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Pandemie, zoonosi e antibiotico-resistenze

Riccardo Graziano

 

L’umanità è stata più volte flagellata da epidemie che, ciclicamente, colpivano e decimavano la popolazione. Solo per citare le più note, ricordiamo la peste nera del 1300 e l’influenza spagnola del 1918-1919. Si tratta di eventi in genere associati alla comparsa di un nuovo agente patogeno, spesso contratto dagli animali, in particolare dal bestiame domestico, cioè facenti parte della categoria delle zoonosi.

Anche l’attuale Covid-19 è con ogni probabilità una zoonosi, visto che il focolaio iniziale è stato identificato con il mercato del pesce della città di Wuhan in Cina, all’interno del quale si vendevano anche numerosi animali vivi. Del resto, molte delle malattie infettive emergenti (EID, Emerging Infectious Diseases) sono zoonosi, malattie appunto causate da organismi patogeni presenti negli animali che riescono a effettuare lo spillover, ovvero il salto di specie.

Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto purtroppo vari esempi di queste patologie estremamente pericolose, perché potenzialmente in grado di causare pandemie, ovvero contagi globali con elevata morbilità e mortalità: nel 2002-2003 la SARS, sindrome respiratoria acuta grave causata dal virus SARS-CoV; l’influenza H1N1 nel 2009; la sindrome respiratoria del Medio Oriente identificata per la prima volta in Arabia Saudita nel 2012; Ebola, che ha colpito a più riprese vari Paesi dell’Africa equatoriale con una virulenza elevatissima. Fino ad arrivare all’attuale pandemia, causata dal virus denominato SARS-CoV-2 perché individuato come parente stretto di quello responsabile della SARS (SARS-CoV), entrambi appartenenti alla famiglia dei Coronavirus (CoV).

I CoV provengono probabilmente dai pipistrelli e a volte transitano attraverso una specie ponte (spesso animali domestici) prima di arrivare all’uomo. Questo transito intermedio è stato documentato in alcune delle recenti epidemie, ma nel caso attuale potrebbe esserci stato un passaggio diretto, dopodiché il virus si è propagato rapidamente attraverso il contagio fra umani.

Il fatto è che gli animali selvatici possono essere portatori sani di virus, nel senso che convivono tranquillamente con questi organismi che li abitano, esattamente come noi abbiamo trovato un equilibrio sinergico con i batteri che si trovano nel nostro organismo e ci aiutano nelle funzioni vitali, a partire dalla flora intestinale. Se gli ecosistemi funzionassero in maniera normale, difficilmente gli umani e gli animali domestici arriverebbero a stretto contatto con questa fauna selvatica.

Ma l’espansione antropica sempre più pervasiva, a colpi di deforestazione e colonizzazione di porzioni sempre più ampie del pianeta, riduce drammaticamente gli spazi vitali a disposizione della fauna selvatica e aumenta le probabilità di contagi da parte di questi microrganismi estranei alla nostra specie, contro i quali il nostro sistema immunitario non ha mai avuto occasione di approntare difese specifiche.

La distruzione degli habitat, i cambiamenti climatici, l’espansione degli insediamenti abitativi portano la fauna selvatica sempre più a stretto contatto con gli umani. Un fenomeno esacerbato in Cina, dove la pressione demografica è probabilmente la più elevata al mondo. Se a questo aggiungiamo che nel gigantesco Paese asiatico mondi arcaici convivono con una modernità dirompente, possiamo capire perché moltissime infezioni nascono e si sviluppano qui.

L’attuale Covid-19 è un esempio paradigmatico: i commercianti di animali vivi hanno introdotto i pipistrelli, con relativo virus, nel mercato cittadino di una megalopoli come Wuhan, con milioni di abitanti. Una sorta di prateria sconfinata per i virus, con una platea vastissima di potenziali “ospiti” assolutamente indifesi rispetto alla loro penetrazione.

Se a questo aggiungiamo che alcuni studi ci dicono che l’inquinamento atmosferico – una costante del territorio cinese – è un fattore che può agevolare la diffusione del virus, ecco che abbiamo il quadro completo. Come se ciò non bastasse, sappiamo che la Cina è da tempo al centro del sistema produttivo mondiale, il che comporta una elevatissima mobilità di merci, ma anche di persone, che a loro volta in modo del tutto inconsapevole veicolano il virus in luoghi anche lontanissimi, in tempi straordinariamente brevi. All’epoca di Marco Polo, un viaggiatore infetto avrebbe impiegato mesi per giungere in Occidente e magari sarebbe morto lungo il percorso, stroncato dalla malattia. Oggi può arrivare in poche ore, portando in sé una bomba batteriologica pronta a esplodere. Infatti così è successo.

Questo dovrebbe già farci capire che l’attuale modello di sviluppo è potenzialmente patogenico, nel senso che rischia di esporci con sempre maggior frequenza a eventi pandemici. Per questo dovremmo ridurre la nostra pressione sugli ecosistemi, preservando habitat naturali che possano garantire la separazione fra noi e la fauna selvatica con il suo peculiare carico microbico. Ma stiamo facendo esattamente il contrario, continuando ad abbattere le foreste per ottenere nuovo suolo coltivabile, spesso destinato a produrre mangimi per i nostri animali da allevamento, in costante aumento.

E proprio dagli allevamenti intensivi , vere e proprie fabbriche di carne, arriva un’altra insidia per la nostra salute. Non ci riferiamo al colesterolo in eccesso, che pure è un problema, ma al fenomeno crescente delle antibiotico-resistenze.

È noto che i batteri mutano con una velocità enormemente superiore a quella degli altri esseri viventi, noi compresi. Questo consente loro, nell’arco di poche generazioni, di diventare immuni o comunque molto resistenti rispetto agli antibiotici che usiamo per debellarli in caso di malattia. Per questo si dice sempre che gli antibiotici vanno assunti solo in caso di reale necessità e dietro prescrizione medica. Purtroppo però, quasi il 70% degli antibiotici venduti sono destinati agli allevamenti intensivi, dove vengono utilizzati in maniera massiccia per contrastare le numerose infezioni causate dal sovraffollamento, dalle precarie condizioni igieniche, dalla condizione di costrizione in cui si trovano gli animali.

Già oggi si calcola che nella sola Italia ogni anno muoiano circa 10.000 persone a causa di batteri resistenti alle terapie antibiotiche, 700 mila nel mondo. Un’emergenza sanitaria ancora più rilevante dell’attuale epidemia, della quale però poco si parla, mentre invece dovrebbe indurci a riconsiderare con urgenza il nostro sistema produttivo e le nostre scelte alimentari. Ma anche in questo caso, non sembra di vedere che ci sia una particolare determinazione ad agire in questo senso.

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