Membro di
Socia della

La fine del Mondo

L’Orologio dell’Apocalisse è a 100 secondi dalla fine del mondo. Ma cos’è l’Orologio dell’Apocalisse? E persino – cos’è la fine del mondo?

Riccardo Graziano

La prima risposta è semplice: l’Orologio dell’Apocalisse (in inglese Doomsday Clock, letteralmente l’Orologio del Giorno del Giudizio) è un’ideazione del 1947, agli albori dell’era atomica e della Guerra Fredda fra USA e URSS. Un gruppo di scienziati di Chicago propose di immaginare un orologio nel quale la mezzanotte rappresentasse la fine del mondo e le lancette venissero regolate in base al rischio e alla criticità del momento, per rendere plasticamente visibile all’opinione pubblica la gravità della situazione. All’epoca della sua istituzione, l’Orologio prevedeva solo la possibilità di olocausto nucleare a seguito di una guerra atomica ed era arrivato fino a meno due minuti dalla mezzanotte. Dal 2007, in un clima geopolitico mutato, vengono presi in considerazione anche altri scenari in grado di arrecare danni apocalittici all’umanità, quali i cambiamenti climatici ormai in corso. La posizione delle lancette viene fissata in genere una volta l’anno e ora siamo a meno 100 secondi, mai così vicini alla fine del mondo, almeno secondo l’opinione degli scienziati che si occupano di “spostare” le lancette a seconda del contesto, in base comunque a valutazioni piuttosto rigorose e supportate da fatti.

Ma veniamo alla seconda domanda: cosa intendiamo per “fine del mondo”?
Se pensiamo all’Universo, possiamo stare relativamente tranquilli: si espande da 14 miliardi di anni e continuerà a farlo per un tempo più o meno simile, dopodiché non si sa cosa succederà, perché i cosmologi non hanno ancora capito bene se continuerà a crescere o se collasserà su se stesso, magari innescando un nuovo Big Bang, ma abbiamo un tempo sufficientemente lungo per occuparcene.
Se invece pensiamo più modestamente al nostro Sistema Solare, anche qui non abbiamo grosse preoccupazioni: il nostro Sole è una “Nana Gialla”, una stella estremamente stabile che produce energia e calore bruciando idrogeno da 5 miliardi di anni e continuerà per altrettanto tempo a farlo, fino a quando esaurirà il combustibile. A quel punto, prima collasserà su sé stesso a causa della forza di gravità, poi la violenta compressione provocherà un’esplosione di potenza inimmaginabile, facendolo espandere alle dimensioni di una “Gigante Rossa” la cui circonferenza arriverà fino all’orbita terrestre, investendo il nostro povero pianeta e friggendo qualunque forma di vita vi fosse ancora presente. Ma anche qui, abbiamo ancora parecchio tempo per preoccuparci e non è il caso di considerarla un’urgenza.

Ma c’è un’altra “fine del mondo” da tenere in considerazione: quella dell’Umanità, intesa come estinzione di massa, o comunque della civiltà come oggi la conosciamo, con un collasso epocale in termini sia numerici, sia di condizioni di vita, o meglio di sopravvivenza. E qui i rischi ci sono, gravi e incombenti.
I mutamenti climatici sono ormai evidenti a tutti, tranne ai negazionisti di mestiere, come è anche chiara la nostra responsabilità diretta in ciò che sta accadendo, tanto che l’attuale epoca viene definita Antropocene, per rimarcare l’influsso dell’Uomo sul sistema terrestre. Siamo anche abbastanza consci del fatto che stiamo inquinando il pianeta, a partire dall’accumulo delle plastiche nell’ambiente. Più sfumata invece la percezione della perdita della biodiversità e dei rischi sistemici che questa comporta. Ma quella che manca quasi totalmente è la consapevolezza della gravità della situazione, tranne che fra gli addetti ai lavori e fra gli ambientalisti, che però ancora troppo spesso vengono etichettati come Cassandre, allarmisti, pessimisti e chi più ne ha più ne metta.
Purtroppo non è così. Come ha scritto giustamente qualcuno anche su queste pagine, la realtà non lascia più spazio al pessimismo. La situazione attuale ricalca quella preconizzata 30 o 50 anni fa dagli esperti che disegnavano scenari futuri a 30 o 50 anni. Le loro previsioni si sono puntualmente concretizzate, in alcuni casi in termini persino peggiori di quanto paventato. Chi scrive ricorda per esempio una conferenza sull’ambiente di oltre trenta anni fa, nella quale il relatore metteva in guardia sul fatto che con lo scioglimento dei ghiacciai e il modificarsi del regime delle precipitazioni, alla lunga le risaie del Piemonte avrebbero potuto trovarsi in difficoltà per carenza d’acqua nel periodo della coltivazione: ed eccoci qua, esattamente in quella situazione, con parecchi risicoltori in seria difficoltà, come peraltro molti altri coltivatori, messi in ginocchio da una siccità senza precedenti e successivamente colpiti da eventi meteorologici estremi, grandinate e alluvioni che hanno spazzato via in pochi minuti il lavoro di un’intera stagione.

Non siamo ancora ai livelli di una possibile carestia, ma il rischio diventa di anno in anno più concreto, specialmente in un Paese che continua insensatamente a cementificare e asfaltare i campi coltivabili e che nell’arco di pochi decenni ha ridotto drammaticamente la propria sovranità alimentare, ovvero la capacità di produrre sul proprio territorio il cibo destinato alla sua popolazione. Attualmente, siamo già costretti a importare l’equivalente del 38% del nostro fabbisogno di proteine e calorie. Ciononostante, continuiamo a erodere la nostra superficie coltivabile: lo stesso PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che dovrebbe guidare la “transizione ecologica” prevede di sacrificare ulteriori 200.000 ettari di terre fertili per la produzione di energia “verde”.

Nessuno contesta la necessità di riconvertire la produzione energetica puntando sulle rinnovabili e abbandonando il più velocemente possibile le fonti fossili, anzi, gli ambientalisti lo sostenevano da decenni, ben prima che la guerra in Ucraina mettesse in luce la nostra dipendenza dalle forniture russe. Tuttavia, generare energia a scapito della produzione agricola non sembra affatto una buona idea, perché lo stesso conflitto ha messo bene in evidenza anche la nostra dipendenza dalle importazioni di grano da Russia e Ucraina, cosa della quale non avevamo contezza. Per essere davvero “resiliente“, una nazione dovrebbe prima di tutto puntare all’autosufficienza alimentare oltre che energetica, sfruttando con oculatezza le proprie risorse ambientali, a partire dall’acqua e dalle terre fertili per arrivare al sole e al vento, che dovrebbero diventare i nostri fornitori esclusivi di energia, senza però impattare sull’ambiente. Constatare che il PNRR non è sufficientemente incisivo in questa direzione, anzi che addirittura si muove in modo contraddittorio, non è per nulla rassicurante.

La situazione è persino peggiore se allarghiamo lo sguardo a livello globale. Pensiamo al fondamentale rapporto “I limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma al MIT di Boston, che proprio quest’anno compie 50 anni e che ha chiarito oltre ogni dubbio che non si può crescere all’infinito in un sistema finito, quale è il nostro pianeta. Gli scenari delineati da quello studio sono attualissimi e le previsioni si sono dimostrate azzeccate, alla faccia delle innumerevoli critiche che hanno cercato di delegittimare il rapporto in ossequio alla concezione “sviluppista” tuttora in corso. Dopo la flessione produttiva dovuta alla pandemia Covid-19, abbiamo sentito da più voci ripartire il mantra della “crescita”, vista come unica opportunità per garantire benessere. Evidentemente, non abbiamo ancora capito la situazione.

Eppure, i segni della catastrofe imminente sono già presenti, non sono nemmeno più “segnali premonitori”, tuttavia ci rifiutiamo di vedere le cose per quello che sono e, soprattutto, non sembriamo intenzionati a porre rimedio alla situazione, perché ciò significherebbe mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri stili di vita, mutare radicalmente il nostro paradigma produttivo ed economico. Tutte cose che non vogliamo fare, anche se ci stanno portando verso l’autodistruzione. Perché ci sono seri motivi se gli scienziati hanno messo le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 100 secondi dalla fine.

Il 2022, ci dice la cronaca, è l’anno più caldo e arido di sempre. Finora. Ma per visualizzare la situazione occorre un cambio di prospettiva: il 2022 rischia di essere l’anno più fresco e mite dei prossimi 30 anni, poi forse la situazione peggiorerà ulteriormente, ma di quello non è il caso di preoccuparsi, perché è possibile che ci estingueremo prima, a causa del collasso delle risorse planetarie, a partire da acqua e cibo, e delle guerre e dei conflitti che si innescheranno per accaparrarsi tutto il possibile. La conflittualità mondiale è in crescita esponenziale: russi contro ucraini, israeliani contro palestinesi, cinesi contro taiwanesi, bianchi contro neri, uomini contro donne, tutti contro tutti. Segno di un’umanità in declino che si auto divora nell’illusione di poter sopravvivere a scapito dell’altro, homo homini lupus e mors tua vita mea direbbero gi antichi. In alternativa, alcuni mega ricchi hanno pensato di blindarsi in Nuova Zelanda, paese ricco di risorse, probabilmente il più attento e avanzato in termini di tutela ambientale e, cosa non trascurabile, decisamente isolato dal resto del mondo. Un’isola felice dove i drammi globali impatterebbero assai meno che altrove. Ma le strategie di aggressione o fuga rischiano di essere entrambe fallimentari.

Il riscaldamento globale provocherà mutamenti climatici estremi, di cui i fenomeni attuali sono solo una pallida anteprima. L’alimentazione mondiale, basata su una varietà limitatissima di prodotti coltivati industrialmente, è totalmente priva della resilienza garantita dalla biodiversità: se le mutate condizioni climatiche dovessero impedire qualcuna delle monoculture su cui si basa il sistema agroindustriale, rischiamo di non avere un’alternativa in grado di sopperire ai mancati raccolti. L’accordo di Parigi prevedrebbe di contenere il surriscaldamento globale “ben al di sotto di 2°“, ma il modello di business che continuiamo a perseguire rischia di portare a un aumento medio anche di 3° - 3.5° nell’arco di questo secolo, con conseguenze inimmaginabili. Di sicuro, i ghiacciai sono destinati a scomparire nel giro di pochi anni, gradualmente o anche in modo traumatico, come ci ha mostrato la tragedia della Marmolada.

I mari saliranno inesorabilmente, nel 2050 il livello potrebbe essere più alto di 30 o 90 centimetri, a seconda degli studi. Se vi sembrano pochi, provate a chiederlo ai veneziani in un giorno di “acqua alta”. Oppure calcolate la porzione di territorio del Bangladesh destinata a diventare invivibile a causa di alluvioni o della salinizzazione delle falde acquifere, tenendo presente che sono 160 milioni in un territorio metà dell’Italia, quindi ogni Km quadrato perso vuol dire 1.000 profughi climatici. In circa trent’anni, la Grande Barriera Corallina australiana, culla di biodiversità oceanica, ha perso metà della sua superficie e rischia di scomparire del tutto, perché innalzamento e acidificazione delle acque uccidono i coralli. Entro il 2050 in mare ci sarà più plastica che pesce, lo dicono i numeri, ma noi pensiamo di aumentare ancora la produzione di plastica e sfruttiamo i banchi ittici più velocemente d quanto siano in grado di ripopolarsi. E sulla terraferma non va meglio.

La fotografia è quella di un pianeta al collasso, non più in grado di mantenere una umanità in crescita di numero e voracità. Tuttavia, lo scenario attuale è in genere quello del business as usual, avanti come se nulla fosse, continuando a segare il ramo su cui stiamo tutti seduti.
Eppure i rimedi li conosciamo da tempo: stop ai combustibili fossili, fermare il consumo di suolo, mangiare meno carne, elettrificare i trasporti utilizzando le rinnovabili, implementare l’economia circolare… Una pletora di buone intenzioni attuate solo in minima parte, insufficiente a cambiare il corso delle cose.

Noi, gli ambientalisti accusati di pessimismo, disfattismo e di “dire di no a tutto”, continueremo a impegnarci per invertire la rotta, per frenare il disastro, per salvaguardare l’ambiente, ma le forze a disposizione sono poche. Chi invece devasta ha dalla sua fiumi di denaro, potere e influenza su politici e sistema mediatico. Ma a pesare di più sul piatto della bilancia e a farci scivolare inesorabilmente verso il baratro è soprattutto l’inerzia, o forse il menefreghismo, della grande massa della popolazione, troppo incentrata su una quotidianità sempre più faticosa per vedere la catastrofe all’orizzonte.
A fronte di ciò, come detto, noi ambientalisti possiamo solo impegnarci in prima persona per quanto possiamo e informare l’opinione pubblica sulla gravità della situazione: siamo a meno 100 secondi dall’Apocalisse, dice l’orologio, mai così vicini. Tradotto, i dati e le previsioni di quelli che ci hanno già azzeccato in passato ci dicono che siamo a una trentina d’anni da un epocale collasso planetario, graduale o repentino che sia, che rischia di spazzare via le generazioni presenti, non quelle future. 0ra lo sapete. Se decidete di agire, fatelo alla svelta.

Torna indietro