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Le tante minacce che si nascondono dietro la transizione ecologica

Mauro Furlani

La galassia di sigle, associazioni, comitati di cittadini, che affolla il campo dell’associazionismo ambientale è da svariati decenni molto ampio, articolato e diversificato. Si va da settori attigui alla ricerca scientifica in campo zoologico, botanico o altri settori, fino a quelli che sfiorano il mondo animalista, passando attraverso campi più legati all’urbanistica.
Sicuramente l’ambiente, inteso nel suo significato più ampio, si presta ad interpretazioni, a sensibilità, ad applicazioni quanto mai diversificate e ampie, che, se da un lato arricchiscono culturalmente il contesto operativo generale, dall’altro lo rendono anche particolarmente fragile.
Il rischio di un facile scivolamento verso l’idea che l’oggetto del proprio campo di interesse, dove si sono acquisite le maggiori competenze, sia centrale e attorno al quale far ruotare altre problematiche è sempre dietro l’angolo delle nostre attività.
Coloro che ormai molti decenni fa decisero di impegnarsi nella costituzione di una Associazione ambientale, come la Federazione nazionale Pro Natura, caratterizzata da una forte connotazione scientifica e naturalistica, hanno intuito che l’impegno ambientale non poteva essere costretto, limitato all’interno di un confine culturale chiuso, dotandolo altresì di un forte carattere locale.
In questi ultimi anni, tra le diverse realtà ambientaliste nazionali, è stato compiuto un grande sforzo per cercare di trovare dei terreni comuni di condivisione su importanti tematiche, seppure settoriali.
Sono sorti numerosi tavoli tecnici, sviluppati per indirizzare la politica nazionale ed europea verso una visione ambientale più attenta e rispettosa degli ambienti naturali e spingerla alla compatibilità di scelte economiche e di gestione del territorio attente e coerenti con i principi di conservazione.
Lo sforzo compiuto è stato quello di sottrarre l’ambiente, il paesaggio, la biodiversità alla marginalità rispetto alla visione economica, anzi, porla al centro rispetto ad essa. Questa idea, che è riuscita a sfondare il muro di ostilità da parte di settori politici ed economici, ha spesso trovato localmente una difficile applicazione. Si pensi solamente alla difficoltà di applicazione locale della Rete Natura 2000, oppure le richieste regionali di deroga alle specie oggetto di attività venatoria o ancora il quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino e numerose altre.

Proprio per sopperire alla debolezza e inefficacia di azioni locali delle singole Associazioni, e per il carattere nazionale ed europeo delle questioni affrontate, sono nati tavoli tecnici sullo sviluppo di un'agricoltura compatibile con la salvaguardia della natura, sulle strategie di conservazione, sulle aree protette e sulle minacce incombenti derivate dalla riforma della Legge quadro sulle aree protette, oppure recentemente sulle infrastrutture da destinare alle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026, sul verde urbano, ecc. La nostra “Agenda ambientale” è stata elaborata in modo concordato e sottoposta sempre alle diverse forze politiche nazionali.
Alcuni recenti interventi e prese di posizione di una parte del mondo ambientalista - riconosciamolo pure - mediaticamente più influenti, rischiano di minare la costruzione di aree di confronto e di condivisione su alcuni grandi temi, mettendo in evidenza non solo le differenze che si sono, ed è bene che ci siano, ma anche la fragilità di quanto costruito in decenni di protezione ambientale.

Uno dei principi che ha sempre ispirato la politica ambientale della Federazione, proprio per le diverse anime che raccoglie, è la sua apartiticità e l’equidistanza politica nei confronti di tutti i governi che si avvicendano nel nostro Paese, comprese quelle espressioni politiche arricchite di qualificate componenti tecniche.
Anche queste ultime, nonostante talune figure particolarmente rappresentative siano attinte dal mondo accademico e scientifico, talvolta prossime al mondo ambientalista, nel momento in cui sono chiamate ad una responsabilità istituzionale, assumono a pieno titolo una connotazione politica, con cui il mondo ambientalista deve dialogare e si deve confrontare, mantenendo tuttavia una propria identità separata e libera di scelte autonome.
Negli ultimi tempi sembra che qualcosa sia cambiato, in modo molto evidente.
Quella costruzione di piattaforme comuni, frutto di faticose mediazioni, rispetto reciproco, condivisione, lealtà sembra essere venuta meno, sotto la spinta di un coinvolgimento privilegiato in un momento storico che prevede una forte trasformazione economica, oltre che sociale, della nostra società.
Seppure, fortunatamente, alcune collaborazioni tra le Associazioni siano rimaste aperte, è innegabile che aver seguito un percorso istituzionale autonomo, con la partecipazione ai tavoli di consultazione dell’ancora in formazione Governo guidato da Draghi da parte di tre Associazioni (Legambiente, WWF e Greenpeace), all’insaputa di gran parte della altre Associazioni, è sembrato a molti uno sgarbo nelle relazioni tra Associazioni. Non aver peraltro discusso alcune priorità da portare all’attenzione del Presidente incarico è sembrata a molti una fuga autonoma, certamente inaspettata, seppure legittima.
Tutto ciò, legittimamente, ha portato, al termine dell’incontro, alla comunicazione della soppressione di quel Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che, pur con tutti i limiti e contraddizioni manifestati, conservava, nel suo nome, l’ambiente come mission istituzionale principale.

A nostro parere, l’istituzione del Ministero della Transizione Ecologica, che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente, non ha comportato solamente una mutazione terminologica; è ben manifesto che la cosiddetta transizione ecologica prevalga sulla tutela dell’ambiente, anzi sembra proprio che questa sia del tutto marginale.
Se, infatti, si legge il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza si nota facilmente l’irrilevanza con la quale viene trattata la protezione dell’ambiente e della biodiversità, degli habitat naturali ,ecc.
Ancor di più si evidenzia l’allontanamento culturale esaminando i fondi che sono stanziati per la tutela dell’ambiente e della biodiversità: solo 0,8% del totale di 248 miliardi di euro. Praticamente briciole cadute dalla tavola dei grandi investimenti infrastrutturali ed energetici.
Aver accolto e manifestato favorevolmente da parte delle tre Associazioni ambientaliste chiamate alla consultazione questo cambiamento di nome e di finalità, in assenza di una discussione preventiva, o almeno di una comunicazione, ha di fatto creato un fossato di diffidenza non facilmente colmabile, indebolendo ulteriormente la posizione ambientalista in un momento in cui, al contrario, avrebbe dovuto confrontarsi con scelte a nostro parere negative e senza precedenti per l’ambiente.
Il Decreto Semplificazione, infatti, che interviene sulle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), unite alle modifiche del Codice degli Appalti, oltre a ridurre i tempi di realizzazione di un’opera, limita fortemente la partecipazione delle popolazioni alle scelte sul territorio, rischiando di compromettere definitivamente molti ambienti naturali e deturpando paesaggi che sono la vera ricchezza di questo Paese.
Purtroppo, altre prese di posizione pubbliche non hanno certamente favorito le condizioni per rimarginare la ferita prodotta, che sembra resa volutamente più profonda, come per tracciare una distanza e dei distinguo insanabili, giungendo, in alcuni casi, a delle vere e proprie delegittimazioni del pensiero dissonante.
Così come l’attacco effettuato da parte del Presidente di Legambiente, dalle pagine del quotidiano La Repubblica il 19 maggio, nei confronti delle Sovrintendenze ai Beni Culturali e Paesaggistici, evidenzia, a nostro parere, una fuga autonoma su un tema particolarmente delicato. Attacco giunto proprio in un momento in cui queste Istituzioni, nate ormai un secolo fa a presidio della tutela del nostro patrimonio artistico e paesaggistico, sono fortemente sotto attacco da parte di altre Istituzioni per presunte limitazioni e rallentamenti alle azioni imposte dal Decreto Semplificazioni. Delegittimare presidi istituzionali come questi rischiano di aggravare e diffondere quanto purtroppo sta accadendo, ad esempio, nella Tuscia (Lazio), dove tre impianti fotovoltaici (il più grande dei quali sarà anche il più grande d’Europa) andranno a sostituire oltre 250 ettari di aree agricole. Si è ben consapevoli della necessità di uscire dalle fonti energetiche fossili, tuttavia, ciò che non può essere accettabile è la corsa selvaggia in assenza di una rigida pianificazione, in grado individuare le aree idonee e privilegiando l’ utilizzo di spazi degradati come le aree industriali dismesse o le grandi infrastrutture viarie o in manufatti di alcun pregio.

Fortunatamente, se da un lato a livello nazionale sono ben evidenti queste contraddizioni e questi contrasti,  dall’altra, nei territori e a livello periferico, continuano attive forme di collaborazioni con tutte le principali Associazioni su temi locali specifici.
Forse, proprio per cercare di porre un argine a questa marcia forzata in nome della transizione ecologica che può provocare ferite dolorosissime all’ambiente naturale e ai beni paesaggistici del nostro territorio, autorevolmente il Presidente della Repubblica ha ritenuto di porre al centro e all’attenzione della politica quell’art. 9 della nostra Carta, mai così fortemente minacciato come in questo periodo.
Il Presidente scrive, infatti, in un messaggio affidato alle pagine di Vanity Fair per celebrare i 75 anni della Repubblica e il grande patrimonio artistico e culturale dell'Italia, “non c’è transizione ecologica senza rispetto per la nostra ricchezza culturale e paesaggistica” e ancora “ecco perché la ripartenza pone in primo piano l’esaltazione delle nostre risorse e virtualità culturali”.
Se il Ricovery Plan non riserva attenzioni alla tutela della biodiversità e degli ambienti naturali, la Commissione Ambiente del Parlamento Europeo approva la relazione sulla nuova strategia che gli Stati dovranno attuare, modificando radicalmente le proprie politiche ambientali.

L’amara constatazione è il sostanziale fallimento delle strategie fin qui adottate in tema di protezione della Natura e della biodiversità. Ciò, secondo la Commissione, impone che entro il 2030 la politica dell’Unione europea dovrà porre al centro della propria politica ambientale, al pari alla centralità posta per il clima, la biodiversità e le aree protette.
Secondo la Commissione, i paesi membri in questo decennio dovranno mettere in atto un profondo ripristino degli ecosistemi degradati, destinando almeno il 30% del proprio territorio alla protezione della natura e della biodiversità, cercando di contrastare i processi di desertificazione, di degrado del suolo e degli habitat.
Quale dunque tra le due strade sarà quella che l’Italia privilegerà?

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