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Recovery Fund o Next Generation EU?

Riccardo Graziano

La pandemia Covid-19, oltre a provocare una tragedia sanitaria, ha innescato una crisi economica profonda, tanto da convincere l’Europa a mettere da parte le prassi rigoriste e allargare i cordoni della borsa facendo piovere una montagna di denaro sui Paesi membri. Ma non è tutto oro quello che luccica, in particolare per l’Italia, dove i finanziamenti del piano denominato “Next Generation EU” sono stati salutati con grande giubilo e ribattezzati Recovery Fund, spesso storpiato in Recovery “Found”. Potrebbe sembrare una sottigliezza semantica per pignoli, ma in realtà è indice di un approccio inappropriato alla questione, che rischia di vanificare l’opportunità offerta da questa mole di denaro per far ripartire il Paese su basi nuove e di canalizzare ulteriormente la ricchezza verso le solite tasche, lasciando gran parte della popolazione in difficoltà, con l’effetto paradossale di peggiorare la situazione socioeconomica e ambientale.
Ma andiamo con ordine.

Il percorso
A fine marzo 2020, quando in Italia già serpeggiava velocemente SARS-CoV-2, il virus responsabile della pandemia Covid-19, il resto dell’Europa era ancora relativamente immune dal contagio. Pertanto, Germania, Austria, Olanda, Danimarca e Svezia, definiti spesso impropriamente “paesi frugali”, avevano rifiutato di costruire una strategia comune europea per arginare il diffondersi della malattia e della conseguente crisi economica, il che la dice lunga su quanto la cosiddetta “Unione Europea” sia unita…
Tuttavia, i “frugali” hanno cambiato radicalmente prospettiva quando i contagi sono arrivati anche a casa loro, come succede spesso con molti problemi che non vengono considerati tali finché coinvolgono qualcun altro e diventano priorità assolute quando finiscono fatalmente per diventare anche problemi nostri. Un egoismo, una miopia e un opportunismo che stonerebbero in qualunque contesto umano, ma che diventano particolarmente urticanti ai vertici di quella che dovrebbe essere, appunto, una “Unione”.
A quel punto, per arginare la diffusione del virus, si è deciso di sospendere, giustamente, il Trattato di Schengen, che da decenni autorizzava la libera circolazione delle persone nell’UE. Ma si è anche messo finalmente da parte (provvisoriamente, s’intende…) quel famigerato Trattato di Maastricht che da decenni tiene inchiodata l’economia europea su vincoli tanto rigidi quanto arbitrari. L’impostazione rigorista e austera di matrice tedesca è stata accantonata, perché finalmente  si è capito che, in assenza di poderose misure di sostegno, tutta l’economia europea sarebbe collassata (non solo quella dei Paesi in crisi pregressa, tra i quali l’Italia). Per questo si è arrivati a varare, soltanto nel luglio 2020 e attraverso questo percorso tutt’altro che lineare e spontaneo, il Next Generation EU, faraonico piano di sostegno ai Paesi dell’Unione attraverso un’enorme iniezione di liquidità.

Le cifre
Il Next Generation EU prevede stanziamenti aggiuntivi oltre al bilancio standard 2021-2027 dell’UE per 750 miliardi di euro, dei quali 390 sono erogazioni a fondo perduto e 360 finanziati da prestiti, il tutto così ripartito: 10,6 mld innovazione e agenda digitale, 721,9 coesione, resilienza e valori, 17,5 risorse naturali e ambiente. L’Italia, proprio perché duramente colpita dalla pandemia, ottiene la fetta più grossa, 210 miliardi di euro, dei quali oltre due terzi destinati a nuovi progetti, il restante a quelli in essere. Ma come abbiamo visto non si tratta di un regalo: 120 miliardi di questi fondi sono prestiti che andranno restituiti. È per questo che le manifestazioni di giubilo appaiono fuori luogo: per un Paese che ha già un debito pubblico enorme, oltre 2.650 miliardi di euro, circa il 160% del PIL, la possibilità di indebitarsi ulteriormente non sembra una grande idea, anche se in questo caso il debito originario lo contrae l’UE, quindi a condizioni di mercato più favorevoli di quanto potrebbe fare l’Italia. Tuttavia, forse la scelta più saggia sarebbe stata quella di ridurre il debito, utilizzando le aperture di credito europee per abbassare sia l’indebitamento che il tasso di interesse gravante su di esso, in modo da avere minore esposizione debitoria sui mercati, dunque  anche un rating – ovvero una valutazione finanziaria – migliore, tale da poter pagare interessi minori sul debito stesso. Ma il Next Generation EU non funziona così, l’Europa finanzia a piene mani i suoi stati membri per dare una scossa all’economia, puntando in particolare sulla digitalizzazione e sulla riconversione ecologica, nel convincimento – peraltro condivisibile – che tale strategia porterà a una ripresa più sostenibile e quindi duratura. Dunque, l’approccio vuole essere quello di un investimento sul futuro, che dovrebbe in prospettiva fruttare assai più di quanto costi oggi e garantire benessere anche  alla Next Generation EU, appunto, la prossima generazione di europei.

Il fondo recupero
Purtroppo però in Italia questo messaggio pare non essere passato. Infatti qui ben pochi lo chiamano Next Generation, pensando alla prossima generazione. La denominazione corrente nel nostro Paese è appunto quella di Recovery Fund, fondo “di recupero”, spesso storpiato anche come Recovery “Found”, cioè letteralmente “recupero trovato”. Come dicevamo sopra, non è una sottigliezza semantica. È piuttosto indice della nostra mentalità miope e priva di strategia, che non pensa realmente a degli investimenti veri per il futuro, perché è rivolta al passato, cioè a fornire un “recupero” a chi ha avuto delle perdite o non ha potuto fare affari. E per ottenere questo si orienta verso strade già percorse e obsolete, senza riuscire a capire che questa pandemia ha comunque provocato una cesura netta, tale per cui occorre cambiare, rivoluzionare, modernizzare il nostro paradigma socioeconomico per ripartire su basi nuove, altrimenti non ci sarà alcuna ripresa e l’unica cosa che produrranno gli aiuti europei saranno nuovi debiti da pagare con i sacrifici di tutti, a fronte dell’arricchimento di pochissimi, peraltro già abbienti. Anziché programmare una serie di investimenti strutturali, ci stiamo comportando come se avessimo trovato un forziere stracolmo di denari da sperperare all’insegna del “ce n’è per tutti”, senza pensare che prima o poi i padroni del forziere ci chiederanno conto delle nostre spese. Anzi, sia prima sia poi, nel senso che l’UE vaglierà preventivamente con attenzione i piani preparati dalle singole nazioni per valutare se sono in sintonia con le linee guida dettate dall’Europa e solo se li riterrà adeguati erogherà i finanziamenti, salvo poi farsi restituire i prestiti con gli interessi, anche se su tempi molto dilazionati.

Generazione Futura
Se davvero si vuole pensare alla generazione futura, per prima cosa occorre investire nel luogo dove essa si trova attualmente: la scuola. Sia in termini di revisione dei programmi e dei corsi di studi, sia intervenendo fisicamente sulle strutture che ospitano i nostri ragazzi, quasi sempre inadeguate, spesso addirittura fatiscenti. Occorrerebbe un piano di investimenti strutturale, nel senso di “dedicato alle strutture”, per renderle energeticamente efficienti e adeguarle alle nuove esigenze didattiche, con l’ingresso massiccio del digitale, ma soprattutto con la maturazione di una coscienza ecologica e globale, che insegni subito ai ragazzi l’importanza di preservare l’ecosistema Terra, ma che li prepari anche ad affrontare un futuro nel quale i mutamenti climatici renderanno le condizioni di vita assai più problematiche, a meno che non si rimedi nei pochi anni in cui ancora abbiamo la possibilità di farlo, cosa che non stiamo facendo.

Economia verde
Da più parti è stato criticato il PNRR, il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, che esplicita le linee di intervento attraverso le quali si intendono utilizzare i fondi europei. In generale, l’accusa è quella di greenwashing, un risciacquo “verde” di pratiche e strategie che nulla hanno a che vedere con la riconversione ecologica necessaria e urgente di cui abbiamo bisogno. Lo hanno detto le associazioni ambientaliste, i ragazzi di FFF, esponenti della società civile. Quello che si delinea è un progetto di “ammodernamento” del Paese, come se il problema fosse la nostra arretratezza, mentre il nocciolo della questione è l’insostenibilità del nostro sistema di “sviluppo”, basato su una crescita insostenibile e su un’economia ancora troppo “lineare”, ovvero programmata in senso unidirezionale dalle materie prime ai prodotti ai rifiuti, anziché su una economia “circolare”, in grado di lavorare a ciclo chiuso, come Madre Natura, ovvero dove i rifiuti di una lavorazione diventano la materia prima di un’altra.

Economia digitale
Un altro grande pilastro della strategia UE è la digitalizzazione, in sé positiva, ma solo se si tiene conto dei suoi effetti sull’occupazione. Senza dilungarci troppo, sottolineiamo che è facile prevedere come lo sviluppo dell’intelligenza artificiale produrrà nel giro di pochi anni macchine e robot in grado di sostituire gli umani in modo autonomo in un numero enorme di mansioni, il che può essere positivo se ci evita lavori onerosi o pericolosi, ma occorre tenere conto degli effetti devastanti che può avere sull’occupazione. Il rischio è di aumentare in modo esponenziale i disoccupati, sia per la crisi post-Covid, sia per l’arrivo delle macchine intelligenti. Per evitare una crisi occupazionale e sociale, occorre anche qui invertire il paradigma, che finora ha visto allungare progressivamente l’età pensionabile, strategia che ha inopinatamente tenuto fuori dal mondo del lavoro i giovani, costringendo i lavoratori anziani a rimanere a occupare i pochi posti disponibili. Una follia. Occorre programmare un massiccio ricambio generazionale, che consenta l’ingresso di forze giovani, in grado di metabolizzare meglio le dirompenti innovazioni tecnologiche. Al tempo stesso, occorre prendere atto che i tempi di lavoro andranno ridotti a parità di salario, ridistribuendo le risorse in surplus ottenute grazie all’efficienza delle macchine. Il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti” torna prepotentemente attuale ed è l’unica soluzione possibile, se si vogliono evitare conflitti sociali devastanti.

Cosa fare, cosa no
Per avviare sul serio la riconversione ecologica, occorre puntare su cose già dette e ridette, ma mai messe sufficientemente in pratica: sostituire le fonti fossili con energie rinnovabili; utilizzare le energie rinnovabili per implementare la mobilità elettrica dismettendo i veicoli a carburanti fossili; arrestare il consumo di suolo e riqualificare gli edifici esistenti; rinaturalizzare le pratiche agricole; diminuire i consumi di carne ed evitare gli allevamenti intensivi: salvaguardare le foreste primarie, i ghiacciai e in generale gli habitat naturali; proteggere la biodiversità; mettere in sicurezza il territorio; bonificare i siti inquinati, eccetera, senza dilungarci troppo su cose già dette e ripetute, in particolare dagli ambientalisti, ma non solo. Purtroppo inascoltati, come dimostra il caso esemplare della Regione Piemonte, che ha stilato un elenco di 1.273 (sì, milleduecentosettantatre) progetti, una vera pletora di richieste per un totale di 27 miliardi, senza ombra di strategia e di visione, solo un lungo elenco di progetti spesso già accantonati perché inutili, ma ripresi nella speranza di trovare nuovi finanziamenti (all’insegna del “ce n’è per tutti”, appunto), a volte addirittura in conflitto fra loro. Per giustificare questo approccio da burocrate privo di qualità di governo, la Regione Piemonte si è vantata di aver dato voce a tutti. A parte che non è vero, perché ovviamente non ha minimamente preso in considerazione le associazioni ambientaliste, ma comunque non è quello che doveva fare. Il compito delle Regioni era quello di indicare progetti propri o presentati da altri soggetti che fossero compatibili con le linee guida dettate dalla UE, per andarli a inserire in un unico documento nazionale da presentare e sostenere in Europa. Altro che uno sterminato elenco di “progetti” che sembra più una richiesta di elemosine da distribuire a una pletora di questuanti.

Conclusioni
L’approccio doveva essere quello di un investimento sul futuro, ma sembra che l’orientamento sia quello di una serie infinita di ristori e regalie mascherate da appalti, una “strategia” in linea con un Paese che invecchia guardando al passato, invece che aprirsi guardando ai giovani e al cambiamento necessario e urgente. Senza dimenticare i soliti favori ai “poteri forti”, che si ammantano di un’aura fintamente “verde” per mettere le mani sul ricco piatto offerto dalla UE. Se non riusciremo a incidere sui decisori politici per cambiare rotta, povera Next Generation, senza ripresa, senza occupazione, con un pianeta devastato da inquinamento e mutamenti climatici e, se ancora non bastasse, anche con un debito enorme da ripagare.

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