Siamo quello che mangiamo
Riccardo Graziano
Siamo quello che mangiamo. Un assunto della saggezza popolare che un tempo si riferiva sostanzialmente al nostro fisico e al nostro aspetto, ma che oggi va ben oltre. Perché oggi siamo otto miliardi di individui e produciamo cibo per dodici miliardi di persone, ma lo facciamo con sistemi che impattano sulla salute nostra e del pianeta e, nonostante ciò, lasciamo ancora quasi un miliardo di persone nell’insicurezza alimentare, a volte letteralmente a morire di fame, mentre contemporaneamente sprechiamo più di un terzo del cibo prodotto [come spieghiamo in un altro articolo].
Oggi la produzione di cibo incide su molteplici aspetti sociali, economici, ambientali, persino geostrategici, che sarebbe troppo lungo e complesso analizzare nel dettaglio, ma sui quali occorre fare qualche riflessione. E allora partiamo dall’inizio…
Da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori
Qualche migliaio di anni fa, il genere Homo era composto da tribù di cosiddetti cacciatori-raccoglitori, individui che si limitavano a sfruttare le risorse offerte naturalmente dal pianeta, come qualunque altro animale, solo in modo leggermente più efficiente. Attualmente pochissime comunità sperdute vivono ancora in maniera simile, ma l’incontro (più spesso lo scontro) con la “civiltà” le sta inesorabilmente cancellando. Oggi come allora questi individui sono perfettamente inseriti nel loro habitat e le ricerche ci dicono che, nella preistoria, grazie alla loro dieta, erano persino più sani di noi. Bella forza! Erano sottoposti a una selezione naturale feroce che permetteva la sopravvivenza solo dei più forti, i quali comunque ben di rado arrivavano ai quarant’anni…
Ecco perché, quando i Sapiens iniziarono a capire che i semi dei loro cibi potevano germinare più comodamente nei dintorni del villaggio invece che in mezzo alle foreste e che gli animali era più comodo tenerli in un recinto invece che inseguirli nella savana, ci misero poco a cambiare abitudini e a diventare coltivatori-allevatori.
Da quel momento, l’Uomo inizia a plasmare l’ambiente secondo le sue esigenze e a capire un po’ per volta che non è destinato a subire passivamente le leggi della Natura. Tuttavia, ancora fino agli albori dell’epoca industriale, il rapporto si mantiene relativamente in equilibrio e, per quanto riguarda lo stretto ambito della produzione del cibo, le cose rimangono tali praticamente fino al secondo dopoguerra. Ovvero, mentre in altri ambiti (meccanico, tessile, chimico) i processi industriali soppiantavano le lavorazioni artigianali, in campo agricolo si restava grossomodo legati a quelli che erano i ritmi della terra e delle stagioni, anche se non mancavano grossi interventi quali canalizzazioni o bonifiche. Ma dalla seconda metà del novecento le cose iniziano a cambiare radicalmente, e l’approccio industriale, produttivista, estrattivista e consumista contagia anche l’agricoltura.
L’agricoltura industriale
Oggi, lo stravolgimento è diventato quasi totale. La cosiddetta agricoltura “tradizionale” in realtà non ha più nulla della tradizione conservata pressoché intatta fino all’epoca dei nostri nonni o genitori. Attualmente, abbiamo una situazione dominata dall’agribusiness, un sistema economico e industriale che porta avanti la produzione di cibo con le stesse logiche delle catene di montaggio e della “estrazione di valore” a discapito della classe lavoratrice, in questo caso soprattutto i piccoli agricoltori, stritolati fra l’incudine e il martello, ovvero fra le multinazionali che controllano le forniture di sementi e fitofarmaci e la Grande Distribuzione che impone i prezzi di “mercato”.
È questo il vero problema che affligge i contadini, le cui legittime proteste vengono indirizzate ad arte contro la transizione ecologica, la quale al contrario va attuata il più rapidamente possibile proprio per evitare ulteriori peggioramenti in campo agricolo. I contadini, infatti, sono coloro che per primi e più di altri stanno cominciando a vivere sulla propria pelle i danni dovuti al riscaldamento globale e ai mutamente climatici, quindi più di chiunque altro avrebbero interesse a praticare e sostenere la riconversione ecologica globale, a partire dal loro stesso settore.
L’agricoltura è in effetti parte rilevante del problema, perché il sistema di produzione del cibo nel suo complesso – coltivazione, allevamento, trasformazione, logistica e consumo - èresponsabile del 35% delle emissioni di gas serra e del 15% dei combustibili fossili bruciati, oltre che della dispersione di numerosi inquinanti, a partire dall’ammoniaca prodotta dagli allevamenti intensivi.
L’agroecologia
Ma l’agricoltura è anche parte della soluzione, se si attua una riconversione necessaria, urgente e in prospettiva conveniente anche sotto il profilo economico, purché gli agricoltori vengano adeguatamente supportati nella delicata e non facile fase di transizione dall’attuale modello industriale all’agroecologia, non dissimile dall’approccio tradizionale e rispettoso della natura dei nostri avi, ma supportato dalla moderna tecnologia, in grado di alleviare non poco il peso di un mestiere comunque impegnativo.
Soprattutto, però, l’agroecologia è molto più di un insieme di pratiche agricole maggiormente ecocompatibili: è una visione olistica del rapporto con la Terra che include e integra giustizia climatica e sociale, mettendo sullo stesso piano la produzione di cibo con la sfida al cambiamento climatico, con la sicurezza alimentare, con la salvaguardia della biodiversità e con la tutela della salute dell’Uomo e dell’ambiente.
Non a caso, questo approccio è sostenuto dalla FAO, l’emanazione dell’ONU che si occupa di agricoltura, e dall’IPCC, l’ente delle Nazioni Unite che monitora i cambiamenti climatici e che considera l’agroecologia come una delle soluzioni da applicare per mitigare le conseguenze dei mutamenti climatici in atto.
In pratica, si tratta di tornare a coltivare la terra con sistemi più rispettosi della natura, eliminando l’eccesso di chimica che avvelena e impoverisce i suoli, ripristinando la loro naturale fertilità con periodi di riposo o coltivazioni mirate, lasciando anche spazi destinati alla rinaturalizzazione spontanea, oasi destinate a salvaguardare una biodiversità a sua volta utile e necessaria per l’agricoltura, a cominciare dagli insetti impollinatori, tanto fondamentali per la riproduzione dei vegetali, quanto in pericolo per l’abuso di pesticidi.
Per realizzare questo cambio di paradigma, occorrono fondamentalmente tre cose: suolo libero, sostegno economico e consumo consapevole. Senza entrare troppo nel dettaglio, perché sarebbe troppo lungo e complesso, analizziamo brevemente questi tre aspetti.
Suolo libero
Può sembrare banale ricordarlo, ma per coltivare occorre avere del suolo a disposizione. Qualcosa di apparentemente scontato, ma che sembriamo aver dimenticato. Infatti, negli ultimi anni il consumo di suolo è proseguito senza sosta, con migliaia di ettari di terreno fertile seppelliti da colate di cemento e asfalto. Secondo i dati dell’ISPRA, nel 2022 la cementificazione è avanzata al ritmo insostenibile di 2,4 metri quadrati al secondo, divorando 77 km2 di territorio, oltre il 10% in più rispetto al 2021. La cancellazione di spazi verdi rende le città progressivamente più calde e invivibili, mentre si continua a costruire anche nelle zone a rischio idrogeologico, dove sono stati impermeabilizzati 900 ettari in aree considerate a pericolosità idraulica media. Nello specifico delle aree agricole, sono stati cancellati 4.500 ettari, che sarebbero stati in grado di assorbire 2 milioni di tonnellate di anidride carbonica e di produrre 400.000 tonnellate di cibo che ora dovremo importare, alla faccia della “sovranità alimentare”. In termini di servizi ecosistemici, la cancellazione di una tale superficie significa una perdita di 9 miliardi di euro ogni anno, cifre che andrebbero tenute in conto quando si prende in esame il rapporto costi/benefici delle nuove edificazioni, ma che tuttavia non vengono mai conteggiate in nessuna analisi finanziaria.
Occorre sottolineare che un suolo impermeabilizzato è perso per sempre, perché anche se un domani si decidesse di rimuovere cemento e asfalto, passerebbero comunque secoli prima che possa tornare fertile.
Se a questo aggiungiamo il problema della desertificazione, il quadro diventa doppiamente allarmante. A fianco di una desertificazione “naturale” provocata da fenomeni sempre più frequenti di siccità prolungata, effetto dei cambiamenti climatici, abbiamo quella che viene definita “desertificazione da agricoltura industriale”. È il fenomeno dell’impoverimento dei terreni sovrasfruttati dalle monocolture intensive, che richiedono quantità crescenti di fertilizzanti e pesticidi chimici. La somma di questi fattori comporta che, ad oggi, il 70% dei suoli coltivabili europei venga considerato compromesso in termini di fertilità e produttività.
Sostegno economico
I numeri ci dicono che l’agricoltura europea gode di finanziamenti rilevanti. Ma le semplici cifre non dicono che l’80% di questi finanziamenti finisce al 20% dei produttori, quelli più grandi e che applicano alle loro produzioni un approccio industriale, sia nell’agricoltura, sia nell’allevamento. Ai “piccoli” arrivano le briciole di questa pioggia di milioni di euro, il che non consente loro di pianificare con serenità la transizione verso l’agricoltura biologica. Per ovviare a questa sperequazione occorrerebbe riformare la PAC, la politica agricola comunitaria, indirizzando i sussidi verso i piccoli produttori, le produzioni biologiche e la riconversione ecologica, smettendo di finanziare monocolture e allevamenti intensivi. In questa prospettiva, diventano cruciali le prossime elezioni europee, tramite le quali il Parlamento dell’UE potrebbe essere ridisegnato in modo da virare decisamente verso la transizione, oppure all’opposto ripiombare nel negazionismo climatico, nell’economia fossile e nel sostegno incondizionato all’attuale sistema agroindustriale dominato dalle multinazionali della chimica e della grande distribuzione.
Una scelta nelle mani degli elettori. Ma c‘è anche un altro modo con il quale i cittadini possono indirizzare i destini dell’agricoltura.
Consumo consapevole
I cittadini sono anche consumatori. E a seconda di come indirizzano i propri consumi, possono orientare il “mercato”, anche quello ortofrutticolo. E di conseguenza possono influire sulle strategie di produzione del cibo che, come si è detto, hanno un peso rilevante sul riscaldamento globale e sui cambiamenti climatici. Su questo, la politica è purtroppo sostanzialmente assente, visto che le strategie alimentari rientrano nei piani climatici solo del 30% dei Paesi. In attesa che i governi si sveglino, possiamo cominciare a decidere noi, spostando i nostri consumi sulle produzioni locali, biologiche e di qualità. Magari cercando – per quanto possibile - di accorciare la filiera, andando a comprare direttamente dai piccoli produttori. Oppure diminuendo il consumo di carne e scegliendo quella di qualità, certificata da allevatori attenti al benessere animale ed evitando – sempre per quanto possibile – i prodotti provenienti da allevamenti intensivi. Piccoli accorgimenti, limitate variazioni delle nostre abitudini, possono influire più di quanto pensiamo sulla macchina della produzione e distribuzione del cibo indirizzandola verso l'agroecologia. Secondo Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia «Questo non solo proteggerebbe il pianeta, ma aiuterebbe anche ad affrontare le radici della fame, a creare posti di lavoro, a migliorare la salute e a proteggere la biodiversità, in definitiva a costruire una prospettiva futura di pace e bellezza». Mentre l'Ipcc afferma che l'agroecologia può migliorare la resilienza agli effetti del cambiamento climatico e che il passaggio a diete equilibrate e sostenibili può aiutare a combattere il cambiamento climatico stesso. In pratica, se scegliamo di mangiare in maniera sana, tuteliamo allo stesso tempo la nostra salute e quella del pianeta. Dipende solo da noi.
Siamo quello che mangiamo, appunto.