Membro di
Socia della

Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise - Una storia lunga cent'anni

Alberto D’Orazio
(già Presidente della Comunità del PNALM)

All’inizio fu una motocicletta che, nella luce rosa dei tramonti d’estate, rientrava nell’androne di un palazzo gentilizio del paese.
Era la motocicletta del guardaparco, che costringeva quel gruppo di ragazzini a interrompere i loro giochi sulla “via nova”: palestra, campo di pallone, piazza e luogo di transito delle poche macchine e della corriera che, ultima, segnava la fine della giornata e di poco precedeva il richiamo deciso delle mamme per la cena.
Era, quella moto, il simbolo di un’entità “importante” ma al tempo stesso distante, che stava sopra di noi. Qualcosa che stava dietro anche a quei cartelli di “divieto di caccia e pesca” che tanto facevano arrabbiare i più grandi perché impedivano loro di andare al fiume ad acchiappare le trote o in campagna a sparare alle lepri e alle quaglie. Pochi, per la verità, quelli che sparavano ma molto rumorosi.

A scuola ci raccontavano dei romani e dei loro cattivissimi nemici cartaginesi, del mulino che odora di farina, delle poesie di Edvige Pesce Gorini, di Renzo Pezzani e delle loro rime leggere da mandare a memoria, dei numeri per “far di conto”... ma nessuno ci parlava mai del Parco, di quell’entità astratta, lontana dalla nostra quotidianità che solo più tardi, molto più tardi, avremmo capito invece che veniva da lontano e molto lontano sarebbe andata perché non era altro che “noi”, il nostro fiume, quel morbido bestione bruno che andava nei frutteti a mangiar mele, entrava nei campi di granturco a far razzia di mazzocchi o di notte devastava gli stazzi per arraffare pecore, beffando i cani bianchi e creando guai ai malcapitati pastori, timorosi per dover giustificare la perdita al padrone del gregge, dormiente nella casa avita.

Sì, più tardi avremmo imparato che quella motocicletta, il guardaparco che la cavalcava e quei cartelli così poco amati, erano lì a difendere, a proteggere l’unica ricchezza comune che ci era stato dato di possedere: lo straordinario patrimonio naturale nel quale eravamo immersi.

Per quei boschi, per quegli splendidi e purtroppo assai rari esemplari di orso bruno marsicano, per quei campioni di eleganza che più in alto saltavano sulle rocce della Camosciara, per quelle coloratissime trote che guizzavano nel nostro fiume, per quelle maestose aquile che volteggiavano sulle cime dei nostri monti: per vedere tutte queste meraviglie, cominciarono ad arrivare i primi villeggianti insieme ai primi voraci appetiti.
La valle, così bella e così vicina alle due grandi città in espansione, Roma e Napoli, entrò presto nel mirino di una famelica e spregiudicata schiera di speculatori, in grado di attivare notevoli risorse finanziarie private e pubbliche, grazie al sostegno di un ceto politico, locale e nazionale, assetato di potere e di ricchezza.

Erano i primi anni sessanta, quelli dell’ottimismo e dell’acquisizione facile di aree pubbliche, favorita da sdemanializzazioni finalizzate alla realizzazione di insediamenti residenziali, alla costruzione di grandi alberghi e di impianti di risalita per lo sfruttamento della “risorsa neve” (come diremmo adesso).
Al consenso facile e in qualche modo giustificato delle popolazioni locali, illuse da una finalmente comoda possibilità di occupazione, si aggiunse la precaria situazione gestionale dell’Ente Parco, che favorì l’improvvisa intrusione di questi “corpi estranei” in un mondo fino ad allora immobile, ma sano e rispettoso dell’ambiente.
La ricostituzione dell’Ente avvenuta nel 1951 (dopo lo scioglimento degli anni trenta in ossequio al centralismo imperante all’epoca), portò al formale recupero dell’autonomia gestionale del Parco, autonomia fortemente osteggiata dalla Forestale che, maldigerendo la sottrazione dell’osso spolpato nel ventennio trascorso (con la soppressione dell’Ente Autonomo, la gestione era stata affidata alla Milizia Forestale), ambiva a riportare il Parco sotto il suo pieno controllo, con un occhio attento ai benefici che sarebbero derivati dalla realizzazione degli impianti di risalita e delle infrastrutture turistiche all’interno dell’area protetta.

Il conflitto che, nella sostanza, riguardava il modo di utilizzare il territorio, raggiunse l’apice alla fine della prima metà di quel decennio con il licenziamento del Direttore che stava provando a difendere il Parco dal diffondersi dell’illegalità.
Il suo forzato allontanamento fu la certificazione della crisi gestionale dell’Ente e della sua discesa verso il baratro dell’irrilevanza.
Nel conclamato quadro di debolezza strutturale che ne seguì, non fu infatti difficile, per una complessa rete di faccendieri romani e non, continuare a mettere le mani sul territorio, con intenti speculativi devastanti per l’Area Protetta.

Di tutti questi retroscena di potere, poco sapevano le popolazioni locali e forse poco volevano saperne. La speculazione edilizia portava lavoro, riduceva l’emigrazione, creava un relativo benessere che, per quanto effimero, mai avevano visto prima.
Il Parco continuava ad essere solo un insieme di cartelli di “divieto di caccia e pesca”, quasi sempre oggetto di violazioni che, solo in casi residuali, i guardaparco riuscivano a sanzionare.
I tronchi da utilizzo industriale dei boschi partivano con il favore delle tenebre, così come le trote pescate di frodo, raggiungevano altre e redditizie destinazioni, per vie traverse.
Era questa la situazione del Parco a quarant’anni dalla sua istituzione quando, quei ragazzi che giocavano per la strada interrompevano la partita al passaggio della moto del guardaparco e magari, la sera, durante la cena, cominciavano a sentir parlare di “un nuovo paese” che doveva sorgere nei pressi della Camosciara: Acranive.
Avevano già asfaltato la strada che collegava la Statale 83 al piazzale della Camosciara, luogo che, per quei ragazzi, aveva il sapore della sacralità, con i suoi boschi, il suo fiume e le sue deliziose cascate. Tutt’intorno, nel vecchio feudo, sarebbero sorte graziose villette (come nella piana di Pescasseroli) per il diletto dei ricchi cittadini e i consistenti ricavi per i costruttori.

Quello che stava accadendo nel Parco d’Abruzzo non poteva però lasciare indifferenti coloro che ne conoscevano la storia quarantennale, il valore simbolico e le radici antiche del rapporto tra le comunità locali e il parco.
La costituzione della prima area protetta italiana aveva infatti avuto come presupposto il rapporto con la popolazione locale e le sue istituzioni rappresentative. Fu infatti con la concessione in affitto di una piccola parte della Val Fondillo all’Associazione Pro Montibus et Silvis, da parte del Comune di Opi, che prese forma l’embrione e di quello che sarebbe diventato uno dei primi parchi nazionali italiani.

L’idea stessa di Parco era nata tra alcune personalità locali che avevano maturato una visione delle bellezze naturali, della biodiversità e della particolarità architettonica di quei piccoli villaggi montani, come un insieme da conservare e anche da “valorizzare” in una prospettiva di sviluppo dell’economia del territorio.
Fu il connubio tra due elementi fondamentali - l’idea progettuale maturata in ambienti di elevato spessore culturale e gli atti deliberativi delle amministrazioni locali (altri sei Comuni seguirono l’esempio di Opi) - a consentire di dare concretezza a quella nobile idea.
Un Parco quindi nato dal basso?
La risposta, seppur con qualche cautela, può essere affermativa. Anche se i protagonisti della fondazione del Parco rappresentavano allora una élite, espressione della società dell’epoca, caratterizzata da profonde diseguaglianze sociali, culturali e di censo.
Il coinvolgimento della popolazione locale non dovette essere facile né più di tanto cercato da parte delle amministrazioni comunali. Non era certo maturo il tempo per una democrazia partecipata quello dei primi anni venti del Novecento, come gli eventi politici, di lì a poco, avrebbero confermato. Rimane tuttavia l’importanza di un’iniziativa lungimirante che avrebbe segnato il futuro del territorio.

La consapevolezza del valore di quella storia e l’attualità di quella scelta indusse alcuni tra i più grandi esponenti del mondo dell’informazione, in particolare Antonio Cederna, a denunciare lo scempio che si stava perpetrando nell’interesse di pochi e a danno di un patrimonio naturale straordinario.
La rinnovata attenzione dell’opinione pubblica nazionale, la contemporanea affermazione di grandi movimenti politico sociali, la nascita del movimento ambientalista, indussero i decisori statali a porre fine alla precaria situazione gestionale dell’Ente, la cui debolezza aveva facilitato il dilagare della speculazione edilizia.

La nomina del nuovo direttore, avvenuta nel 1969, a distanza di quattro anni dal brutale allontanamento del precedente, rappresentò il punto di svolta per l’esistenza dell’area protetta.
Con l’arrivo di Franco Tassi, prese forma un nuovo stile gestionale con l’obiettivo di dare concretezza al “Piano di riassetto del Parco Nazionale d’Abruzzo”, elaborato in quegli anni dall’Associazione Italia Nostra, al quale lo stesso nuovo Direttore aveva attivamente collaborato.
Il Piano era basato su tre direttrici fondamentali: 1) fare in modo che l’infrastrutturazione viaria, sempre più ampia, lambisse soltanto il territorio del Parco senza attraversarlo; 2) congelare le due forme di turismo più impattanti dal punto di vista ambientale: il turismo residenziale e il turismo dello sci da discesa; 3) realizzare una nuova offerta turistica “valorizzando” il patrimonio ambientale e antropico esistente invece di sfigurarlo (Cento anni di Parchi di Luigi Piccioni, docente presso Unical e storico delle aree protette).

Non fu semplice sostenere la necessità di porre un freno all’uso speculativo del territorio proponendo in alternativa una crescita equilibrata del patrimonio alberghiero e residenziale dell’area, senza pregiudicarne lo straordinario valore naturale e paesaggistico.
Di questa necessità si fece carico anche una nuova leva di amministratori locali, quei ragazzini che avevano smesso di giocare a pallone per la strada ed erano diventati grandi, i quali, dopo aver conquistato la direzione dei comuni, vennero chiamati a cimentarsi con i problemi dei cittadini: il lavoro, i servizi, la coesione sociale, lo spopolamento, la domanda di futuro delle nuove generazioni.
Furono fondate cooperative, avviate attività economiche basate sul concetto “Natura è Sviluppo”, all’interno di un Parco visto finalmente come strumento di crescita per le comunità locali e non soltanto come un insieme di limitazioni e di divieti. Iniziative che imponevano l’affermazione di rapporti costruttivi con l’Ente di gestione, che stava vivendo una grande stagione di rilancio degli obiettivi istituzionali e di rinnovamento organizzativo. Una stagione che vide il coinvolgimento e la formazione all’interno dell’Ente, e non solo, di giovani protagonisti locali destinati, più tardi, ad assumere ruoli chiave nel mondo dei parchi italiani in via di espansione.

L’attuazione di nuove e più efficaci modalità di gestione e l’affermazione di un forte protagonismo a livello nazionale e internazionale, permisero al Parco d’Abruzzo di assumere un ruolo guida nel panorama ambientalista italiano divenendo un modello di riferimento per i nuovi parchi che avrebbero preso forma dopo l’emanazione della Legge Quadro sulle Aree Protette che avrebbe visto finalmente la luce nel 1991, a quasi trent’anni dalla formulazione della prima proposta legislativa.

La conquista della centralità strategica nell’ambientalismo italiano, unita ai successi nel perseguimento delle finalità istituzionali e nella difesa dell’area protetta dagli attacchi della speculazione edilizia , determinò di fatto l’assunzione di un ruolo sempre più pervasivo, da parte dell’Ente, che non sempre fu visto con favore dal territorio.
Il confronto non era di per sé facile, ma venne complicato da atteggiamenti di chiusura, talvolta autoreferenziali, che contribuirono a dare nuova linfa a incomprensioni e ritardi da parte delle comunità locali nell’acquisire definitivamente la consapevolezza che le potenzialità di crescita dell’economia dell’area erano legate soprattutto alla presenza del Parco. Né vanno sottaciute le responsabilità di alcuni amministratori locali nel cercare o subire rapporti clientelari che, negli anni, avrebbero arrecato danni gravissimi alla funzionalità dell’Ente di gestione.

Con il trascorrere degli anni, grazie anche alla già richiamata evoluzione della normativa che ha garantito la rappresentanza delle Comunità Locali nella struttura organizzativa dell’Ente, molte di quelle incomprensioni sono state superate. Il Parco ha potuto, negli anni novanta, ampliare notevolmente il suo perimetro, che ricomprende ora una parte significativa del territorio molisano, di grande valore naturalistico e culturale; conferma la propria estensione nella profondità delle valli che collegano il Lazio all’Abruzzo; lambisce la spettacolare valle del Sagittario; si allunga fin quasi al Fucino attraverso la splendida Valle del Giovenco. Un Parco Nazionale e, al tempo stesso, inter-regionale che ha voluto sintetizzare anche nella nuova denominazione, Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, la propria varietà territoriale, culturale ed economica, unificata tuttavia da un patrimonio naturale di straordinario valore.
Una realtà importante anche dal punto di vista occupazionale, con un numero significativo di dipendenti che, tra diverse eccellenze e qualche criticità, rappresentano una risorsa da valorizzare e non soltanto una voce di costo nel bilancio dell’Ente.

Non va peraltro dimenticato il coinvolgimento di decine di giovani e meno giovani che, attraverso associazioni e piccole imprese, svolgono attività economiche come operatori nei centri di informazione, come apprezzate guide di montagna o come collaboratori nelle attività di educazione ambientale. Né va dimenticata la pluridecennale esperienza del volontariato, che ha impegnato giovani provenienti sia dall’Italia che dall’estero a sostegno delle attività del Parco. Una grande iniziativa che fece i primi passi già nel 1969-70 all’interno di quel grande slancio innovativo, di cui abbiamo fatto cenno, che rappresentò, di fatto, la seconda e decisiva fondazione del Parco, fortemente voluta e poi condotta con fermezza dal nuovo direttore che avrebbe guidato l’Ente per oltre un trentennio.
Un’esperienza che, nonostante le difficoltà della fine degli anni novanta, causate da problemi di ordine finanziario ed amministrativo, continua con successo pur nelle mutate condizioni generali.

Il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise si avvia a celebrare il suo centenario in un quadro nazionale che ha visto il moltiplicarsi delle aree protette, ma al tempo stesso l’accentuarsi di una attenzione verso l’ambiente sempre meno valoriale e sempre più economicistica. Anche se sarebbe ingeneroso non dare importanza all’accresciuta consapevolezza, da parte delle popolazioni locali, del valore del patrimonio naturalistico dell’area e della stessa funzione generale che esse svolgono nell’interesse nazionale.
Il livello delle aspettative del territorio nei confronti del Parco è elevato e rimane spesso difficoltoso trovare il giusto equilibrio tra le finalità istituzionali del Parco e le richieste di incrementare la crescita economica del territorio che, pur nella diversa situazione dei tre versanti (quello abruzzese, quello laziale e quello molisano), rimane sostanzialmente legata al settore turistico, con tutto ciò che ne consegue.

Persistono inevitabilmente problematiche importanti che possono determinare tensioni che non vanno trascurate: dalle competenze in materia di pianificazione territoriale ai burocratismi e alle inefficienze della normativa che ostacolano di fatto la funzione del Parco e non aiutano l’Ente a condividere le scelte con i territori; dalle scelte in materia di energie rinnovabili alle questioni legate all’allevamento e agli allevatori che, all’interno di regolamenti condivisi, debbono poter continuare a svolgere quel prezioso ruolo di presidio del territorio che da sempre li caratterizza; dalle modalità di utilizzo della “risorsa neve” alle problematiche relative alla gestione degli orsi confidenti che incrociano la funzione di tutela della pur modesta economia agricola e zootecnica che va sostenuta e adeguatamente indennizzata (in tempi rapidi) per i danni arrecati dall’orso e dalla fauna selvatica in generale.
Si tratta di questioni complesse che possono essere affrontate solo con la disponibilità al confronto e al riconoscimento dei diversi legittimi interessi. Scorciatoie dirigistiche e derive protestatarie (sempre in agguato) rapprenderebbero una inaccettabile regressione nei rapporti tra Parco e Comunità Locali.

Questi rapporti sono facilitati oggi da una maggiore apertura dell’Ente nei confronti delle istanze dei Comuni, che non deve però limitarsi ad astratte disponibilità all’ascolto, ma concretizzarsi nella ricerca di soluzioni condivise, a livello istituzionale, a livello territoriale (cioè con la popolazione, testimone dei valori di una tradizione antica che ha visto nella natura un “bene comune”), ma anche con l’opinione pubblica nazionale più sensibile alle tematiche della tutela del patrimonio naturale, sentita come interesse generale che non ha confini territoriali ma riguarda il bene della collettività e del pianeta.
Ed è proprio in questa prospettiva che viene ravvisata la necessità di un salto di qualità nella funzione dei parchi.
“Dalla istituzione dei primi due parchi nazionali (Parco Nazionale del Gran Paradiso, dicembre 1922, e Parco Nazionale d’Abruzzo, gennaio 1923), i parchi sono stati istituiti e gestiti secondo un canone fondamentalmente difensivo: si trattava quasi esclusivamente di difendere risorse, paesaggi, aree nei confronti delle aggressioni; tutto il resto era strumentale alle azioni di difesa. Con la introduzione della legge quadro, alle finalità tradizionali se ne sono aggiunte altre: applicare metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, storici, architettonici, delle attività agro-silvo pastorali e tradizionali; promuovere la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive compatibili”.

Tutte queste finalità modificano profondamente il ruolo dei parchi, i quali, da cittadelle assediate, dovrebbero diventare luoghi che si proiettano all’esterno, laboratori in cui si sperimentano attività produttive compatibili da realizzare anche nel resto del territorio, cioè luoghi in cui si sperimentano modelli di gestione territoriale in armonia con la natura che, in quanto tali, dovrebbero essere validi anche oltre i confini.

A cento anni dalla istituzione dei primi parchi nazionali italiani dobbiamo però constatare che essi, anche se hanno raggiunto importanti risultati al proprio interno non sono riusciti ad attaccare il territorio circostante, non sono riusciti a contaminarlo (Appunti per una riflessione critica sui parchi nazionali di Carlo Alberto Graziani, giurista, già Presidente del Parco Nazionale dei Monti Sibillini).

Le attese, sotto questo aspetto, erano forse eccessive e non tenevano conto dei limiti del “sistema di governo” cui i parchi sono sottoposti. Tale sistema, grazie al ruolo della Comunità del Parco (organo dell’Ente di gestione introdotto dalla legge quadro de 1991), non è antidemocratico, ma come la realtà sta dimostrando, appare sempre più insufficiente, sia perché nel nostro ordinamento la rappresentanza è quella ottenuta per via elettorale sia perché la reale possibilità di incidere sulle scelte gestionali, da parte della Comunità del Parco, è condizionata dai limiti delle sue prerogative e dalla precarietà della sua rappresentanza all’interno del Consiglio Direttivo. La rappresentanza è infatti condizionata dai rinnovi delle Amministrazioni Comunali (troppo spesso non allineati con la durata in carica dell’organo) e dalle lungaggini burocratiche nelle procedure di nomina dei consiglieri designati e ciò incide sull’efficacia del funzionamento dell’organo e non favorisce un impegno costante e di qualità da parte degli Amministratori Locali chiamati a far parte del Consiglio Direttivo.

Se a tutto ciò si aggiungono le modalità di nomina degli altri componenti del Consiglio, caratterizzate da eccessi burocratici, centralismi paralizzanti e mai sopiti vizi di ingerenze partitiche che spesso privilegiano più la fedeltà ai decisori che la competenza, si comprende la difficoltà di proporre i parchi come modelli di uno sviluppo alternativo da applicare anche al di fuori dei loro confini.

Alcuni segnali che provengono dall’attuale esperienza dei parchi evidenziano oltretutto una preoccupante tendenza ad uniformarsi al modello di sviluppo dominante, che rischia di configgere con le loro finalità istituzionali e quindi con la loro stessa ragione di esistere.
L’attuale ossessione economicistica finisce per appannare la ragione stessa della esistenza dei parchi che è quella di “guardare alla persona in tutte le sue dimensioni (non solo alla dimensione economica) e alla natura di cui la persona è parte”.
La domanda è: al di là delle celebrazioni di un anniversario importante, i due parchi centenari saranno in grado di avviare al riguardo una riflessione che appare sempre più necessaria?

Torna indietro