Lo spreco di cibo: un crimine contro l’umanità
Produciamo alimenti per 12 miliardi di persone, ma ne sprechiamo più di un terzo. Di conseguenza, una persona su 10 al mondo non ha di che mangiare, mentre gli altri spesso soffrono di obesità. Intanto la produzione, la lavorazione e la distribuzione del cibo contribuiscono a impoverire e inquinare in nostro ambiente. L'ONU pianifica di dimezzare gli sprechi entro il 2030, ma siamo molto lontani da questo obiettivo
Piero Belletti
Tra i numerosi, brutti ricordi del servizio militare (siamo alla fine degli anni ’70 del secolo scorso) un posto di rilievo spetta alle volte in cui fui comandato a svolgere servizio presso la mensa della caserma. Non tanto per il lavoro, anche se lavare piatti (in realtà vassoi….), pentole e posate e pulire tavoli e pavimenti non è certo la massima aspirazione che uno può avere nella vita. E nemmeno per gli squallidi episodi di gestione allegra cui fui costretto ad assistere: si era in tempi di vacche grasse e non si andava tanto per il sottile…. Ricordo, in particolare, quella volta che il capitano responsabile della mensa mi chiese (meglio, mi ordinò) di aiutarlo a scaricare dal camioncino che portava i rifornimenti una intera forma di parmigiano reggiano (circa mezzo quintale). Ma non, come sarebbe stato logico, nella dispensa della caserma, bensì direttamente … nel bagagliaio della sua auto privata. Auto che, come tutte le altre degli ufficiali, e soprattutto dei sottufficiali, la sera vedevo poi fare la coda per rifornirsi di carburante all’interno della caserma. Ma torniamo al servizio in mensa. Dicevo della cosa che più mi sconvolgeva: l’enorme quantità di cibo che veniva sprecato. Probabilmente le esigenze venivano gonfiate ad arte, per favorire i fornitori che poi si sdebitavano in non so quale modo, anche se lo posso immaginare; inoltre si cucinava per tutti i militari in forza alla caserma, anche per quelli assenti e nonostante la maggior parte di essi fosse, per usare un eufemismo, insoddisfatta della qualità del cibo della mensa e preferiva quindi scegliere altre alternative per nutrirsi.
E così quantità impressionanti di pasta, ma anche di carne ed altri alimenti più “pregiati”, finivano nella spazzatura. Lo shock fu notevole, tant’è che ancora oggi, a quasi mezzo secolo di distanza quei ricordi sono ancora impressi nella mia memoria. E hanno fortemente condizionato tutta la mia vita, instillando in me una profonda avversione per lo spreco di cibo.
Diamo i numeri
Esperienze personali a parte, lo spreco di cibo è una delle più drammatiche contraddizioni del nostro tempo. C’è gente che muore di fame (735 milioni secondo le ultime stime della FAO) (1) e, contestualmente, chi butta tonnellate e tonnellate di cibo. A prescindere dai problemi legati all’eccesso di alimentazione, come il sovrappeso, che colpisce, ad esempio, quattro italiani su dieci, ma che in altri paesi (Croazia. Malta, Repubblica Ceca, Islanda, Ungheria, ecc.) arriva a superare anche il 60% della popolazione. Produciamo cibo sufficiente e sfamare 12 miliardi di persone, ma siamo poco più di 8 miliardi. “Sprecare il cibo è un po’ come rubare ai poveri” ha affermato giustamente Papa Francesco. Una situazione che ricorda, ma in modo ancor più drammatico, quella dell’amministratore delegato portoghese di un grosso gruppo industriale che una volta era italiano e produceva soprattutto automobili (oggi né l’una, né l’altra cosa sono molto chiare…), il quale guadagna da solo come 1.200 dei suoi operai. Più o meno gli stessi che il gruppo di cui sopra mette in cassa integrazione, di modo che lo stipendio (a questo punto non si capisce più quale….) venga pagato dalla collettività.
Ma torniamo al cibo. Secondo la FAO, oltre un terzo del cibo prodotto sulla Terra viene sprecato, in parte a livello delle aziende produttrici (8%), in parte nella catena che va dalla raccolta alla distribuzione su larga scala (quella che viene definita “perdita di cibo” e che incide per il 14%) e in parte a livello famigliare (il cosiddetto “indice di spreco”, che riguarda le fasi di approvvigionamento e consumo e che pesa per un ulteriore 17%) (2). Tra l’altro, c’è anche da considerare che il cibo non utilizzato va incontro a processi di decomposizione sia chimica che microbica, che hanno come effetto una elevata produzione di sostanze pericolose, tra cui in particolare metano: si stima che circa un terzo delle emissioni di gas climalteranti derivi proprio dal cibo non utilizzato. Si parla inoltre di emissioni pari a circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2, poco meno di quanto rilasciano nel complesso paesi come la Cina o gli Stati Uniti (3).Non solo, il cibo che non viene utilizzato ha avuto una enorme “impronta ecologica”: c’è voluta energia per coltivarlo, si è avvelenato l’ambiente con concimi, fitofarmaci o medicinali zootecnici, si sono consumate enormi quantità di acqua e anche le fasi di trasporto, lavorazione e distribuzione hanno richiesto grandi fabbisogni energetici e hanno causato fenomeni di inquinamento diffusi. La stessa distruzione dell’ambiente naturale potrebbe essere ridimensionata con una più accorta politica di produzione del cibo: oltre i tre quarti della deforestazione che coinvolge l’Amazzonia viene giustificata con la necessità di recuperare terre da coltivare. Senza dimenticare considerazioni che rientrano nella sfera dell’”etico” e che riguardano soprattutto gli animali. È giusto sottoporre milioni, anzi miliardi, di esseri senzienti a condizioni di vita allucinanti, fino ad arrivare alla loro uccisione, per poi buttare via i prodotti che ne derivano?
Lo spreco di cibo si attesta su 1,3 miliardi di tonnellate, per un valore commerciale che oscilla intorno a un miliardo di dollari. I prodotti maggiormente trasformati in spazzatura sono frutta e verdura (il 45% della produzione), pesce e frutti di mare (35%), cereali (30%), prodotti lattiero-caseari e carne (20%) (4)
Lo spreco in famiglia
Anche se qualche piccolissimo passo rispetto al più recente passato è stato compiuto (ad esempio nel nostro Paese gli scarti si sono ridotti di un quarto negli ultimi anni), c’è ancora molta strada da fare. Intanto c’è da dire che la modesta riduzione osservata nel volume degli sprechi, fenomeno evidenziato su scala mondiale, pare dovuta soprattutto a difficoltà economiche più che a scelte consapevoli e responsabili. E poi siamo ancora su livelli spaventosamente alti: in Italia ognuno di noi spreca, limitatamente all’ambito domestico, circa 25 kg all’anno di cibo. Un dato impressionante, ma ancora inferiore a quanto capita in altre parti del mondo: in Australia si arriva a oltre 70 kg/anno e su dati di poco inferiori si collocano anche gli Stati Uniti d’America.
Che fare?
Per arginare questo devastante fenomeno occorre chiaramente agire a più livelli. Gli interventi che coinvolgono le fasi di produzione e distribuzione sono ovviamente i più difficili da perseguire, perché riguardano contesti spesso internazionali e sono fortemente condizionati dalle politiche economiche a livello mondiale (5). Certamente finché il cibo verrà considerato unicamente un prodotto e non la base della sopravvivenza umana, le logiche di profitto continueranno a prevalere e le possibilità di migliorare la situazione rimarranno scarse. Occorre perseguire un vero e proprio cambio di paradigma, che ponga l’equilibrio tra l’uomo e l’ambiente nel quale vive come perno centrale, cui condizionare tutte le scelte sociopolitiche ed economiche che devono essere intraprese. Un cambio epocale, probabilmente utopistico, che però rappresenta l’unica soluzione per garantire un futuro, o quantomeno un futuro che valga la pena di essere vissuto, alla nostra specie.
Un capitolo a parte merita quella che potremmo definire la ristorazione collettiva (mense ristoranti, ecc.). Si tratta di una delle fonti di spreco più consistenti, che tuttavia potrebbe vedere sostanzialmente ridotti i suoi impatti adottando misure nemmeno troppo complesse. Ad esempio, nel caso delle mense aziendali, prevedendo l’obbligo per i dipendenti di “prenotare” il pasto, in modo da dare a chi cucina l’opportunità di preparare quantitativi di pasti commisurati agli utenti, riducendo in modo palese gli sprechi.
Per quanto riguarda invece il livello “individuale” è forse più semplice ipotizzare qualche intervento: qui non entriamo in dettagli, sia perché si tratta di considerazioni facilmente comprensibili anche solo seguendo logica e buon senso, sia perché esistono linee guida ed indicazioni in abbondanza. Si vedano, ad esempio, i numerosi “decaloghi” che sono stati messi a punto, quali quello predisposto dall’ENEA (6). Ovviamente, la base di tutto deve essere la sensibilizzazione individuale, senza la quale ogni passo successivo viene precluso. E anche qui le cose non vanno per nulla bene. La ricchezza che abbiamo conquistato in questi ultimi decenni ci porta a sottovalutare il reale valore dei beni e dei servizi di cui disponiamo, rendendo così molto più comuni atteggiamenti irresponsabili e fortemente impattanti. Occorre potenziare la cultura dell’uso responsabile delle risorse, lavorando fin dai primissimi livelli dell’ambito scolastico. Attenzione però: non lasciamoci ingannare da banalità quali “la giornata della prevenzione dello spreco alimentare” o cose del genere. Anzi, queste iniziative potrebbero addirittura essere controproducenti, insinuando nella convinzione delle persone che quanto fatto in un giorno ci garantisce un comportamento virtuoso anche per le rimanenti 264 giornate….
1. https://www.fao.org/platform-food-loss-waste/en/
2. https://www.ifco.com/it/quale-paese-spreca-piu-cibo/
3. https://ecobnb.it/blog/2020/08/spreco-cibo/
4. https://www.ifco.com/it/fermare-gli-sprechi-e-le-perdite-alimentari-con-ifco/
6. http://www.comune.torino.it/ambiente/bm~doc/decalogoeneasprecoalimentare.pdf