Membro di
Socia della

Inquinamento e virus

Riccardo Graziano

 

Parecchi studi indicano una relazione fra i livelli di inquinamento dell’aria e l’incidenza delle epidemie. La letteratura scientifica in materia è già consistente ed è probabile che l’attuale emergenza da Covid-19 fornirà ulteriori evidenze in tal senso, come i primi dati empirici sembrano indicare. L’inquinamento agevola la propagazione del contagio in duplice modo, indebolendo le nostre difese e facendo da vettore ai virus.

Il primo effetto è quello di abbassare le nostre difese immunitarie, ovvero la naturale barriera del nostro organismo contro l’azione dei patogeni. Uno studio sulle sindromi influenzali e similari ha rimarcato che l’esposizione agli inquinanti più comuni (particolato fine PM 2,5 e PM 10, ossidi di azoto NOx, ozono O3, monossido di carbonio CO) provoca danni alla copertura epiteliale delle prime vie aeree e inibisce la capacità dei nostri anticorpi di contrastare l’infezione.

Particolarmente interessante uno studio epidemiologico sulla SARS - il cui agente scatenante è un virus con caratteristiche simili all’attuale responsabile della Covid 19 - che ha analizzato la virulenza della sindrome in Cina, giungendo alla conclusione che l’inquinamento atmosferico era da considerare in correlazione con l’aumento delle percentuali di mortalità dei pazienti. Analoghe relazioni hanno individuato questo collegamento anche nel caso di altre epidemie esplose negli ultimi anni, fino ad arrivare a quella che stiamo subendo attualmente.

In questi giorni è stato pubblicato uno studio della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) che evidenzia la connessione fra gli elevati livelli di PM registrati in determinate giornate dalle centraline di rilevamento dell’ARPA e l’impennata di contagi da Coronavirus. Dati che peraltro ricalcano e confermano quelli delle ricerche effettuate sulle precedenti epidemie, dai quali risulta che spesso i focolai sono concentrati in zone con elevati livelli di inquinamento, come la Cina e la nostra Pianura padana.

È stato rilevato come il virus, grazie a un processo di coagulazione, sia in grado di legarsi al particolato presente in atmosfera, cosa che gli consente di sopravvivere più a lungo in attesa di penetrare all’interno di un organismo recettore. Evidente quindi che maggiore è la quantità di particolato in atmosfera, più ci sono probabilità di mantenere alto il numero dei virus in circolazione. Dunque cresce il rischio di infezione, sia per quanto riguarda il numero di potenziali contagi sia, soprattutto, per l’incidenza percentuale delle forme più acute.

In questo senso, il calo delle attività produttive e, conseguentemente, della mobilità e dell’inquinamento ci tutela doppiamente, sia dalla minaccia di veicolare il virus, sia in generale per la migliore qualità dell’aria che introduciamo nei polmoni. In questi tempi drammatici di Covid-19 non bisogna infatti dimenticare un’altra emergenza epidemiologica non meno letale, che tuttavia non sembra destare preoccupazione perché meno evidente.

Secondo quanto asserisce l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento è causa diretta di un numero impressionante di morti premature: a livello mondiale circa 8 milioni di persone all’anno, 80.000 in Italia, oltre 200 al giorno. Una strage silenziosa che non riempie le prime pagine dei quotidiani e non viene affrontata con la stessa determinazione con la quale – giustamente – stiamo combattendo questa epidemia. Paradossalmente però, proprio le misure prese per contrastare la Covid-19, col blocco del traffico e di molte attività produttive, potrebbero ridurre anche queste morti premature, grazie alla drastica diminuzione degli inquinanti.

È chiaro però che la terapia shock di questi giorni non sarebbe sostenibile sul lungo periodo. Ecco dunque che questa pandemia, con le misure draconiane che ha imposto, potrebbe anche essere occasione per ripensare il nostro sistema produttivo e socio-economico, per renderlo maggiormente sostenibile dal punto di vista della salute delle persone e dell’ambiente. L’attuale situazione di crisi ci dà la possibilità di riconsiderare concetti paradigmatici come “crescita” e “sviluppo” sostituendoli con “progresso”, che sembra un sinonimo, ma non lo è. Perché i primi due sono concetti preminentemente quantitativi, mentre il progresso è un fatto qualitativo.

Buttare tonnellate di cemento e asfalto in nome dello “sviluppo” farà anche crescere il PIL, ma questa emergenza ci dovrebbe aver insegnato che le cose importanti sono altre, come la possibilità di poter contare su un sistema sanitario efficiente, in grado di salvarti la vita anche in condizioni estremamente critiche. Questo è progresso: riuscire a curare mali che sembravano incurabili, aumentare benessere e qualità della vita delle persone di qualunque età.

Ma per fare questo occorre investire in didattica, educazione, formazione, ricerca, tecnologia. Forse il dramma che stiamo vivendo servirà a farci cambiare direzione verso nuove prospettive, che mettano al centro la persona anziché il profitto. Per poi magari scoprire che, investendo in salute e tutela dell’ambiente, anche l’economia potrebbe trarne giovamento.

 

Torna indietro