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I Pesci delle acque interne (Ciclostomi e Osteitti), i Vertebrati più minacciati di estinzione in Italia

Vincenzo Caputo Barucchi & Andrea Splendiani
Università Politecnica delle Marche, Ancona

Negli ultimi anni la sensibilità nei riguardi della natura è fortemente aumentata nel nostro Paese. In particolare, siamo ormai consapevoli che l’impatto indiscriminato dell’antropizzazione sul territorio determina dei cambiamenti spesso irreversibili a danno degli habitat naturali, sottraendo “spazio vitale” a molte specie di piante e animali per i quali la possibilità di una sopravvivenza a lungo termine è sempre più a rischio. Malgrado questa consapevolezza, l’opinione pubblica è generalmente molto attenta nei confronti di quegli animali più conosciuti e in un certo senso “empatici”, come gli Uccelli e i Mammiferi che rappresentano chiari esempi di specie carismatiche in grado di suscitare sentimenti di protezione e accudimento. A questo proposito, alcuni anni fa hanno fatto scalpore le pubbliche proteste, con sit-in in piazza, quando l’orsa Daniza, dopo l’aggressione verso un cercatore di funghi in Trentino, morì a causa di una dose eccessiva di sedativo somministratole durante la cattura. Ancora più emblematico è il caso recente dell’orsa JJ 4 responsabile dell’uccisione di un giovane podista, per la quale c’è stata una vera e propria “sollevazione popolare” (compresi i genitori della vittima) contro il suo abbattimento. Grande entusiasmo suscitano anche i salvamenti delle tartarughe marine, con grande festa di popolo quando esse – dopo un periodo di cure in qualche centro di recupero - vengono rilasciate in mare. Al contrario, scarso o nessun interesse provocano animali come Pesci, Anfibi e Rettili sui quali pesa tuttora una sorta di “discriminazione” dettata da pregiudizi che si sono sedimentati nell’immaginario collettivo fin dalla preistoria. In effetti, lucertole, serpenti e salamandre, sono percepiti come animali sgradevoli se non pericolosi, e ancora oggi un’innocua biscia o un orbettino rischiano di soccombere per le bastonate di un escursionista spaventato. I Pesci d’acqua dolce, poi - con particolare accanimento verso le trote - non sono percepiti come animali degni di tutela nemmeno nelle aree protette, dove in molti casi è tuttora possibile pescarli. Ve l’immaginate il putiferio che si solleverebbe se si proponesse di sparare a tordi e beccacce all’interno di un Parco Nazionale?

Eppure, sono proprio queste le specie più esposte alla minaccia di estinzione a causa della loro elevata specializzazione fisiologica ed ecologica e per la fragilità degli ambienti in cui vivono (1). Infatti, i Pesci sono adattati a una vita permanente nel mezzo acquatico, dal quale dipendono per la respirazione, la riproduzione e l’alimentazione: toglietelo dall’acqua, e il povero pesce morirà soffocato fra atroci sofferenze che purtroppo passeranno inossevate per la sua silenziosità (come spesso accade durante le gare di pesca, veri e propri “massacri legalizzati” che nessun animalista ha mai degnato di attenzione): un pesce infatti è l’animale muto per antonomasia! Inoltre, non va dimenticato che il territorio italiano per la sua complessa storia geologica e paleoclimatica, ospita un numero elevato di specie e/o popolazioni endemiche, con caratteristiche morfologiche e genetiche che si sono evolute esclusivamente nel nostro Paese: ciò rende questi animali di particolare preziosità sientifica, essendo diffusi unicamente in Italia (2) e, allo stesso tempo estremamente esposti al rischio di estinzione proprio per la limitatezza del loro areale di distribuzione: una volta scomparsi in Italia, la loro estinzione sarà globale e definitiva proprio perché non si trovano in nessun altro luogo al mondo!

Da un punto di vista evoluzionistico, l’Italia è così ricca di specie endemiche di Pesci d’acqua dolce perché ne ha favorito la sopravvivenza in condizioni di isolamento durante l’alternanza tra periodi glaciali e interglaciali che si sono susseguiti negli ultimi due milioni di anni. In particolare, il nostro territorio ha funzionato come un’area di rifugio nei periodi di freddo più intenso, quando l’Europa era sepolta sotto estese calotte di ghiaccio, mentre l’Italia ne era sostanzialmente priva nelle zone centro-meridionali e nelle isole maggiori che potevano perciò ospitare quelle specie che vi arrivavano da nord all’inseguimento di un ambiente favorevole; invece, nei periodi interglaciali caldi – come quello in cui viviamo attualmente - le specie legate a climi temperato-freddi sopravvissero rifugiandosi in quota o, nel caso delle trote, si spostarono via mare dal Nord Africa verso nord per colonizzare i corsi d’acqua della Calabria e della Sicilia, più freschi rispetto alle fiumare del Maghreb. In effetti, non tutti sanno che le trote appartengono alla stessa famiglia dei salmoni e, quando le condizioni climatiche lo permettono, possono assumere uno stile di vita anadromo, caratterizzato cioè da un ciclo vitale ripartito fra acque interne, per la riproduzione, e mare dove questi pesci migrano per nutrirsi. Nelle condizioni climatiche attuali questa possibilità, molto favorevole perché consente alle trote di alimentarsi in un ambiente più produttivo rispetto a quello delle acque interne, è possibile solo nell’Europa settentrionale, dove le trote hanno uno stile di vita simile a quello dei salmoni. Nell’area mediterranea, invece, ciò era possibile durante i periodi glaciali, quando le condizioni di salinità e temperatura del mare permettevano alle trote di spostarsi tra mare e fiumi. Questa capacità, oggi perduta per le trote che vivono nei corsi d’acqua italiani, era tipica delle popolazioni che vivevano in Calabria fra 13.000 e 11.000 anni fa, nell’ultima fase delle glaciazioni pleistoceniche. Queste trote, che alimentandosi e accrescendosi in mare, potevano raggiungere dimensioni molto grandi rispetto a quelle attuali (si stimano pesi anche fino a 15/20 chili), venivano attivamente pescate dagli uomini del Paleolitico, come testimonia una grande quantità di resti all’interno di un celebre complesso rupestre (La Grotta della Madonna) che si apre a ridosso del mare nei pressi dell’attuale abitato di Praia a Mare, in provincia di Cosenza. Qui la presenza umana è stata pressoché ininterrotta fin da allora, prima come ricovero preistorico, poi come cimitero romano e oggi come sito di un’antica chiesetta. I tantissimi frammenti ossei campionati dagli archeologi che da molti anni studiano questo importante sito calabrese, sono stati utilizzati come fonte di DNA, ancora leggibile malgrado i milleni trascorsi (3, 4). Questo studio ha permesso di ricostruire le caratteristiche genetiche delle trote di quell’epoca lontana, dimostrando la presenza di esemplari di provenienza magrebina che confermano, come detto prima, l’influenza dei cambiamenti climatici sulle migrazioni degli animali alla ricerca di ambienti favorevoli, come scherzosamente raccontato nei cartoni animati dell’”Era Glaciale”. Infatti, dopo l’ultimo “colpo di coda” delle glaciazioni (il periodo definito “Younger Dryas”, fra 13.000 e 11.000 anni fa circa) il clima dell’emisfero boreale cominciò a scaldarsi in modo rapidissimo: dall’analisi di campioni di ghiaccio artico e antartico, si è potuto stimare che le temperature si impennarono di circa 10/15 gradi in meno di un secolo (5)! Di queste trote di origine africana restano tutt’oggi poche popolazioni confinate in alcuni torrenti della Sicilia orientale, dove furono scoperte ai primi dell’Ottocento e battezzate come una nuova specie, Salmo cettii; mentre in Calabria si sono probabilmente estinte per la competizione con le trote già presenti in loco.

Il grosso problema per le trote native dei corsi d’acqua italiani (la trota fario mediterranea) è che da molti decenni un’errata politica gestionale rischia di portarle all’estinzione a causa dell’ibridazione con le trote di provenienza domestica che vengono immesse dei corsi d’acqua italiani a vantaggio della pesca sportiva (6). Queste trote sono state allevate a partire da esemplari selvatici dell’Europa centro-settentrionale, appartenenti a una specie diversa (la trota fario atlantica), ma in grado di ibridarsi con la specie nativa della quale ha ormai rimpiazzato i genomi originari in vasti territori dell’areale di distribuzione italiano. Se queste pratiche si potevano giustificare in passato, quando le conoscenze sulla biodiversità erano scarse, oggi non sono più ammissibili. È ormai chiaro, infatti, che fauna e flora sono il frutto di millenni di evoluzione e di adattamento alle condizioni ambientali locali: immettere specie e popolazioni alloctone significa alterare un equilibrio che si è formato nel corso di una lunga storia evolutiva. Per esempio, l’incrocio fra stock geneticamente diversi di trote native e alloctone produce ibridi con una bassa fitness e perciò con un elevato rischio di estinzione; in altri casi gli stock alloctoni possono sostituirsi completamente alle popolazioni native. Inoltre, pesci alloctoni, immessi a tonnellate nei nostri fiumi per soddisfare le richieste della pesca sportiva, creano un enorme squilibrio ecologico, essendo voraci predatori di altri Pesci e Anfibi già pesantemente minacciati da siccità e alluvioni. È davvero sorprendente che in un’epoca caratterizzata da una sempre maggior consapevoleza del danno ambientale arrecato dalle specie aliene, sia ormai all’opera da circa un anno una commissione ministeriale che, di concerto con le regioni, sta cercando una via di uscita per continuare a immettere nei nostri fiumi le trote alloctone di interesse piscatorio. Da voci di corridoio, sembra che l’escamotage sia dichiarare questi pesci “autoctoni” per legge, in modo da aggirare i sacrosanti divieti che ne bandiscono l’uso perché dannosi all’ambiente.

Se per la trota nativa l’ibridazione con quella aliena è una delle cause meglio conosciute e documentate della sua progressiva rarefazione, non bisogna però dimenticare che vi sono altre cause che incidono negativamente sulla sopravvivenza a lungo termine dei Pesci d’acqua dolce nel loro insieme. Un elemento molto critico è costituito da dighe, briglie e sbarramenti trasversali che sono stati costruiti sempre più numerosi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, per scopi irrigui o idroelettrici. Essi rappresentano un ostacolo fisico per quelle specie che continuano a migrare fra mare e acque interne anche nel contesto climatico attuale e che rappresentano una componente molto significativa della biodiversità dei Pesci delle acque dolci. Due di queste - per essere precisi - non sono nemmeno “tecnicamente” pesci, perché appartengono ai Ciclostomi, un gruppo di Vertebrati molto arcaici, privi come sono di mascelle e di pinne pari. Si tratta di due specie di lamprede, a buon diritto considerate dei “fossili viventi”. Infatti, le prime forme conosciute allo stato fossile, vissute oltre 300 milioni di anni fa, non sono molto diverse dalle specie attuali e come quest’ultime sono caratterizzate da una bocca circolare a forma di ventosa con la quale gli esemplari adulti aderiscono al corpo delle malcapitate prede (per lo più Pesci ossei), succhiandone il sangue. Anche questi animali migrano in mare per alimentarsi e tornano nei fiumi per la riproduzione, essendo però ostacolati dalla presenza di sbarramenti che ne impediscono la risalita verso le zone sorgive dove le uova vengono deposte. Attualmente, sembra che la più grande delle due lamprede italiane – la lampreda di mare – riesca a riprodursi solo in un fiume del versante tirrenico, mentre della lampreda di fiume si sono perse le tracce e probabilmente si è ormai estinta nei nostri fiumi (7). La situazione è migliore per le due specie che hanno interrotto i contatti col mare (la lampreda di ruscello e la lampreda padana), essendo sedentarie nelle acque dolci dove però non sono in grado di nutrirsi dopo la metamorfosi e sopravvivono come adulti solo per un breve periodo: giusto il tempo di riprodursi e morire subito dopo. La lampreda padana è particolarmente interessante da un punto di vista biogeografico in quanto rappresenta una specie endemica del territorio italiano, dove è presente in tutto il bacino del Po e nel fiume Potenza (nelle Marche) con una piccola popolazione isolata; inoltre, un’altra popolazione relitta si trova sull’altro versante dell’Adriatico, nel fiume Neretva in Coazia. Questa distribuzione separata delle due poolazioni più meridionali è particolarmente interessane in quanto è anch’essa la prova dei grandi cambiamenti climatici alla fine delle glaciazioni (8). Nell’ultima fase glaciale, infatti, la Pianura padana si estendeva verso sud verso sud fino all’altezza dell’attuale Abruzzo in quanto il livello del mare era di di circa 120 metri inferiore rispetto a quello attuale: di conseguenza, il fiume Po sfociava più o meno all’altezza di Pescara, ricevendo come tributari i fiumi delle Marche e alcuni corsi d’acqua balcanici come la Neretva. Un’altra specie relitta delle glaciazioni è la sanguinerola, un piccolo Pesce osseo della famiglia dei Ciprinidi anch’essa con una distribuzione padana e un nucleo relitto recentemente scoperto nell’alto corso del fiume Esino nelle Marche (9).

Anche un gruppo molto antico di Pesci ossei - gli storioni - era una volta rappresentato in Italia da tre specie, di cui una endemica, come testimoniano gli esemplari conservati nei Musei naturalistici italiani, datati tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Il Po e altri fiumi del bacino padano venivano risaliti da uno dei più grandi Pesci d’acqua dolce mai vissuti in Italia, il beluga o storione ladano, che può raggiungere i nove metri di lunghezza nelle femmine più grandi e che si è estinto in Italia nei primi anni Settanta del Novecento. Nel 2018 ne è stata tentata la reintroduzione nel fiume Ticino utilizzando esemplari di origine orientale (la specie è ancora presente nel Mar Caspio e nel Mar Nero), ma al momento l’esito di questo tentativo è ancora incerto. È davvero impressionante pensare che un animale che può produrre oltre sette milioni di uova per ogni stagione riproduttiva sia oggi scomparso in vaste zone del suo areale originario e sia considerato in pericolo critico di estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Oltre al problema delle dighe, bisogna poi considerare che il beluga è la fonte del caviale più pregiato, ricavato dall’ovario immaturo, per ottenere il quale le femmine vengono pescate e uccise, pregiudicando così il naturale reclutamento demografico delle popolazioni naturali. Fortunatamente, da alcuni anni gli storioni vengono allevati in acquacoltura e l’Italia risulta attualmente una delle principali produttrici; in particolare, il caviale viene ottenuto dai pesci in allevamento spremendo le uova manualmente: in tal modo non è necessario uccidere l’animale che sarà in grado di ricostituire il prezioso caviale negli anni seguenti. Anche lo storione cobice, endemico del Bacino adriatico, viene oggi considerato in periocolo critico se non  già estinto in natura. Fortunatamente, alcuni esemplari sono sopravvissuti in alcuni allevamenti e sono già in corso progetti europei (LIFE Natura) per tentare, anche in tal caso, la reintroduzione in natura. Inoltre, sembra che alcuni nuclei siano sopravvissuti nell’alto corso del Po grazie al fatto che gli storioni cobici sono pesci anadromi facoltativi e possono perciò completare tutto il ciclo vitale nelle acque dolci, senza la necessità di migrare verso il mare (10). Comunque, il repentino declino di questi antichi abitatori dei nostri fiumi sottolinea ancora una volta l’impatto deleterio di dighe e sbarramenti sulla capacità migratoria di questi e di altri Pesci come l’anguilla europea, anch’essa in drammatico declino negli ultimi anni e considerata a serio rischio di estinzione in Europa dall’IUCN. A differenza delle specie anadrome, l’anguilla è un pesce catadromo, che cioè compie il percorso inverso, alimentandosi nel fiumi per riprodursi in mare. Per secoli, tuttavia, si è ignorato dove si trovasse l’area destinata alla riproduzione. Solo nei primi anni Venti del Novecento, infatti, campionando le larve delle anguille che dall’Atlantico si spostano verso i fiumi europei, si è scoperto che il sito di massima concentrazione delle larve appena nate è il Mar dei Sargassi, di fronte alle coste della Florida, scoprendo così il “breeding ground” raggiunto dagli adulti dopo una migrazione di migliaia di chilometri. Gli adulti, infatti, estenuati dallo sforzo della migrazione e della riproduzione, muiono in massa subito dopo la deposizione delle uova e solo la generazione successiva, sotto forma di larve, tornerà verso le foci dei fiumi europei per la fase trofica. In altri paesi europei, più avanzati dell’Italia nell’ambito delle politiche di conservazione, già da decenni alla costruzione di briglie o dighe si accompagna la realizzazione delle cosiddette scale di rimonta, veri e propri passaggi per i pesci che permettono di aggirare l’ostacolo, favorendo così le migrazioni lungo il fiume per scopi trofici e riproduttivi e garantendo la continuità fra le popolazioni lungo il corso del fiume.

Infine, un cenno alle numerose specie di piccoli Pesci dulcicoli per lo più riferibili alla famiglia dei Ciprinidi, che rappresentano il gruppo attualmente più diversificato di Vertebrati delle acque interne. Non è possibile fornire un sia pur sommario elenco delle specie presenti in Italia per ragioni di spazio, ma basti dire che anche in tal caso molte di queste sono endemiche del territorio italiano e sono ancora poco studiate sia dal punto di vista sistematico sia della loro distribuzione geografica. Purtroppo, come già sottolineato in precedenza su questa rivista (11), le recenti modifiche alla normativa nazionale che di fatto liberalizzano l'introduzione in natura dei pesci alloctoni (12-13), rappresentano probabilmente la pietra tombale sulla vulnerabile biodiversità de Pesci delle acque interne italiane, ancora incompletamente conosciuta. Negli ultimi due decenni, la descrizione di una specie endemica di luccio e la convalida di due specie endemiche di barbo, evidenziano quanto siano ancora scarse le conoscenze sui pesci d'acqua dolce del nostro Paese. La presenza di voraci predatori alloctoni nei fiumi italiani porterà definitivamente all’estinzione una biodiversità già pesantemente minacciata dall’impatto antropico e dai cambiamenti climatici, destinata così a scomparire prima ancora di essere nota alla Scienza. Emblematico è il caso del siluro del Danubio, un vero è proprio “squalo” d’acqua dolce che può raggiungere oltre i due metri di lunghezza e che praticamente non ha predatori naturali in grado di contenerlo nei nostri corsi d’acqua; così, quando questo pesce dilaga in un fiume o in un lago divora tutto ciò che è alla portata della sua bocca gigantesca, e quando tutta la fauna acquatica si è esaurita, esso ha imparato a predare piccioni e altri Uccelli che vanno ad abbeverarsi sulla rive del fiume (14-15).

In definiva, come già sottolineato in altre occasioni (11), occorrerebbe considerare che anche i Pesci rappresentano una preziosa componente del patrimonio naturalistico del nostro Paese e, sebbene il loro aspetto freddo e viscido non stimoli l’empatia come un cerbiatto o un uccellino caduto dal nido, essi necessitano di tutta la nostra attenzione per evitare che si estinguano nel volgere di pochi anni. Purtroppo, tuttora le politiche di conservazione nei riguardi di questi animali sono del tutto inefficaci, sotto il pesante fardello del conflitto di interesse con la pesca sportiva; purtroppo, nuoce anche l’indifferenza verso animali considerati di scarso appeal anche da certo mondo ambientalista, pronto a scendere in piazza per l’orsa Daniza (16), ma apparentemente indifferente all’inarrestabile declino del popolo silenzioso e discreto dei Pesci d’acqua dolce.

CITAZIONI BIBLIOGRAFICHE/SITOGRAFIA

  1. C. Rondinini et al., Lista Rossa IUCN dei Vertebrati Italiani (Comitato Italiano IUCN e Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2022)
  2. M. Kottelat, J. Freyhof, Handbook of European freshwater fishes (Publications Kottelat, Cornol and Freyhof, Berlin, 2007)
  3. A. Splendiani et al., PLOS ONE, DOI:10.1371/journal.pone.0157975.g005 (2016).
  4. https://www.youtube.com/watch?v=LDsA2PRtu7c
  5. R. B. Alley, PNAS, 97 (4), 1331–1334 (2000)
  6. V. Caputo Barucchi et al., Journal of Fish Biology 65, 403-418 (2004)
  7. https://www.iucn.it/scheda.php?id=1233829055
  8. V. Caputo Barucchi et al., Journal of Fish Biology 75, 2344–2351(2009)
  9. V. Caputo Barucchi et al., The European Zoological Journal 89, 711-718 (2022)
  10. E. Marconato et al., Biologia Ambientale, 20 (1), 25-32 (2006)
  11. V. Caputo Barucchi et al., Natura e Società, numero 4, 16-19 (Ottobre 2022)
  12. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Decreto 2 aprile 2020 (20A02112)
  13. Decreto del Presidente della Repubblica Italiana, 5 luglio 2019, n. 102
  14. J. Cucherousset et al., PLOS ONE, 7 (12), e50840 (2012)
  15. https://www.youtube.com/watch?v=UZwPG_x6QEk
  16. https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/11/e-morto-lorso-daniza-la-provincia-non-e-sopravvissuta-alla-narcosi/1117359/

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