni diritti. Calpestati, fino ad oggi...

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