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Uomo e cinghiale, un rapporto difficile

Domenico Fulgione
Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Napoli Federico II

Questa storia inizia un milione di anni fa, quando per il Paleartico gironzolavano diverse forme di cinghiale. Il nostro Sus scrofa invadeva l’occidente, un suo parente stretto, Sus strozzi, che già frequentava la zona, si sarebbe speciato in Sus celebensis (poi finito a Solowesi), e Sus verrucosus, che segregò a Giava.
In quel periodo, noi sapiens non eravamo ancora usciti dall’Africa, comunque nostri lontani parenti già cacciavano e consumavano grossi mammiferi. Homo erectus non aveva particolare interesse per questi suidi, ritrovati solo per l’1% nei resti di questo abile cacciatore.
Homo erectus pare fosse molto attratto dai mammut, strano a pensare, ma probabilmente avevano carni più saporite e e riempivano più dispense.

Con l’avvento del Neanderthal le cose cambiano di poco: i resti di cinghiale nei ritrovamenti di questo ominide si aggirano intorno al 9%. Si deve andare a 120 mila anni fa per osservare la prima ondata di sapiens in Europa, questi amano utilizzare le mandibole dei cinghiali nelle cerimonie sacre (ritrovate nei pressi dell’attuale Turchia). Sebbene sembra ancora non piaccia particolarmente, la percentuale di ossa di cinghiale negli insediamenti oscilla tra 1 e 5 %.

Sapiens, lo sappiamo, è di bocca buona, ma neanche lui sembra volersi cimentare con quelle dure e pericolose bestiacce. La carne doveva essere legnosa e poco saporita, rispetto a quella degli attuali animali, forse come quella dei facoceri, suini africani praticamente immangiabili, se si fa eccezione per giovani e femmine, che sono utilizzati in Polonia per una specie di salsiccia impastata con grasso di maiale, il kabanosi. Oltre a non essere apprezzati come pasto, probabilmente erano prede poco accessibili. Molto difficili da catturare, anche oggi i cacciatori sanno che devono assestare bene il colpo, perché in molti casi la pallottola è fermata dalla spessa corazza costituita di pelo e fango. E che un animale ferito è meglio evitarlo. Non possiamo escludere nemmeno fossero animali  feroci, se si considera che un eroe come Ulisse, se poteva vantarsi di una ferita significativa, era quella inferta da un cinghiale.

Con il periodo neolitico le cose cambiano rispetto a quello dei cacciatori-raccoglitori. Sboccia l’amore, cinghiali resi mansueti vengono domesticati in maiali, che abitano in pianta stabile villaggi e seguono carovane migranti.
A differenza di capre, mucche e pecore, i cinghiali non sono ruminanti, che trasformano la produttività primaria, i vegetali, in carne, pelliccia e latte. I maiali incarnano un ruolo nuovo e insostituibile. Loro sono quelli che trasformano in carne e pellame la spazzatura, gli scarti alimentari che si accumulavano ai bordi dei villaggi. Un sorta di primo riciclaggio della frazione umida.

Passano i millenni e la pratica di domesticare il cinghiale in gustosissimo maiale viene esportata per il Mediterraneo ed oltre. I maiali sono molto prolifici, arrivano a sfornare 12 cuccioli, in diversi periodi dell’anno. Così serve all’uomo. I cinghiali continuano ad ibridarsi con i maiali, trascinando alcuni tratti domestici nelle popolazioni selvatiche, la prolificità per esempio.

Con questa sorta di accettazione della bestia che non era mai piaciuta, il cinghiale inizia pian piano a rientrare nel carniere delle varie popolazioni del Mediterraneo. La caccia al cinghiale diventa divertente, e lo resterà per parecchio tempo. A questo punto si aggiunge una nuova e potente variabile: la transfaunazione. Popolazioni di cinghiale vengono spostate nel mondo perché possano essere cacciate. Inizia una sorta di rimescolamento che spariglia il pattern di variazione che si era definito a seguito di eventi evolutivi graduali, a seguito delle glaciazioni e altri fenomeni globali. Cinghiali balcanici compaiono nel rifugio italiano o in quello iberico, forme asiatiche iniziano a popolare le isole del Mediterraneo, e altri disastri di questo tipo in onore della dea Diana.

Di solito le popolazioni “spostate” non sempre trovano le condizioni ideali per insediarsi e crescere. Ma i cinghiali sono animali adattabili, potremmo dire addirittura pre-adattati. Si! Hanno una marcia in più. Per esempio, i piccoli sviluppano i recettori olfattivi già al cinquantesimo giorno di gestazione, quasi a metà dello sviluppo, per altri mammiferi bisogna aspettare le fasi finali che precedono la nascita . Attraverso il liquido amniotico, i futuri cinghiali percepiscono le varie sortite ambientali della madre, i cibi che assaggia, gli odori della natura. Quando, poi, questi ben istruiti cinghialotti verranno alla luce, avranno già un’idea di come è il mondo che li aspetta. Potranno così facilmente colonizzare nuovi territori.

Ma facciamo un po’ d’ordine, popolazioni pre-adattate, prolifiche per vari eventi di ibridazione con la forma domestica, rimescolate tra le varie forme paleartiche: tutto questo in un paesaggio che periodicamente cambia e a volte a loro favore. Infatti, in diversi periodi storici hanno ricevuto un altro importante assist dalla nostra specie, l’abbandono delle aree interne. Oggi, come durante il Medioevo, le grandi metropoli, come la struttura concentrata delle Città-Stato e dei Comuni fortificati, ha lasciato spazio all’avanzare del bosco e della foresta. Solo in Italia, dagli anni 50, le foreste sono aumentate di oltre il  70%. L’uniformarsi del paesaggio, unitamente alla persecuzione del principale predatore del cinghiale, il lupo, ha dato un impulso straordinario alle popolazioni di questo suide, che stanno vivendo un picco demografico, probabilmente senza precedenti.

Il lupo adesso pian pano si sta riprendendo, ma la sua preda ora è difficile da controllare, o forse no. Comunque, la natura è ciclica e vive di alti è bassi. Riconoscerli, anticiparli, significa avere la possibilità di gestire adeguatamente il patrimonio che lasceremo alle future generazioni.

L’attualità ci racconta di cinghiali che entrano nei supermercati, di cinghiali che strappano la busta della spesa alle signore per strada e di popolazioni estese senza limiti che escono dai boschi. Non c’è dubbio che sia una specie problematica nelle dimensioni attuali, non a caso si applicano sistemi di controllo anche nelle aree Parco. Sono diverse le aree protette italiane ed europee che hanno autorizzato un prelievo selettivo per “controllare” la popolazione di ungulati e decrementare i danni alle colture agricole. In alcuni fantasiosi casi si tentano catture o si sperimentano tecniche di sterilizzazione. Non pensando che le azioni gestionali devono fare i conti con l’impatto sui sistemi naturali nel loro insieme e che la normativa attuale sul benessere animale impone delle azioni sugli animali vivi che rendono impraticabili queste iniziative. Purtroppo l’emergenza cinghiale è anche foriera di strumentalizzazioni politiche, che tendono a spostare il consenso dagli attuali gestori verso nuove classi dirigenti. Manca una politica coordinata alla scala in cui esiste il problema, le varie iniziative sono spot che non cambiano l’equilibrio, sia in termini ecologici che relativamente alla dimensione umana, elemento tutt’altro che trascurabile, elemento su cui sarebbe necessario lavorare. L’insofferenza delle popolazioni umane verso la fauna selvatica è figlia di una cattiva educazione e informazione sulle funzioni ecosistemiche e le implicazioni etiche. Purtroppo siamo ancora immersi in una concezione uomo contrapposto al selvatico, il nostro e il loro territorio, il “diritto” di camminare per boschi senza adottare le precauzioni dovute. Probabilmente, è necessario lavorare su due fronti, da una parte cambiare, almeno nelle generazioni future, questo cattivo rapporto con la fauna selvatica, accrescendo la cultura, la divulgazione e il coinvolgimento nei progetti di conservazione dei giovani e delle popolazioni locali in genere. Dall’altra, devono essere individuati i motori ecologici, etologici ed evolutivi che hanno condotto a questa particolare condizione emergenziale, per definire le azioni utili a mitigare l’impatto. Consapevoli che conoscendo i fenomeni è anche possibile prevederne l’evoluzione a breve e lungo termine. Perché la natura è ciclica, secondo una periodicità che non è quella dei nostri tempi: a volte basta solo aspettare.

Alcune letture a cui fa riferimento il testo:

Fulgione, D.; Buglione, M. The Boar War: Five Hot Factors Unleashing Boar Expansion and Related Emergency. Land 2022, 11, 887.

Fulgione, D.; Rippa, D.; Buglione, M.; Trapanese, M.; Petrelli, S.; Maselli, V. Unexpected but welcome. Artificially selected traits may increase fitness in wild boar. Evol. Appl. 2016, 9, 769–776.

Maselli, V.; Rippa, D.; Deluca, A.; Larson, G.; Wilkens, B.; Linderholm, A.; Masseti, M.; Fulgione, D. Southern Italian wild boar population, hotspot of genetic diversity. Hystrix Ital. J. Mammal. 2016, 27, 137–144.

Maselli, V.; Polese, G.; Larson, G.; Raia, P.; Forte, N.; Rippa, D.; Ligrone, R.; Vicidomini, R.; Fulgione, D. A Dysfunctional Sense of Smell: The Irreversibility of Olfactory Evolution in Free-Living Pigs. Evol. Biol. 2014, 41, 229–239.

Fulgione, D.; Trapanese, M.; Buglione, M.; Rippa, D.; Polese, G.; Maresca, V.; Maselli, V. Pre-birth sense of smell in the wild boar: The ontogeny of the olfactory mucosa. Zoology 2017, 123, 11–15.

Buglione, M.; Troisi, S.R.; Petrelli, S.; van Vugt, M.; Notomista, T.; Troiano, C.; Bellomo, A.; Maselli, V.; Gregorio, R.; Fulgione, D. The First Report on the Ecology and Distribution of the Wolf Population in Cilento, Vallo di Diano and Alburni National Park. Biol. Bull. 2020, 47, 640–654.

Frantz, L.A.F.; Haile, J.; Lin, A.T.; Scheu, A.; Geörg, C.; Benecke, N.; Alexander, M.; Linderholm, A.; Mullin, V.E.; Daly, K.G.; et al. Ancient pigs reveal a near-complete genomic turnover following their introduction to Europe. Proc. Natl. Acad. Sci. USA 2019, 116, 17231–17238.

Lega, C.; Raia, P.; Rook, L.; Fulgione, D. Size matters: A comparative analysis of pig domestication. Holocene 2016, 26, 327–332.

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