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Socia della

Transizione energetica, paesaggio e biodiversità

Mauro Furlani e Paolo Pupillo

Perché cambiare le fonti di energia.
Recita un celebre motto (di spirito) che fare previsioni corrette è sempre difficile, soprattutto prima che l’evento si verifichi. Ma se parliamo di clima e gas serra (greenhouse gases, GHG) le previsioni sono state piuttosto precise fin dagli inizi della storia, che per comodità collochiamo al 1958, quando, per iniziativa di un chimico americano di nome Charles David Keeling, cominciarono i rilevamenti del biossido di carbonio (CO2) atmosferico all’Osservatorio astronomico di Mauna Loa nelle Isole Hawaii. I risultati (fig. 1) furono sorprendenti: la concentrazione di questo GHG in atmosfera andava aumentando di circa il 2% all’anno nonostante una marcata oscillazione annuale, anch’essa dell’ordine del 2%, attribuita all’effetto della fotosintesi algale nell’Oceano Pacifico (ma è stata poi riportata in tutto il mondo, anche al nostro Osservatorio dell’Aeronautica sul Monte Cimone). In questo modo divenne possibile documentare con precisione l’aumento di concentrazione di CO2 atmosferico da 320 ppm (parti per milione) alle attuali 420: un balzo di quasi un terzo in 65 anni; mentre sappiamo che almeno nell’ultimo mezzo milione di anni e fino alla rivoluzione industriale il livello di CO2 non aveva mai superato 280 ppm. Le misure geochimiche isotopiche, inoltre, confermano che c’è sempre stata una stretta correlazione fra le temperature medie e le concentrazioni dei GHG durante le grandi glaciazioni dell’ultimo milione di anni. Ma l’ipotesi di una relazione fra temperatura e gas atmosferici per “effetto serra” era stata già proposta dal premio Nobel Svante Arrhenius (1859-1927), a spiegazione delle condizioni climatiche eccezionalmente favorevoli del nostro Pianeta; con il corollario delle possibili conseguenze di un aumento (antropogeno) dei GHG.

Benché previsioni dettagliate e assai allarmanti sugli effetti dell’incremento di CO2 sul clima terrestre siano state formulate a partire dagli anni ’80 e via via perfezionate sulla base di modelli fisici sempre più sofisticati, nondimeno il “diagramma di Keeling” in incessante ascesa resta a impressionante monito dell’incapacità dei governi (o degli umani?) di porre un freno alle emissioni. Nonostante le conferenze dedicate al clima, a cominciare da quella di Quito del 2002, e gli impegni presi da molti Paesi in fatto di superamento del consumo di combustibili fossili: petrolio e suoi derivati, gas naturali, prodotti da fracking. È appena il caso di ricordare come ambienti politici, religiosi, pubblicistici e perfino scientifici, spesso con la regia occulta dell’industria petrolifera, abbiano per decenni negato il cambiamento climatico, pur in atto e sotto gli occhi di tutti; o ne abbiano messo in dubbio l’origine dalle attività umane. Queste teorie negazioniste, pur screditate, ancora si pongono come alibi per un diffuso atteggiamento scettico o indifferente in fatto di clima.

Negli ultimi anni le “anomalie” climatiche sempre più frequenti (ondate di caldo, siccità e alluvioni, uragani in zone e stagioni insolite, scioglimento dei ghiacci montani e di quelli polari, aumento dei livelli dei mari: in esatta realizzazione, purtroppo, delle antiche previsioni) hanno indotto l’Unione Europea a intraprendere passi concreti in direzione della “decarbonizzazione”; non senza opposizioni da ambienti industriali e politici. Tuttavia, l’obiettivo di un aumento delle temperature medie terrestri di soli 1,5°C entro il 2050 appare ormai poco realistico, e si temono scenari ben peggiori per quel che riguarda il futuro prossimo della Terra, con gravi e appena immaginabili conseguenze di ordine economico e sociale su scala planetaria. Ciononostante, sorprende constatare come sia tuttora diffusa, e forse maggioritaria in Italia, una visione antropocentrica, miope e irresponsabile dello sviluppo senza condizioni (la celebre “crescita”), che ispira e giustifica l’incessante consumo del territorio per nuove strade, capannoni logistici, enormi reti sciistiche e piste da bob, magari con qualche pubblica pennellata di greenwashing. Un complesso di azioni, omissioni e fissazioni che ricorda quello che lo storico James Clarke, riferendosi alle origini della prima guerra mondiale, definiva “la marcia dei sonnambuli”.

Quali fonti rinnovabili di energia.
Se dunque è evidente e incontestabile che occorre agire subito per diminuire e infine annullare la dipendenza dai combustibili fossili, causa principale delle emissioni di GHG (non unica, si noti: oltre al CO2 ci sono altri gas preoccupanti, in particolare il metano meno abbondante del CO2 ma 20 volte più attivo come “gas serra”), si tratta di puntare con decisione sulla produzione di energia da fonti non carboniose. Vediamo la situazione.
Nel mondo, oltre l’80% dell’energia complessivamente prodotta deriva dalla combustione di fonti fossili, suddivise tra petrolio e suoi derivati, carbone e gas; la parte restante riguarda principalmente nucleare e “biomasse” e, in minor misura (poco più del 2%) l’energia derivante da fonti rinnovabili, solare ed eolico in particolare. In Italia le cose non si discostano molto dalle medie mondiali, se non per una predominanza dell’uso di gas naturale rispetto al petrolio, l’assenza del nucleare (solo per una quota di energia importata) e una maggiore produzione da fonti rinnovabili, comprensive anche dell’idroelettrico e del geotermico. Ma la richiesta di energia delle nostre società diviene sempre più pressante, alimentando una rincorsa continua tra nuove esigenze e ricerca di fonti di produzione per soddisfarle, resa più stringente e assillante per la riduzione e l’incertezza degli approvvigionamenti, soprattutto di gas naturale, a seguito della guerra in Ucraina, con il dispiegamento di scenari per il futuro spesso discordanti se non contrapposti.
Ad alimentare l’accaparramento di aree per l’istallazione di nuovi impianti sono anche i generosi incentivi pubblici. I grandi flussi economici, pubblici e privati, connessi alla trasformazione energetica sono stati colti tempestivamente anche dalla malavita organizzata, e molte indagini giudiziarie ancora aperte mettono in evidenza le numerose infiltrazioni illecite che questi settori attraggono.
Ma di quali fonti “alternative” alle fossili si parla? Fra le fonti d’energia non prenderemo in seria considerazione il nucleare, che richiederebbe vent’anni di costruzione di nuove centrali ed è stato comunque bocciato dagli Italiani nei due referendum del 1997 e del 2011. Scelte di questo tipo sarebbero già ora in controtendenza rispetto a quanto accade nei Paesi che dispongono di centrali nucleari attive, i quali non solo non ne avviano altre, ma al contrario tendono a sostituire questa fonte con le rinnovabili. I fautori di questa opzione peraltro trascurano di rispondere a domande relative al reperimento di uranio, di cui il nostro Paese non dispone, nonché alle modalità e alla localizzazione delle scorie radioattive: conosciamo bene la irrisolta difficoltà di stoccaggio dei rifiuti prodotti nel breve periodo di operatività delle nostre centrali nucleari, tanto per la scarsa idoneità dei siti individuati, quanto per la opposizione delle popolazioni residenti.
Non parleremo nemmeno di “biomasse”, che rappresentano quasi sempre il prodotto dell’abbattimento di boschi e non residui di produzioni agricole. Qui non si tratta, ovviamente, di “economia circolare” ma di distruggere foreste mature per ripiantare giovani piantagioni di incerto avvenire, senza variazione del livello atmosferico di CO2 al netto (nella migliore delle ipotesi), e sempre con effetti catastrofici sulla biodiversità.
Né ci occuperemo di idroelettrico, già sfruttato a oltranza in Italia nel passato e in questi ultimi anni invocato come toccasana dell’agricoltura in crisi d’acqua (“piani di difesa dalla siccità”, con la richiesta di dighe ovunque). Proprio adesso che i fiumi si riducono di portata e i bacini di raccolta spesso non riescono più a svolgere neppure un ruolo di riserva idrica per usi civili. Molti impianti idroelettrici producono ben al di sotto delle proprie potenzialità a causa del riempimento degli invasi con inerti (sabbie e materiali più grossolani) trasportati dagli immissari; a fronte di ciò, le aziende produttrici trovano economicamente più vantaggioso progettare nuovi impianti piuttosto che rendere più efficienti quelli esistenti. Al contempo, una rinnovata sensibilità alle esigenze della natura ci fa riflettere sui danni apportati dai bacini idroelettrici alla biodiversità delle valli e delle loro acque in libero flusso.
Conviene quindi occuparsi soprattutto di eolico e di fotovoltaico, che in linea di principio rappresentano delle opzioni ammissibili ai fini della cosiddetta “transizione energetica”. Va premesso che gli impianti eolici in Italia non sarebbero, in maggioranza, molto redditizi in termini puramente economici. Ciò per varie ragioni, a cominciare dagli alti costi di costruzione, manutenzione e dei materiali, e dalla necessità di ampie strade d’accesso e dei conseguenti sbancamenti (anch’essi con costo ambientale); ma il motivo principale è che non sono molte in Italia le localizzazioni caratterizzate da ventilazione regolare, tale da assicurare un funzionamento prolungato delle pale. Gli impianti nel Nord e Centro Italia si accentrano (o più spesso sono stati proposti senza successo) sui crinali montani, non superiori ai 1200 m per la legge Galasso, mentre nel Sud e nelle Isole sono ampiamente distribuiti in aree collinari. In realtà, la convenienza dell’eolico terrestre e la relativa ricerca di nuove localizzazioni dipendono largamente dagli incentivi di Stato. Ma anche per gli impianti del fotovoltaico la redditività dipende dai sussidi statali, benché i costi d’istallazione mostrino nel tempo una tendenza a ridursi.
Nella disordinata rincorsa a nuove istallazioni, sia di fotovoltaico che di eolico, le localizzazioni, se non attentamente valutate, possono avere costi ambientali insopportabili, con ricadute importanti su aspetti della biodiversità, sul paesaggio, sulla fruizione turistica e sui settori produttivi agricoli: pensiamo solo ai terreni sottratti alla produzione di beni alimentari per far posto ad impianti fotovoltaici. L’esposizione geografica dell’Italia, coniugata all’assenza di una programmazione e pianificazione dei nuovi impianti industriali di energie rinnovabili, ha fatto sì che il nostro Paese diventasse un vero e proprio terreno di conquista, facile da espugnare. Grandi società, spesso con centri direzionali esteri, stanno approfittando del vuoto di una pianificazione rigorosa per proporre impianti di grande potenza in luoghi particolarmente sensibili, come sui crinali appenninici, sui terreni agrari e in altri ambienti fragili che richiederebbero la massima attenzione. Ad alimentare l’accaparramento di aree per l’istallazione di nuovi impianti sono anche i generosi incentivi pubblici. Dai dati pubblicati da ARERA, nel solo 2021 gli oneri a carico dei contribuenti riguardanti il 2020 per le fonti energetiche rinnovabili (FER) sono arrivati a 11,5 miliardi di euro per una quantità di energia incentivata di 62 TWh. La caccia alle nuove aree si concretizza soprattutto al Sud d’Italia e nelle Isole, dove alla maggiore vulnerabilità amministrativa si aggiungono condizioni climatiche più favorevoli. La rincorsa all’accaparramento di terreni sta producendo uno stravolgimento complessivo sia degli ambienti naturali, dei paesaggi agrari e sia del tessuto produttivo consolidati nei secoli. Ci fa piacere che una grande organizzazione agricola, la Coldiretti, abbia assunto una posizione contraria al cosiddetto agrifotovoltaico, affermando in modo deciso la vocazione produttiva dei terreni agricoli, relegando il fotovoltaico alle sole infrastrutture presenti al servizio dell’azienda come stalle, capannoni e simili. La sostituzione massiccia di migliaia di ettari di terreni agricoli apre anche un paradosso, quello di una sovrapproduzione con congestione della rete, soprattutto nel meridione. Il Sud Italia è divenuto il vero centro di produzione, con una capacità ben superiore rispetto ai propri consumi. Al contrario, il Nord Italia, in cui l’esigenza energetica è maggiore, rimane carente di produzione.
Dunque, se la strada dell’energia da fonti rinnovabili allo stato attuale appare ineludibile,ciò che ineludibile non è – né potrà esserlo – è una distribuzione caotica, dovuta all’assenza di una qualsiasi pianificazione sul territorio, ignorando che lo sviluppo si deve coniugare con le esigenze di tutela, adducendo insostenibili giustificazioni teoriche per la soppressione delle cautele necessarie. La proliferazione di impianti in assenza di una programmazione a differente scala territoriale e amministrativa, oltre che un mancato coinvolgimento delle popolazioni sulle scelte e i bisogni energetici nei propri territori, rende il settore particolarmente fragile e vulnerabile.

Considerazioni finali.
Il dibattito in merito alla ricerca e alla rincorsa di nuove fonti di produzione che contempli in tempi rapidi la riduzione delle fonti fossili non rinnovabili coinvolge il mondo politico, tecnico, economico, sviluppandosi anche all’interno dell’associazionismo ambientale. Nel mondo ambientalista le posizioni non coincidenti, in assenza di un dibattito interno tra le Associazioni, forniscono all’opinione pubblica una immagine debole, contrapposta, che certo non aiuta a trovare quelle soluzioni di sintesi che sarebbero necessarie in ragione della complessità e dell’articolazione della materia. Al contrario, le questioni energetiche richiederebbero un dibattito approfondito, senza preconcetti e senza fughe solitarie in avanti, rispettoso di sensibilità e visioni differenti e talora lontane, seppure non necessariamente inconciliabili.
Il parere della Federazione Nazionale Pro Natura sulla riduzione rapida del consumo di combustibili fossili è ben noto ed è stato espresso in molte circostanze: è indispensabile coniugare una rapida discesa dell’uso percentuale delle energie provenienti da fonti fossili con l’adozione di metodi di produzione a basso impatto ambientale, riducendo le emissioni gassose a effetto serra. È paradossale che un aspetto importante sia così trascurato e quasi marginale nell’attuale dibattito: è fondamentale intervenire in profondità sul risparmio energetico, sia durante i processi produttivi da indirizzare a merci a più basso consumo energetico, sia all’interno delle nostre città, nei settori dei trasporti, fino all’educazione al risparmio individuale. Solo per fare un esempio tra i tanti: la moda di istallare piste di pattinaggio all’aperto su ghiaccio, anche dove le temperature sono ben superiori allo zero, impone costi energetici irragionevoli. Questa pratica, ormai diffusa da Nord a Sud, chiama in causa più livelli di responsabilità: autorizzazioni e scelte amministrative, fruizione consapevole da parte dell’utenza, riversandone i costi ambientali sull’intera collettività. Come sono di inaccettabile impatto energetico le proposte di realizzare piste da sci indoor utilizzabili per tutto l’anno, climatizzate per mantenere le piste sciabili indipendentemente dalla temperatura esterna. Follie che si credevano confinate agli Emirati d’Arabia, dove furono realizzate in anni spensierati! Il risparmio energetico rappresenta la fonte principale di energia che dovrebbe essere sottratto dai combustibili fossili, e che andrebbe fortemente incentivato grazie anche all’uso di tecnologie innovative, alla ricerca scientifica, ma anche e soprattutto con scelte individuali e di comportamento responsabili.
Il quadro culturale di riferimento che si può leggere nel sito di ANIE, la Federazione che raccoglie le principali imprese tecnologiche, esprime in sintesi efficace una visione della politica energetica: “Vi è la necessità di coniugare le esigenze della transizione energetica con quelle dell’ambiente, del paesaggio e del territorio, che sono sottoposti a mutamenti continui: come il mare modella le coste, il vento la roccia, i corsi d’acqua il terreno ed il sottosuolo, i terremoti l’orografia del terreno, anche l’agire umano apporta mutamenti, che sono, però, funzionali al benessere di coloro che vi abitano”. Si tratta di una visione antropocentrica semplicistica, che trascura completamente gli effetti negativi sulle aree naturali, gli habitat e le comunità non solo umane che ci vivono, come se l’agire dell’uomo sia imprevedibile e ineluttabile al pari di un evento fisico naturale e finalizzato al suo unico “benessere”. L’Italia, Paese ad elevato valore naturalistico, con il più elevato valore di biodiversità nel bacino del Mediterraneo, non può sottovalutare gli effetti causati da errate istallazioni di impianti di energie rinnovabili.
Al valore della biodiversità si deve aggiungere quello di un paesaggio divenuto identitario delle popolazioni che lo abitano. In Italia, infatti, le questioni sono più complesse rispetto a molti altri Paesi e non possono essere affrontate o accantonate ricorrendo alla motivazione che un paesaggio è il risultato di una costruzione umana in continua trasformazione. Il paesaggio è certamente il risultato di un processo naturale ed antropico, ma ciò che differisce rispetto al passato è la velocità di trasformazione. In passato le modificazioni territoriali si producevano nel corso dei secoli, per la lenta sovrapposizione e trasformazione dell’esistente in un dialogo continuo con il vivere quotidiano delle popolazioni, mentre oggi un luogo può subire una trasformazione radicale in pochi mesi senza alcun legame culturale ed economico con il vissuto delle popolazioni. Da secoli molte località sono state forti attrattori anche turistici, in grado di generare indotti economici per intere comunità. Aree fortemente trasformate, in nome di un supposto valore superiore come quello energetico, verrebbero a perdere questo motivo attrattivo, che alimenta economie basate su paesaggio, storia, natura e produzioni agricole di elevata qualità. Occorre quindi cercare e trovare una terza via, diversa da una completa immobilità o da una caotica liberalizzazione; un percorso che sia in grado di conciliare l’identità dei luoghi, la loro peculiarità ambientale con l’eventuale loro trasformazione.
L’Art. 9 della nostra Carta Costituzionale, già dalla sua prima stesura e approvazione, tutela come valore inalienabile il paesaggio; recentemente lo stesso articolo è stato integrato introducendo beni inalienabili come la biodiversità, gli ecosistemi e gli habitat naturali. E qui appare stridente la contraddizione: è proprio nel momento che vuole e si proclama una maggiore tutela che si concretizzano le insidie più forti, sia al paesaggio che alla conservazione degli habitat.
Nella rincorsa a nuovi impianti vi è anche il rischio che vengano sacrificati non solo paesaggi e ambienti naturali, ma anche quelle istituzioni come le Sovrintendenze, che in questi anni sono state in prima linea a presidio di aree paesaggistiche particolarmente pregevoli. Attacchi e delegittimazione del lavoro delle Sovrintendenze sono giunte anche da parti di Enti e Associazioni che, al contrario, dovrebbero avere a cuore la salvaguardia, l’autorevolezza e la competenza di questo presidio istituzionale.
La loro funzione può essere compromessa anche depotenziandone le capacità operative; gran parte delle Sovrintendenze lamentano, infatti, uno svuotamento di risorse umane tale da porle in grave difficoltà ad assolvere agli impegni istituzionali a cui sono chiamate. La strada verso cui siamo avviati, anche in virtù di una maggiore discrezionalità di gestione prospettata dal disegno di legge sull’autonomia differenziata delle Regioni, potrebbe far venir meno una visione unitaria del paesaggio e dell’ambiente, garantita dallo Stato attraverso le Sovrintendenze.
Regioni, peraltro, largamente inadempienti nella programmazione dei piani paesaggistici regionali richiesti dalla Legge Galasso (1985) e dal Codice dei Beni Culturali (2004): sono poche quelle che hanno approvato questo strumento fondamentale di gestione del territorio. Oggi, per una ordinata transizione ecologica, sarebbe necessario non solo che tutte le Regioni si dotino dei Piani Paesistici, ma che questi vengano coniugati alla transizione ecologica individuando i siti idonei alla installazione di nuovi impianti.
Dunque, come conciliare l’indilazionabile necessità di una riconversione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili costituisce una domanda a cui l’associazionismo ambientale non può esimersi di rispondere. Noi riteniamo che esistano vie alternative, capaci di coniugare alle necessità energetiche “compatibili” la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Nella installazione di impianti eolici vanno valutate e privilegiate le costruzioni marine offshore, che a certe condizioni non presentano gli stessi rischi di quelle a terra. Quanto a queste ultime, secondo dati ISTAT, le aree industriali dismesse rappresentano circa il 3% del territorio nazionale italiano, corrispondente ad una superficie di ben 9 mila chilometri quadrati, superiore alla superficie dell’intera regione Umbria. Queste aree abbandonate, perdute dal punto di vista agricolo, spesso limitrofe alle zone ad elevata urbanizzazione, dovrebbero costituire il vero serbatoio a cui attingere per nuove installazioni di impianti fotovoltaici. Di non minore importanza sono le aree urbane periferiche che potrebbero essere riconvertite in aree energetiche produttive. Risanando e riportando a produttività queste aree, peraltro, si potrebbe anche avviarne una riqualificazione estetica e un loro risanamento ambientale.
Così come vanno considerati gli oltre 7000 chilometri della rete autostradale italiana, le sue aree limitrofe di competenza e le migliaia di ettari di parcheggi collegati.
Non mancano, per concludere, le alternative compatibili a una corsa senza freni alle energie “alternative”, a condizione che nel prossimo futuro si riesca a realizzare una convergenza operosa delle pubbliche amministrazioni, del mondo delle aziende, di quello scientifico e dei cittadini più sensibili ai temi della conservazione di natura e del paesaggio. È solo utopia o vale la pena di provarci?

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