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Il cinghiale: nemico pubblico o trastullo per i cacciatori?

Spesso viene presentato come il più grande disastro ambientale contemporaneo. Ma perché il cinghiale è proliferato in modo così rapido e massiccio? E soprattutto, quanto si sta facendo per contrastarne la diffusione è veramente efficace? Numerosi studi scientifici sollevano molti dubbi. E quasi mai si prendono in considerazione le possibili alternative.

 

Piero Belletti

 

Nel periodo medioevale il cinghiale era diffuso in gran parte del nostro Paese. A partire dal 1500 cominciò tuttavia, a causa delle uccisioni da parte dell’uomo, un declino, che culminò all’incirca un centinaio di anni fa, quando la specie, ad esempio, risultava del tutto assente nell’Italia nord-occidentale. Pare che proprio nel 1919 alcuni esemplari provenienti dalla Francia ritornarono in Piemonte e Liguria, dando il via ad un processo di ricolonizzazione che, dapprima lentamente, ma via via sempre più velocemente ha portato alla situazione attuale. Le cause dell’espansione del cinghiale sono fondamentalmente due: la prima è l’accresciuta disponibilità di territorio a lui congeniale, grazie all’abbandono di boschi e campi (soprattutto in aree montane e collinari) e alla grandissima capacità di adattamento della specie. Ma altrettanto, se non più importanti, sono state le massicce immissioni, compiute a scopo venatorio da Associazioni di cacciatori, ma anche da Amministrazioni pubbliche, che si effettuarono a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e che sono durate (quasi) fino ai giorni nostri. Peccato che queste immissioni, come afferma l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) siano state “inizialmente operate con soggetti catturati all’estero e, successivamente, con animali prodotti in allevamenti che si sono andati progressivamente sviluppando in diverse regioni italiane. Ciò ha creato problemi di incrocio tra sottospecie differenti e di ibridazione con le forme domestiche, che hanno determinato la scomparsa dalla quasi totalità del territorio della forma autoctona peninsulare” (Carnevali L., Pedrotti L., Riga F., Toso S., 2009. Banca Dati Ungulati - Status, distribuzione, consistenza, gestione e prelievo venatorio delle popolazioni di Ungulati in Italia, Collana “Biologia e Conservazione della Fauna”, Volume 117). In pratica, la maggior parte degli esemplari liberati apparteneva al ceppo est-europeo (l’ecotipo autoctono dell’Italia settentrionale si era nel frattempo estinto), più grande e prolifico di quello maremmano, quindi caratterizzato da un maggior interesse venatorio.

Quindi, se oggi la situazione è quella che conosciamo, sia ben chiaro che la principale responsabilità è del mondo venatorio. Mondo venatorio che però approfitta della situazione e si propone quale unico soggetto in grado di risolvere un problema da lui stesso creato. In realtà, i cacciatori non hanno nessuna intenzione di risolvere il problema cinghiale, che sopperisce a una carenza di altre specie di interesse venatorio sempre più evidente. Non solo, poiché il cinghiale viene anche cacciato nell’ambito di piani di selezione (che prevedono l’abbattimento di individui predeterminati in base al sesso e all’età e che non sono limitati alla stagione venatoria, ma estesi per tutto l’anno) ecco che ai cacciatori si concede la possibilità di divertirsi di fatto per 12 mesi all’anno, e non più per due o tre come avveniva in un recente passato.

E questo non lo affermiamo solo noi ambientalisti, notoriamente tacciati di incompetenza ed emotività quando si affrontano questioni che riguardano la fauna. Lo dice il citato ISPRA (ricordiamo, massima autorità scientifica italiana in materia di caccia), il quale, commentando il piano di controllo del cinghiale della Regione Toscana per il periodo 2019-22 afferma testualmente: “Ciò che invece appare evidente è come l’attività di caccia di selezione e più complessivamente gli interventi autorizzati (che dovrebbero avere precise finalità di contenimento della specie) non appaiono essere stati recepiti ed attuati come strumenti specificatamente finalizzati alla riduzione degli impatti causati dai cinghiali, e come la programmazione realizzata non si differenzia in modo incontrovertibile dalla normale attività venatoria, Al riguardo le azioni condotte potrebbero essere lette più come una opportunità per estendere tempi e aree di caccia che come interventi finalizzati al raggiungimento degli obiettivi di contenimento dei danni previsti dalla legge regionale. In particolare, dalla relazione inviata (dalla Regione Toscana, n.d.r.), emerge come si continui a fare ampio uso della braccata (modalità di caccia mediante la quale gli animali selvatici, in questo caso cinghiali, vengono spinti da mite di cani verso i luoghi ove i cacciatori sono appostati, n.d.r.), anche in ambiti protetti e in periodi (ottobre-febbraio) in cui lo stadio di sviluppo delle colture garantirebbe, invece, la massima visibilità e contattabilità di eventuali animali presenti nelle aree agricole che potrebbero, pertanto, essere efficacemente rimossi attraverso il prelievo in selezione. Al riguardo, si evidenzia come l’attività di controllo, così come programmata e realizzata, appare configurarsi solo come una estensione dell’attività di caccia in braccata al di fuori degli ambiti e dei tempi previsti dalle norme, nonché un ampliamento del personale coinvolto a figure non esplicitamente previste dalla normativa medesima”.

Ma al di là di queste considerazioni, che comunque già da sole dovrebbero innescare una profonda riflessione sulle modalità di controllo del cinghiale, c’è da rilevare come le azioni che si intraprendono oggi sono spesso inutili se non addirittura favorevoli ad una ulteriore diffusione della specie. Azioni: in realtà avremmo dovuto usare il singolare, visto che l’unico intervento che si propone e si attua per controllare i cinghiali sono gli abbattimenti.

Quindi gli abbattimenti favoriscono la diffusione della specie, invece di contrastarla? Sembra strano ma in gran parte è proprio così. E vediamone i motivi.

In primo luogo gli abbattimenti, soprattutto se effettuati attraverso il deprecabile metodo della braccata, tendono a disgregare i branchi. Questi sono di solito costituiti da femmine con i loro piccoli, mentre i maschi tendono ad avere comportamenti più solitari. Il branco è guidato dalla scrofa più anziana (quindi anche quella di maggiori dimensioni), la quale, tramite messaggi di tipo ormonale, riesce in qualche modo a controllare l’estro delle femmine più giovani, all’evidente scopo di favorire i propri discendenti, e quindi il proprio patrimonio genetico. Quando i branchi di disperdono, soprattutto in caso di abbattimento della femmina alfa (peraltro obiettivo principale dei cacciatori, perché, come detto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni), spesso poi si assiste alla formazione di branchi più piccoli, con il conseguente aumento di femmine che vanno in calore (spesso anche anticipato) e, in definitiva, del tasso riproduttivo della specie. Non solo, la destrutturazione dei branchi determina anche spesso la diffusione degli animali in aree limitrofe a quelle in cui prediligono insediarsi, e cioè quelle boschive, determinando di fatto le condizioni idonee per una crescita del numero complessivo di animali e dell’aumento dei danni alle coltivazioni agrarie. Non solo, aumenta anche la probabilità di incidenti. Le statistiche a tale proposito sono chiarissime: la maggior parte degli investimenti di cinghiali, ma non solo, avviene nei mesi autunnali, durante la stagione venatoria.

E tutto questo senza contare l’enorme disturbo che la caccia al cinghiale, soprattutto se eseguita con la braccata determina ad altre specie animali, che spesso vengono disturbate proprio nella delicatissima fare riproduttiva.

Le Associazioni ambientaliste da anni propongono l’adozione di strategie alternative agli abbattimenti per limitare i danni che il cinghiale arreca alle attività agricole, così come peraltro previsto dalla legislazione nazionale in materia venatoria, che impone, prima di procedere con gli abbattimenti di specie che creano problemi, la verifica dell’efficacia di metodi cosiddetti “ecologici”. Quasi inutile ribadire come questa norma non venga praticamente mai seguita. Tra le possibili modalità alternative in grado di limitare la diffusione e i danni provocati dal cinghiale ricordiamo il divieto dell’allevamento e del trasporto di animali (che troppo spesso sfocia, guarda caso, in fughe di animali in ambienti aperti….), l’uso di recinzioni elettrificate per proteggere le colture più pregiate, dissuasori ad ultrasuoni, l’uso di prodotti contraccettivi. Certo, in quest’ultimo caso, i problemi da superare sono ancora molti, Però è evidente che fino a quando non si affronta un problema con convinzione, mezzi e risorse adeguati, ben difficilmente si sarà mai in grado di risolverlo….

Ricordiamo infine che il cinghiale non è quella specie così pericolosa per l’uomo come certa propaganda interessata vuol farci credere (la stessa cosa capita per il lupo). Il cinghiale, come tutti gli animali selvatici, teme l’uomo e fugge in sua presenza. Solo in casi del tutto particolari (animale ferito e cui sia preclusa ogni via di fuga, persona che viene a trovarsi tra la madre e i suoi piccoli) è possibile un attacco. Si tratta comunque di episodi estremamente rari, anche alla luce dell’elevato numero di cinghiali oggi presenti nel nostro Paese: quanti siano esattamente nessuno lo sa, ma si sente parlare di stime che arrivano fino a 2 milioni di esemplari.

Su questi temi il Tavolo Animali e Ambiente di Torino (Comitato che raccoglie numerose Associazioni ambientaliste ed animaliste, tra cui Pro Natura Torino) sta organizzando un convegno, che dovrebbe tenersi il prossimo 20 giugno a Torino. Il condizionale è tuttavia d’obbligo, stante l’attuale situazione legata all’epidemia di coronavirus. È quindi possibile che l’evento verrà rimandato, forse all’autunno. Chi fosse interessato può chiedere informazioni rivolgendosi alla Segreteria di Pro Natura Torino (tel. 011 5096618, torino@pro-natura.it).

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