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Trentino: di fronte ai devastanti aspetti della tempesta dell'ottobre 2018

Gianni Marucelli

Dalla fine di ottobre del 2018, quando una furiosa bufera di vento ha investito l'Italia settentrionale, abbattendo intere foreste, non è non è ancora passato nemmeno un anno, ma per molti turisti che visitano le valli dolomitiche sembrano essere trascorsi secoli interi. Si guardano intorno smarriti, osservano le pendici dei monti dove, al posto del manto verde, spiccano ampie chiazze marroni, e si chiedono l'un l'altro: “Ma che è successo a quei boschi?”.
La memoria collettiva è diventata labile, si sa, e per un pubblico neppure ristretto certi eventi catastrofici, che solo per un caso fortunato non hanno provocato vittime umane, si riducono a qualche immagine televisiva, sbiadita nel ricordo.
Quando, poi, il nuovo aspetto dei monti si materializza davanti agli occhi, è uno shock del tutto inaspettato. È capitato anche a me, che pure sono ben informato, ascendendo il Passo di Costalunga e trovandomi di fronte quel che un tempo era il Lago di Carezza e la foresta che lo circonda(va): uno dei luoghi-simbolo delle Dolomiti è totalmente mutato, il lago una pozza nera circondata, e solo da un lato, da qualche filare di abeti miracolosamente rimasti in piedi.
Tutto il resto, assomiglia a una mano del gioco dello Shangai, tanto di moda quando ero bambino. Come i bastoncini colorati, lasciati cadere su un tavolo dalla mano di un ragazzino capriccioso, i tronchi degli abeti rossi, a decine di migliaia, giacciono a terra divelti, alcuni dalle radici, altri spezzati, con i monconi che si levano al cielo come gli arti amputati di un mutilato di guerra.
Lo stesso spettacolo si ripete in Val di Fassa e in Val di Fiemme, e si aggrava trasferendosi nella zona delle Dolomiti bellunesi, nel Cadore, nel Comelico e in tante altre vallate alpine.
La tempesta, che i meteorologi hanno chiamato “Vaia”, ha duramente colpito tutto il Triveneto, e in parte la Lombardia.
Recenti stime, della Federforeste e della Coldiretti, indicano in circa 14 milioni gli alberi abbattuti; i forestali calcolano 8,3 milioni di metri cubi di legname a terra.
Come abbiamo precisato, non è un danno che si può nascondere, né al quale si possa rimediare in qualche anno di duro lavoro. L'aspetto di molte valli è radicalmente cambiato, e tale rimarrà per decenni. Ma non si tratta solo di una catastrofe, per così dire, paesaggistica. I sentieri tanto praticati dai turisti in parte sono andati totalmente perduti, in parte sono chiusi al transito, perché, anche là dove i boschi sono rimasti apparentemente in piedi, molte piante sono a rischio di crollo, oppure ostruiscono il cammino, o ancora interrompono il passaggio dei torrenti.
Per fortuna, le numerosissime funivie portano i camminatori in quota, laddove l'assenza di piante di alto fusto ha lasciato l'ambiente pressoché intatto. Ma è una magra consolazione, soprattutto per le località che hanno subito i danni maggiori.
Il primo problema, la rimozione dei tronchi caduti su vie di comunicazione forestali o in altra posizione tale da pregiudicare le attività antropiche, è in via di risoluzione; il legname accumulato è tanto, ed è in vendita. Ma le leggi del mercato sono inflessibili, quasi quanto quelle di natura: il suo prezzo è diminuito fin quasi a dimezzarsi. Il dilemma ora si pone per tutti gli altri alberi caduti, in gran parte abeti, disseminati sulle pendici, anche assai ripide, e quindi difficilmente raggiungibili. Nel caso non fosse possibile rimuoverli nei prossimi 24 mesi, i parassiti li attaccherebbero rendendo il materiale inservibile.
Qualcuno afferma che le piante con apparato radicale ancora efficiente dovrebbero essere lasciate sul posto, per frenare eventuali smottamenti; per altri “fare pulizia” è necessario per assicurare la ricrescita naturale di nuovi alberi. Comunque, per la gran parte dei casi, si dovrà fare affidamento sulla rigenerazione spontanea del manto forestale, anziché sulle azioni di rimboschimento.
Una cosa è certa: la cospecificità e coetaneità delle piante, quasi tutte abeti rossi, è stata un fattore di debolezza di fronte ad un evento estremo quale la tempesta Vaia. I larici, che possiedono un apparato radicale più esteso e profondo, hanno resistito molto meglio degli abeti.
In questa fase di accelerati cambiamenti climatici, nessuno può assicurare che il disastro non possa ripetersi.
Bisogna armarsi di santa pazienza: per tornare a vedere queste valli quali sono state per decenni, fio a dodici mesi fa, sarà necessario attendere una trentina di anni. Per la percezione umana un tempo lunghissimo, una bazzecola per Madre Natura.

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