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Le nostre responsabilità nella deforestazione in Sud America

Piero Belletti

Che la situazione ambientale nel nostro Pianeta sia drammatica è cosa che, in tutta onestà, nessuno può mettere in dubbio. Così come è innegabile la responsabilità di ciascuno di noi nel contribuire alla distruzione di quel poco di natura che ancora è rimasta. Magari inconsciamente, ma ognuno di noi fa la sua parte.

Ce ne dà una chiara dimostrazione una studio effettuato da alcune ONG (“Fair Watch”, “Periodistas per el planeta”, “Madre Brava” e “Somos Monte Chaco”) sui rapporti tra deforestazione in Argentina e allevamento industriale in Europa. I risultati dello studio, curato da Nico Muzi, Riccardo Tiddi, Marina Aizen e consultabili sul sito https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2022/09/soia_chaco_ita_def.pdf, mostrano una realtà drammatica, anche se probabilmente poco percepita dai cittadini dei Paesi più ricchi, e ci inchiodano nelle nostre pesanti responsabilità.

La protagonista di questa vicenda è la soia, o meglio la farina che si ottiene macinando i suoi semi e che, essendo ricchissima in proteine, rappresenta la base per l’alimentazione di molti animali domestici. L’Italia produce meno di un quinto dei 3,2 milioni di tonnellate di farina di soia che utilizza nei suoi allevamenti intensivi. Il resto viene importato, per la maggior parte da Paesi dell’America, sia del nord (Stati Uniti), che del sud (Brasile, Paraguay ma soprattutto Argentina, con oltre 1,2 milioni di tonnellate). Tra l’altro, si tratta nella maggior parte dei casi di soia geneticamente modificata, quella la cui coltivazione è vietata nel nostro Paese, ma che entra comunque nella nostra alimentazione seguendo la via indiretta del consumo animale.

Ma l’aspetto ancor più preoccupante riguarda il fatto che per produrre queste enormi quantità di soia si procede al disboscamento sistematico di aree forestali o comunque naturali. È stato calcolato che, a partire dal 1996 (anno in cui la Monsanto lanciò sul mercato la sua soia OGM resistente al diserbante Roundup, a base di glifosato, guarda caso, prodotto dalla stessa Monsanto…), ben 14 milioni di ettari del Gran Chaco, una superficie più vasta della Campania, sono stati distrutti. Il Gran Chaco è una vasta regione contraddistinta da clima relativamente secco che si estende tra Argentina, Bolivia, Brasile e Paraguay, caratterizzata da una copertura forestale primaria e che ospita specie animali di grande valore naturalistico e protezionistico (come il lupo dalla criniera, il formichiere, l’armadillo, il tapiro, il giaguaro, ecc.), ma che si sta rapidamente riducendo, a causa soprattutto dell’espansione dell’attività agricola. Attività agricola che riguarda in massima parte proprio la coltivazione di soia, da destinare poi all’esportazione. Rendendo così noi occidentali, che quella soia importiamo per nutrire gli animali dei cui prodotti ci cibiamo, corresponsabili in quello che può essere definito un vero e proprio biocidio. Con conseguenze drammatiche anche sul clima. Infatti, non solo la foresta eliminata non è più in grado di assorbire CO2 e rilasciare ossigeno, ma la sua distruzione, che avviene quasi sempre ad opera del fuoco, libera in atmosfera quantità impressionanti di sostanze climalteranti. Poi avvengono i disastri, come quello recentissimo nelle Marche, e noi ancora a chiederci il perché…..

Ma torniamo al problema dell’importazione di farina di soia. L’Unione Europea, a novembre dello scorso anno, ha elaborato una proposta di Regolamento contro l’importazione di prodotti ottenuti a seguito della distruzione delle foreste naturali o comunque ottenuti a seguito di violazioni dei diritti umani. Secondo tale norma, gli importatori dovrebbero dimostrare, ad esempio, che i prodotti da loro commerciati non sono stati ottenuti su terreni disboscati di recente. A metà settembre il Parlamento Europeo ha approvato a larghissima maggioranza la proposta, rendendola addirittura più stringente rispetto a quanto emerso dal Consiglio dell’Ambiente dell’Unione lo scorso 28 giugno. I concetti di “deforestazione” e “degrado forestale” sono infatti stati resi più stringenti rispetto alle blande definizioni stabilite dal consesso dei Ministri per l’Ambiente, mentre l’elenco di prodotti interessati dal Regolamento è stato ampliato, aggiungendo a olio di palma, soia, caffè, cacao, legname e carne bovina anche gomma, mais ,pollame, carne suina e caprina, carta. Molto importante anche la norma che estende le responsabilità previste dal Regolamento a banche e altre istituzioni finanziarie europee, i cui investimenti non potranno riguardare progetti e società coinvolte nella distruzione delle foreste.

Naturalmente, le lobbies degli importatori hanno contestato la decisione europea, potenziando la loro attività per ostacolare l’applicazione del Regolamento, minacciando “gravi aumenti di prezzi e problemi di disponibilità per cereali e mangimi”.

Qualcuno potrebbe obiettare che con la coltivazione di aree boscate si garantisce lavoro e reddito a una delle popolazioni più povere del mondo. Come al solito le cose non stanno così: la trasformazione delle foreste in aree agricole non avviene ad opera delle popolazioni locali, bensì di grandi imprese, spesso a carattere multinazionale, che addirittura scacciano con la violenza le popolazioni indigene dalla loro terra. È quanto è capitato, con riferimento all’area del Gran Chaco, alle etnie Wichì, Pilagà, Qom, Vilela, Moqoit, giusto per fare solo alcuni esempi, che sono andate ad accrescere l’enorme massa di diseredati che vivono nelle bidonville ai margini delle grandi città, in condizioni che definire disumane è ancora riduttivo.

A ciò va aggiunto l’atavico problema della corruzione, che riesce a depotenziare anche quelle poche, laddove esistenti, misure di tutela approvate. Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Global Environmental Change”, ad esempio, afferma che nel decennio 2011-2020 la superficie argentina disboscata illegalmente all’interno di aree protette è stata addirittura superiore a quella coinvolta da interventi consentiti e legittimi….

Quindi la situazione è grave ed è difficile ipotizzare vie d’uscita. C’è comunque qualcosa che, nel nostro piccolo, ciascuno di noi può fare. Modifichiamo le nostre abitudini alimentari, riducendo il ricorso a prodotti di origine alimentare. Attenzione, non stiamo proponendo il veganesimo (opzione peraltro più che legittima), ma soltanto un’accurata scelta dei prodotti di cui ci nutriamo. Se sostituiamo nella nostra dieta almeno una parte delle proteine di derivazione animale con quelle vegetali, potremmo ridurre la consistenza degli allevamenti intensivi, che tanti problemi creano: dalla distruzione del territorio all’emissione di gas serra, dall’inquinamento delle falde all’enorme consumo di acqua, senza trascurare, ovviamente, le indicibili sofferenze causate a milioni di animali. Meno allevamenti vorrebbe dire minor esigenza di mangimi e quindi minori importazioni di soia. Certo, questo potrebbe creare problemi al comparto agricolo. Se però si adottano opportune politiche di sostegno economico, si potrebbe favorire lo spostamento verso altre colture, meno energivore, come ad esempio il frumento, e la cosa potrebbe quindi risultare accettabile. Non solo: il frumento necessità di una quantità di acqua pari a poco più della metà di quella richiesta dal mais; inoltre, avendo un ciclo autunno-primaverile (si semina in ottobre e si raccoglie in giugno) la maggior parte delle esigenze idriche viene normalmente coperta dalle precipitazioni naturali. Ovviamente, affinché gli agricoltori siano invogliati in questo cambio di indirizzo colturale occorreranno adeguate politiche di sostegno ai prezzi del frumento. Ma siamo certi che alla collettività costeranno molto, ma molto meno di quanto siamo invece costretti oggi a spendere per sostenere attività economicamente altrettanto insostenibili, ma con in più anche enormi impatti ambientali.

Anche la nostra sicurezza alimentare ne trarrebbe grandi benefici: noi oggi importiamo grosso modo la metà delle circa 14 milioni di tonnellate di frumento che consumiamo. L’azzeramento, o quanto meno una drastica riduzione, della nostra dipendenza dall’estero per la più importante derrata alimentare non potrebbe che essere vista positivamente, come gli eventi bellici in Ucraina stanno ampiamente dimostrando.

Certo, si tratterebbe di una sorta di rivoluzione, certamente non semplice da attuare. Tuttavia ci troviamo in una fase di assoluta emergenza, per cui le soluzioni ai nostri problemi devono essere commisurate alla loro gravità.

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