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Tom delle Montange

Tom Ballard, il giovane scalatore morto sul Nanga Parbat, era di casa in Val di Fassa

Gianni Marucelli

È rimasto lassù, a quota 5900 metri, appena sotto lo Sperone Mummery del Nanga Parbat, la montagna del Destino, come molti la chiamano, insieme al suo compagno di arrampicata Daniele Nardi, in un momento qualsiasi del 25 febbraio scorso, giorno in cui si sono perduti i contatti radio col campo base.
Per un paio di settimane il mondo dell'alpinismo è rimasto col fiato sospeso, anche se le speranze
di ritrovare vivi i due non erano più consistenti di un fiocco di neve in primavera.
Alla fine, è stato possibile avvistare con un potente strumento i due corpi affioranti dalla neve.
Daniele Nardi, esperto alpinista, e Tom Ballard, giovane ma già noto per le sue imprese, avevano deciso di sfidare la Montagna Nuda, o Montagna del Destino, nella sua via più estrema, e in inverno. Lo Sperone Mummery, che porta il nome di un antico scalatore himalaiano, Albert Frederick Mummery, primo esploratore e prima vittima del Nanga Parbat, nel 1895, costituisce una via di ascesa alla vetta (8125 metri) non tecnicamente difficile, ma pericolosissima, mai percorsa con successo. Il perché è presto detto: sopra di esso, a circa 7000 metri, vi è una zona di seracchi e un plateau di ghiaccio, da cui possono staccarsi ad ogni momento devastanti slavine. Il tempo atmosferico, poi, cambia continuamente, come è proprio di queste altitudini, ed è difficile trovare una finestra temporale adeguata per dare l'assalto alla cima.
Logico, quindi, che lo Sperone Mummery costituisca un'irresistibile attrazione per gli alpinisti affascinati dalle sfide estreme: Daniele Nardi ci aveva già provato quattro volte, a violarlo, e per quattro volte era stato respinto.
Il lettore, però, a questo punto si chiederà come mai sto raccontando questa vicenda, recente e tragica, che ha trovato già grande spazio sui media di tutto il mondo.
Anche io, come tutti gli appassionati di montagna, sono rimasto colpito, nel marzo scorso, dalla scomparsa di Nardi e del suo giovane compagno scozzese, ma mi ero quasi dimenticato di loro quando, ai primi di luglio scorso, in Val di Fassa, mi sono imbattuto nella locandina di una manifestazione, la proiezione di un docufilm intitolato “Tom” e dedicato a Tom Ballard.
Il lampo di una domanda mi ha attraversato la mente: perché proprio qui, in una delle più note valli dolomitiche? La risposta l'ho avuta quella sera stessa, nella sala del Consiglio Comunale di Pozza di Fassa, ampia e affollata all'inverosimile. Quasi inverosimile è anche la storia di Tom, e troppo bella, nella sua purezza e nel suo amore per la montagna e la natura, perché io mi esima dal raccontarla.
Innanzi tutto: Tom passava buona parte dell'anno, col padre Jim, in due tende e un furgone, in uno dei campeggi ai margini del paese. Anche in pieno inverno. Il luogo era contrassegnato da una serie di tipiche bandierine tibetane, appese tra una tenda e l'altra, facilmente visibili dall'esterno. Allora mi sono ricordato: qualche anno fa le avevo notate e mi ero chiesto il motivo della loro presenza, ma non avevo approfondito, ed ora me ne pento.
I due vivevano poveramente, con la risorsa costituita dalla pensione di mille euro al mese di Jim, e si spostavano da anni, da una catena montuosa all'altra dell'Europa, per consentire a Tom, free climber e poi arrampicatore con tecnica “classica”, di scalare. Non potevano permettersi attrezzature costose: i chiodi da parete li forgia Jim utilizzando metalli riciclati, giacche a vento e altri indumenti, per lo più usati, vengono loro regalati da amici e conoscenti. Tom gira per le strade del paese in bicicletta, coi sacchetti per la spesa. Più per motivi economici che per scelta etica, non mangiano carne; sul loro fornellino da campo però bolle la pentola dell'acqua per la pastasciutta non meno che il pentolino per il tè. E Tom, in qualsiasi stagione, arrampica le più difficili pareti dolomitiche, preferibilmente in solitaria. Non ama la compagnia di altri scalatori, lo distrae dal suo rapporto viscerale con la montagna. Pochi anni fa, nonostante il suo carattere piuttosto chiuso e taciturno, Tom si fidanza con Stefania, una ragazza italiana, figlia, (ma poteva essere altrimenti?) di uno scalatore e anche lei arrampicatrice. Questo legame rafforza il suo rapporto con le nostre Alpi, che, in qualche modo, divengono “casa”, anche se questa, in senso proprio, è stata venduta, in patria, nel 2009, quando padre e figlio hanno deciso di vivere “l'avventura”, per adempiere anche un'antica promessa. Sì, una promessa fatta tra coniugi, negli anni '80. Perché Tom ha – aveva – anche una madre. E che madre: Allison Hargreaves, la regina delle scalatrici, che, incinta di sei mesi, lo aveva portato nel suo ventre a scalare la parete nord dell'Eiger, anche per sfidare i tabù antifemministi.
“Sono incinta, non sono mica malata!”, si narra dicesse ai giornalisti.
Tom Ballard, e più tardi la sorellina Kate, insieme a papà, accompagnano spesso la mamma nei campi-base, non più sulle Alpi, ma sull'Himalaya. Jim ed Allison, entrambi anticonformisti, si sono fatti dunque la seguente promessa: “Qualsiasi cosa accada, all'uno o all'altra, i nostri ragazzi dovranno avere una vita avventurosa!” Quando Tom ha appena sette anni, viene per il padre il momento di restar fedele alla parola data: Allison viene spazzata via dalla bufera, coi suoi compagni, mentre sta scendendo il K2, dopo aver conquistato l'Everest e tante altre vette.
Il DNA di Allison resta però nel sangue dei figli. I ragazzi continuano a girare il mondo col padre, e ambedue iniziano ad arrampicare. Tom sa perfettamente che il suo avvenire non potrà essere che la montagna. Con essa vive un rapporto simbiotico, intenso. Si sente veramente bene solo se è in parete, a risolvere come un'equazione difficoltà alpinistiche che a un altro sembrerebbero insormontabili.
Non gli importano la fama, la ricchezza. Nemmeno quando il suo nome comincerà ad essere noto nel giro, si intratterrà volentieri ai giornalisti. Infine, si sente pronto per un'impresa che nessuno ha mai compiuto: scalare in solitaria, durante i tre mesi invernali, esattamente tra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera, le sei pareti nord più ardue e famose dell'arco alpino. Comincia il 21 dicembre 2014 con la parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Per una serie di circostanze, senza nemmeno essersi portato dietro una torcia elettrica e un piumino adeguato, raggiunge la vetta ma non riesce a scendere prima di notte. La passa su una cengia, a rischio di congelamento. All'alba, Kate, Stefania la fidanzata e il padre lo vedono tornare e chiedere solo la solita tazza di tè. A seguirlo, finalmente, c'è anche un fotografo. L'impresa, e quelle che seguiranno, sono documentate da lui e da Tom stesso, e i filmati costituiranno il bellissimo docufilm che sto guardando in questa serata afosa di luglio, mentre ciò che resta di questo ragazzo di 31 anni giace sotto la neve del Monte del Destino.
Ma bisogna che elenchi le altre pareti di questa eccezionale impresa invernale: il Cervino, l'Eiger, naturalmente, il Piz Badile, le Grandes Jorasses, il Petit Dru.
Il 21 marzo 2015 l'impresa è finita, Tom Ballard è ormai nell'olimpo degli scalatori. Il documentario ci mostra un breve colloquio, avvenuto subito dopo, tra Tom e Reinhold Messner: “Allora, vuoi diventare uno scalatore professionista?”, chiede il grande alpinista a Tom. “Credo di sì”, risponde semplicemente il giovane.
Nel 2017, Tom accetta l'offerta di Daniele Nardi di andare con lui in Pakistan, viaggio che è un preludio al tentativo dell'anno dopo, sul Nanga Parbat.
C'è commozione, alla fine della proiezione, ed un lungo, lunghissimo applauso. Vicino a me, gli occhi velati di lacrime, è seduta Kate Ballard. La sua vita è ora in Sud Africa, è volata qui per questa cerimonia. La brava giornalista che conduce la serata la invita sul palco, le avvicina il microfono alla bocca. Kate dimostra veramente meno della sua età (25 anni), sembra un'adolescente.
Per un lungo minuto non riesce a pronunciar parola, poi mormora una frase in inglese.
La conduttrice traduce: “Fate come Tom. Vogliate bene alla montagna!”
E così sia.

Trentino: di fronte ai devastanti aspetti della tempesta dell'ottobre 2018

Gianni Marucelli

Dalla fine di ottobre del 2018, quando una furiosa bufera di vento ha investito l'Italia settentrionale, abbattendo intere foreste, non è non è ancora passato nemmeno un anno, ma per molti turisti che visitano le valli dolomitiche sembrano essere trascorsi secoli interi. Si guardano intorno smarriti, osservano le pendici dei monti dove, al posto del manto verde, spiccano ampie chiazze marroni, e si chiedono l'un l'altro: “Ma che è successo a quei boschi?”.
La memoria collettiva è diventata labile, si sa, e per un pubblico neppure ristretto certi eventi catastrofici, che solo per un caso fortunato non hanno provocato vittime umane, si riducono a qualche immagine televisiva, sbiadita nel ricordo.
Quando, poi, il nuovo aspetto dei monti si materializza davanti agli occhi, è uno shock del tutto inaspettato. È capitato anche a me, che pure sono ben informato, ascendendo il Passo di Costalunga e trovandomi di fronte quel che un tempo era il Lago di Carezza e la foresta che lo circonda(va): uno dei luoghi-simbolo delle Dolomiti è totalmente mutato, il lago una pozza nera circondata, e solo da un lato, da qualche filare di abeti miracolosamente rimasti in piedi.
Tutto il resto, assomiglia a una mano del gioco dello Shangai, tanto di moda quando ero bambino. Come i bastoncini colorati, lasciati cadere su un tavolo dalla mano di un ragazzino capriccioso, i tronchi degli abeti rossi, a decine di migliaia, giacciono a terra divelti, alcuni dalle radici, altri spezzati, con i monconi che si levano al cielo come gli arti amputati di un mutilato di guerra.
Lo stesso spettacolo si ripete in Val di Fassa e in Val di Fiemme, e si aggrava trasferendosi nella zona delle Dolomiti bellunesi, nel Cadore, nel Comelico e in tante altre vallate alpine.
La tempesta, che i meteorologi hanno chiamato “Vaia”, ha duramente colpito tutto il Triveneto, e in parte la Lombardia.
Recenti stime, della Federforeste e della Coldiretti, indicano in circa 14 milioni gli alberi abbattuti; i forestali calcolano 8,3 milioni di metri cubi di legname a terra.
Come abbiamo precisato, non è un danno che si può nascondere, né al quale si possa rimediare in qualche anno di duro lavoro. L'aspetto di molte valli è radicalmente cambiato, e tale rimarrà per decenni. Ma non si tratta solo di una catastrofe, per così dire, paesaggistica. I sentieri tanto praticati dai turisti in parte sono andati totalmente perduti, in parte sono chiusi al transito, perché, anche là dove i boschi sono rimasti apparentemente in piedi, molte piante sono a rischio di crollo, oppure ostruiscono il cammino, o ancora interrompono il passaggio dei torrenti.
Per fortuna, le numerosissime funivie portano i camminatori in quota, laddove l'assenza di piante di alto fusto ha lasciato l'ambiente pressoché intatto. Ma è una magra consolazione, soprattutto per le località che hanno subito i danni maggiori.
Il primo problema, la rimozione dei tronchi caduti su vie di comunicazione forestali o in altra posizione tale da pregiudicare le attività antropiche, è in via di risoluzione; il legname accumulato è tanto, ed è in vendita. Ma le leggi del mercato sono inflessibili, quasi quanto quelle di natura: il suo prezzo è diminuito fin quasi a dimezzarsi. Il dilemma ora si pone per tutti gli altri alberi caduti, in gran parte abeti, disseminati sulle pendici, anche assai ripide, e quindi difficilmente raggiungibili. Nel caso non fosse possibile rimuoverli nei prossimi 24 mesi, i parassiti li attaccherebbero rendendo il materiale inservibile.
Qualcuno afferma che le piante con apparato radicale ancora efficiente dovrebbero essere lasciate sul posto, per frenare eventuali smottamenti; per altri “fare pulizia” è necessario per assicurare la ricrescita naturale di nuovi alberi. Comunque, per la gran parte dei casi, si dovrà fare affidamento sulla rigenerazione spontanea del manto forestale, anziché sulle azioni di rimboschimento.
Una cosa è certa: la cospecificità e coetaneità delle piante, quasi tutte abeti rossi, è stata un fattore di debolezza di fronte ad un evento estremo quale la tempesta Vaia. I larici, che possiedono un apparato radicale più esteso e profondo, hanno resistito molto meglio degli abeti.
In questa fase di accelerati cambiamenti climatici, nessuno può assicurare che il disastro non possa ripetersi.
Bisogna armarsi di santa pazienza: per tornare a vedere queste valli quali sono state per decenni, fio a dodici mesi fa, sarà necessario attendere una trentina di anni. Per la percezione umana un tempo lunghissimo, una bazzecola per Madre Natura.

Giorgio Nebbia: l’eredità dell’impegno e della speranza

Valter Giuliano

Si è spento a Roma lo scorso 4 luglio Giorgio Nebbia, ecologista, scienziato, divulgatore, già docente di merceologia all’Università di Bari (1959 – 1995).
Nato a Bologna nel 1926, fu parlamentare della Sinistra indipendente alla Camera (1983-1987) e al Senato (1987-1992). Ma anche Consigliere comunale a Massa Carrara al tempo del caso Farmoplant. Il suo impegno in campo ambientale lo vide, agli inizi, in prima linea contro le frodi alimentari, per la tutela dell’acqua e nella ricerca nel campo delle energie rinnovabili.
«All’inizio della carriera universitaria mi occupavo dei problemi dell’acqua e dell’energia. Il professor Ciusa mi incoraggiò a sperimentare dei distillatori solari, poi passai allo studio dei processi di dissalazione, ai problemi e alla difesa dell’acqua – bene economico scarso – dagli inquinamenti. Nel 1965 avevo dedicato una parte del corso di merceologia proprio a questi temi: acqua come “prodotto”, come merce e come servizio; su quei temi scrissi, nel 1965, un piccolo saggio, con una parte storica, poi ampliato in una nuova edizione apparsa nel 1969».
In seguito lo ritroviamo militante antinucleare dalla Puglia a Montaldo di Castro; sull’argomento fece parte della Commissione sulla sicurezza nucleare in cui, con altri due membri,votò contro la relazione conclusiva proponendone una di minoranza - che criticava la sicurezza delle attività nucleari e ne denunciava i rischi - poi presentata alla Conferenza nazionale di Venezia del gennaio 1980.
Tra gli altri impegni, la battaglia per la rinascita della Valle Bormida contro l’Acna di Cengio e per il referendum contro la caccia e i pesticidi del 1978.
Preziosa e singolare la sua analisi dei problemi ambientali, che iniziava sempre dalla personale specializzazione, i cicli produttivi, ognuno dei quali inevitabilmente produce scarti.
Per questo era scettico non solo sull’abuso del termine ecosostenibile, ma anche nei confronti della cosiddetta “economia circolare” e dell’ultima moda arrivata, la “decrescita felice”.
Sottolineò che il sistema tende ad adattarsi e «l’attenzione per l’ecologia declinò presto a nuovi aggettivi, più accattivanti; comparvero termini come “verde”, “sostenibile” e, più recentemente “biologico”, da associare al nome di prodotti commerciali che un venditore vuole dimostrare “buoni”».
Lamentò, per contro, come in tutti questi fermenti ci fosse poca attenzione al fatto che non si tratta di capricci, ma di necessità, legate ai fenomeni della vita e all’esistenza dei limiti fisici del pianeta Terra. E suggeriva a opinionisti e governanti qualche buona lettura di biologia ed ecologia per capire come soddisfare bisogni umani vitali, senza sfidare le leggi che la natura impone e che non possono essere violate.
«Le cause della crisi ambientale – inquinamenti e impoverimento delle riserve di risorse naturali – vanno cercate nella produzione di merci sbagliate con processi sbagliati. Ciò significa che ciascun ciclo merceologico lascia la natura impoverita e genera scorie solo in parte riutilizzabili. Rileggendo con un briciolo di attenzione il libro I limiti alla crescita del Club di Roma, del 1972, non si fa fatica a riconoscere che le equazioni di crescita e declino (di popolazione mondiale, produzione agricola e industriale, inquinamento) basate sulla “analisi dei sistemi” di Forrester, non sono altro che rielaborazioni dei principi che risalgono alla metà degli anni trenta del Novecento».
Nei primi anni Settanta, periodo che definì “La primavera dell’ecologia”, «fui invitato da Civiltà Cattolica a partecipare alla preparazione dell’intervento della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, che si tenne a Stoccolma nel giugno 1972. Partecipai all’assise internazionale in rappresentanza della Santa Sede come membro laico».
Le sue esperienze, le sue idee i suoi progetti li condivise sempre grazie alla sua attività di divulgatore, collaborando prima alla pagina “Scienza e tecnica” del quotidiano Il Giorno, poi sulla Gazzetta del Mezzogiorno oltre che su diverse altre testate periodiche.
L’impegno si manifestò altresì con la militanza nel WWF, in Italia Nostra e anche nel direttivo della Federazione nazionale Pro Natura (1991-1995) e nel suo Comitato scientifico, dopo aver scritto sulle pagine di questa testata a partire dal periodo della direzione Dario Paccino.
Sul Bollettino di Italia Nostra (n.136/137) pubblicò, nel 1976, lo stimolante saggio Alla ricerca di una società neotecnica.
Il suo affetto verso il movimento ambientalista è ben testimoniato da un altro capitolo della sua ricerca, quello dedicato alla storia di tutti i soggetti nazionali, dalle grandi associazioni ai gruppi impegnati localmente su singole battaglie a difesa dell’ambiente, del paesaggio, dei centri storici, della salute. Ancora oggi gli debbo gratitudine per aver firmato la bella introduzione con la quale accolse con entusiasmo il volume La prima isola dell’arcipelago, in cui ricostruii la storia della Pro Natura.
La sua attenzione agli archivi ambientalisti, a cominciare da quello suo e della moglie Gabriella che lo ha sempre supportato nel lavoro (la ricordiamo traduttrice, nel 1972 del saggio La morte ecologica) ha trovato efficace risposta nella “Fondazione Luigi Micheletti. Centro di ricerca sull’età contenporanea”, di Brescia, che pubblica online l’interessante rivista Altronovecento: Ambiente Tecnica Società, nata proprio su impulso di Giorgio.
Questi, in sintesi, i tratti di una vita di grande impegno, di un amico che è stato un Maestro, una Guida, per tutti coloro che hanno creduto dovere morale spendersi per cercare di fermare la corsa suicida del genere umano verso la distruzione.
Comunanza di pensiero, condivisione di valori, obiettivi, interessi, hanno contrassegnato la nostra conoscenza. Cementata dalla passione politica.
Ci sarebbe oggi - senza l’impegno di Giorgio Nebbia e di tutti coloro che, cogliendone l’insegnamento, hanno deciso di impegnarsi nelle tante battaglie a difesa del territorio, per le aree protette, per la salute in fabbrica - un movimento come quello di Greta che sta mobilitando tanti giovani nella difesa del loro futuro?
Se oggi continua la battaglia per la riconciliazione tra Uomo e Natura e resta un filo di speranza perché non sia persa, forse un po’ lo si deve a chi, come Giorgio e la “generazione di Giorgio” dagli anni Sessanta è impegnato nell’impresa di convincere la società e la politica che alcune decisioni non sono a favore degli ambientalisti, ma dell’intera collettività.
L’impegno che profondiamo ogni giorno a favore dell’ambiente non è a vantaggio (dovrei usare la parola profitto?) nostro. Ci impegniamo e ci battiamo per il futuro comune e, soprattutto, di coloro che saranno dopo di noi.
Di questo Giorgio era ben cosciente.
Spiace che si resti in pochi a saper guardare lontano.
La presunzione arrogante delle specie umana viaggia, veloce, verso il capolinea.
Così facendo nessuno si potrà salvare.
E subiremo il destino che la nostra indifferenza ha scelto.
Il sostanziale disinteresse internazionale nei confronti del dramma ambientale, segnalato ormai con insistenza dalla spia rossa dei cambiamenti climatici, sta segnando il destino dell’Umanità e delle prossime generazioni.
A cominciare da quella di Greta, icona mediatica utilizzata e già, in parte, forse archiviata.
Perché seguire le sue indicazioni significherebbe sconvolgere il nostro sistema che camaleonticamente finge di adattarsi ridefinendo ogni azione come “ecosostenibile”.
La sostanza che emerge del suo condiviso pensiero è che per affrontare la crisi ambientale non sono più sufficienti piccoli correttivi.
L’esigenza è di un autentico radicale cambiamento che deve coinvolgere l’impianto generale su cui si regge la società degli umani.
Un totale cambio di orizzonte che sconvolge desideri, aspirazioni, ambizioni, prospettive.
Una rivoluzione antropologica in cui i valori materiali regrediscono per lasciare spazio a quelli della convivialità e del benessere non come ricorso a strutture e strumenti artificiali ma dello stare bene, in sintonia e in equilibrio tra psiche e corpo, tra se stessi e gli altri.
Giorgio non ha mai smesso di credere che questa prospettiva facesse parte del possibile, fino all’ultimo.
Il tributo migliore che gli possiamo fare è continuare a crederci.
Fino all’ultimo.

Note
1. Le citazioni sono tratte dal libro-intervista Non superare la soglia (Edizioni Gruppo Abele, 2016)
2. Per approfondire il pensiero di Giorgio Nebbia suggerisco di consultare: http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia

Consumi di pesce

Riccardo Graziano

Mangiare pesce fa bene. Ce lo dicevano sempre le nostre mamme. E medici e nutrizionisti lo confermano: è buona norma inserirlo nella dieta settimanalmente, anche più volte, per beneficiare dell’apporto di grassi polinsaturi e proteine nobili. Ma occorre prestare attenzione ad alcuni accorgimenti. Tutti sanno che il pesce deve essere fresco, ma non tutti sanno che anche i prodotti ittici hanno una loro stagionalità, come la frutta e la verdura, cosa della quale sarebbe bene tenere conto, per rispettare il mare e i suoi cicli biologici naturali. È consigliabile anche scegliere specie a ciclo vitale breve, perché tendenzialmente contengono meno contaminanti e metalli pesanti rispetto a quelle più longeve, che restano esposte agli agenti  inquinanti per più tempo. Discorso analogo per le specie ai vertici della catena alimentare, nelle quali possono accumularsi le sostanze nocive contenute nelle loro prede.

Queste sarebbero le norme da tenere a mente per tutelare la nostra salute e lo stesso ecosistema marino, ma le statistiche relative ai consumi disegnano una realtà differente. Lo rende noto una ricerca di Ismea presentata in occasione di Slow Fish, la manifestazione dedicata alle risorse ittiche organizzata da Slow Food. Secondo i dati presentati, nel 2018 il mercato ha subito una flessione del 2% rispetto all’anno precedente. Questo perché il pesce è tra i prodotti alimentari che risentono maggiormente delle oscillazioni del potere d’acquisto delle famiglie. Tuttavia, alcuni indicatori in controtendenza mettono in rilievo dei cambiamenti nelle scelte dei consumatori, come nel caso del salmone, specie di importazione fino a poco tempo fa considerata un genere di lusso che oggi invece è molto presente sulle nostre tavole, sia come prodotto fresco, sia inscatolato.
Anche la praticità di utilizzo detta le scelte dei consumatori che, oltre alle conserve alimentari, privilegiano i surgelati, in particolare filetti e bastoncini, rispetto al fresco, che è sceso al di sotto della metà come percentuale di mercato, perché ovviamente è più semplice e rapido acquistare un prodotto pronto da mettere in padella, piuttosto che uno da eviscerare, sfilettare eccetera. Altro elemento non trascurabile è che ormai l’80% degli acquisti avviene presso la Grande distribuzione, a scapito del commercio al dettaglio. Ma il dato forse più preoccupante è che nell’ultimo decennio continua a crescere la quota delle importazioni (principalmente di provenienza comunitaria, ma anche extra-europea) che nel 2018 ha raggiunto quota 1,35 milioni di tonnellate, per un controvalore di 5,9 miliardi di euro, circa un terzo in più rispetto a inizio decennio.

Questo quadro di analisi rispecchia, anche nel caso degli acquisti di pesce, la stessa tendenza al consumismo ormai presente in tutte le categorie merceologiche, comprese quelle alimentari. La scelta si orienta in base a prezzo, praticità d’uso, facile accessibilità e, naturalmente, indirizzi dettati da chi controlla il mercato. La qualità scivola in secondo piano, mentre la sostenibilità ambientale non viene nemmeno presa in considerazione.
Altrimenti non si spiegherebbe la crescita di un pesce come il salmone, un tempo raro e pregiato perché frutto della pesca negli impetuosi mari del nord, oggi dozzinale prodotto di allevamento, imbottito di antibiotici e nutrito con grandi quantità di pesce che potrebbe invece finire direttamente sulle nostre tavole: occorrono infatti circa cinque chili di pescato trasformato in mangime per ottenere un chilo di salmone. Uno spreco insostenibile, dal punto di vista ambientale, ma il comparto alimentare ormai ragiona in termini industriali e privilegia un prodotto a “più alto valore aggiunto”, come fosse un oggetto qualsiasi.
Una logica che non dovrebbe valere per il cibo che introduciamo nel nostro organismo. Siamo quello che mangiamo, rammenta un noto motto popolare. Dunque per vivere in salute dovremmo porre maggiore attenzione alla nostra dieta. E, così facendo, in maniera naturale e senza sforzo finiremmo anche per prenderci cura del pianeta, in grave crisi ecologica proprio a causa dei nostri stili di vita poco ecosostenibili e delle nostre scelte quotidiane troppo spesso errate.
Al contrario, un consumatore attento e consapevole è anche un ottimo custode dell’ambiente, oltre che, naturalmente, della propria salute e del proprio benessere.

La direttiva Seveso in Basilicata

Dal centro di pre-raffinazione petrolifero di Viggiano alla centrale termodinamica di Palazzo San Gervasio

Donato Cancellara, Presidente Associazione VAS per il Vulture Alto Bradano

Si parla spesso della Basilicata per i suoi boschi, per le sue acque, per la sua biodiversità agrozootecnica e per i suoi paesaggi. Tuttavia, la nostra Terra è sede di due rilevanti Siti d'interesse Nazionale (SIN), ai fini della bonifica, e di attività a Rischio d'Incidente Rilevante (R.I.R.) rientranti tra quelle previste dalla tristemente nota Direttiva Seveso III (2012/18/UE) recepita dall'Italia con il D.Lgs. n. 105/2015.
Nella Regione Basilicata sono presenti 10 stabilimenti a Rischio d'Incidente Rilevante: 8 in provincia di Potenza e 2 nella provincia di Matera. Sicuramente, il più noto stabilimento suscettibile di causare incidenti rilevanti è il Centro Olio Val D'Agri (COVA) dell'Eni S.p.A., nel Comune di Viggiano, quale impianto di trattamento degli idrocarburi estratti dal più grande giacimento dell'Europa Occidentale.
Non è un caso che il copioso sversamento di petrolio dal COVA di Viggiano, di circa due anni fa, venne qualificato come incidente rilevante dal Ministero dell'Ambiente, ai sensi dell'art. 25 del D.Lgs. n. 105/2015, rendendolo ufficiale all'Eni, al Comitato Tecnico Regionale Basilicata (CTR), agli Uffici competenti della Regione Basilicata, alla Prefettura di Potenza, all'Arpab ed all'ISPRA con nota del 19.06.2017.
Un incidente che causò "la contaminazione e la compromissione di 26.000 metri quadri di suolo e sottosuolo dell'area industriale di Viaggiano e del reticolo idrografico" a valle dell'impianto COVA, in seguito allo sversamento di 400 tonnellate di petrolio. È recentissima la notizia riguardante la sospensione per 8 mesi dal servizio dei pubblici uffici per 5 componenti del Comitato Tecnico Regionale (CTR) della Basilicata così come previsto dall'ordinanza del gip, eseguita il 6 maggio scorso dai Carabinieri del NOE, su disposizione della Procura della Repubblica di Potenza. Secondo gli inquirenti, le prescrizioni precauzionali non vennero ottemperate dal gestore dell’impianto COVA ed il CTR non intervenne con provvedimenti inibitori e sanzionatori, diventando, secondo il costrutto accusatorio, concausa dell’evento di dispersione del greggio nell’ambiente circostante.

A margine di queste notizie, come Associazione ci siamo chiesti come sarebbe diventata l'area Nord della Basilicata - a ridosso del Comune di Palazzo San Gervasio - se fosse stato realizzato l'impianto industriale, folcloristicamente conosciuto come "solare termodinamico", anch'esso sottoposto alla famigerata Direttiva Seveso come il COVA di Viggiano. L'impianto si classifica come «stabilimento di soglia superiore» per la presenza di sostanze pericolose in grandi quantità: oltre 2 mila tonnellate olio diatermico e circa 38 mila tonnellate di sali fusi classificabili come comburenti. Ovviamente, per coloro che vivono del "tutto a posto", non vi era nulla di cui preoccuparsi. Alcuni sostenitori dell'impianto rassicuravano dicendo che il termodinamico aveva ottenuto anche il Nulla Osta di Fattibilità condizionato, in data 3.12.2013, da parte del CTR della Basilicata dopo aver analizzato il Rapporto Preliminare di Sicurezza elaborato dalla società Teknosolar Italia 2 S.r.l. Proprio quel rapporto oggetto di studio da parte del Consulente Tecnico d'Ufficio (CTU) chiamato nuovamente ad esprimersi sul ricorso n. 307/2016 presentato, dinanzi al TAR Basilicata, dalla Teknosolar Italia 2 S.r.l. Infatti, risale al 9 aprile scorso, l'Ordinanza n. 355 con la quale i giudici amministrativi hanno ritenuto di prolungare ulteriormente la vicenda del contenzioso "Teknosolar vs. Regione Basilicata", chiedendo un supplemento di perizia al fine di acclarare se i documenti riguardanti le emissioni di inquinanti in atmosfera nonché il Rapporto Preliminare di Sicurezza, strettamente connesso alla Direttiva Seveso, potessero essere ritenuti idonei a modificare l'esito degli accertamenti cui era già pervenuto il CTU nella sua perizia depositata il 30.05.2018. Una richiesta di integrazione che ci ha lasciati perplessi nella forma con cui è stata richiesta, ma sicuramente è una semplice sensazione da parte di chi potrebbe pubblicare un inedito volume sulle tante acrobazie del termodinamico in Basilicata. Un volume che potrebbe essere intitolato: quando l'arroganza e la mancanza di rispetto si scontra con una realtà locale spesso sottovalutata!

Tanto è stato fatto per evidenziare le imperdonabili mancanze nell'analizzare gli scenari incidentali ipotizzati nel Rapporto Preliminare di Sicurezza (rilascio di olio diatermico con innesco e conseguente scenario di incendio; rilascio senza innesco di olio diatermico con possibile origine ad un potenziale danno ambientale) anche e soprattutto per la descrizione sommaria della geologia ed idrogeologia del sito interessato dall’intervento. Alquanto irrealistico pensare di caratterizzare un'area di oltre 226 ettari con soli 6 sondaggi diretti e con la valutazione della permeabilità del terreno su due soli campioni. Irrealistico ritenere che l'irrisorio numero di sondaggi potesse condurre ad attendibili analisi del rischio per la stima delle conseguenze incidentali legate al percolamento di olio diatermico nel sottosuolo interessato, nella sua interezza, da una strategica falda a pochi metri dal piano campagna. Decisamente surreale l'aver eseguito, nel periodo estivo, le indagini per la caratterizzazione idrogeologia senza che venissero considerate le condizioni più conservative. Quelle condizioni che non sono riscontrabili in un periodo torrido, come quello del luglio 2012, a scarso apporto di acqua per le ridotte precipitazioni meteoriche e per il suo maggior emungimento dai circa 20 pozzi artesiani presenti nell'intera area oggetto di indagine.
Emblematico osservare come il D.Lgs. n. 105/2015 all'Allegato C, punto C.4 "analisi degli eventi incidentali", prevede di "valutare le conseguenze degli scenari incidentali in base alle condizioni meteorologiche caratteristiche dell'area in cui è insediato lo stabilimento, con particolare riferimento a quelle più conservative"; al punto C.4.4 prevede una "descrizione dettagliata dell'ambiente circostante" ed un "modello idrogeologico-idrologico del sito volto alla individuazione delle vie di migrazione delle sostanze pericolose nel suolo, in acqua superficiali e sotterranee".
Rilevante fu anche l’inadeguata pubblicazione dell'avviso di avvio del procedimento di V.I.A. con conseguente comunicazione non efficace della presentazione del Rapporto di Sicurezza Preliminare. Infatti, la società Teknosolar Italia 2 s.r.l. depositò il 13.11.2012 lo Studio di Impatto Ambientale pubblicando il relativo avviso di avvio della procedura di V.I.A. senza alcun cenno alle problematiche di incendio rilevante nonostante l'art. 24, comma 2, lett. c) del D.Lgs. n. 152/06 precisi l’obbligo di fornire notizia del progetto con una breve descrizione dello stesso e dei suoi possibili principali impatti ambientali. Ciò rese inevitabilmente inadeguata la pubblicazione e, conseguentemente, non efficace la comunicazione così come previsto,  oltretutto, dall’art. 23 del D.Lgs. n. 334/99 e ribadito dall'art. 24 "Consultazione pubblica e partecipazione al processo decisionale" del D.Lgs. n. 105/2015.
Abbiamo avuto fiducia che quanto evidenziato potesse essere motivo di una indipendente riflessione da parte del CTU nel supplemento di perizia richiesto dal TAR Basilicata. Supplemento di perizia pervenuto nei termini previsti e, come ormai abituati all'atteggiamento di chi non sa chinare la testa ammettendo la propria disfatta, dopo pochi giorni sono pervenute osservazioni da parte della società Teknosolar. Il risultato è stato quello di una inevitabile richiesta di proroga, da parte del CTU, affinché possano essere valutate le osservazioni ricevute, esplicitare le proprie controdeduzioni e integrare la relazione di consulenza.
Nuova udienza pubblica a Novembre prossimo! Sarà la volta buona perché si capisca che chi è causa del suo mal pianga se stesso? Speriamo che la vicenda si concluda nei prossimi mesi così da evitare di dedicare anche un solo minuto in più ad una vertenza ambientale complessa per il contenuto del progetto, per l'iter procedimentale, per i soggetti coinvolti e per i tanti interessi movimentati che come uno tsunami dovrebbe avere un unico esito dopo il ritirarsi dell'onda anomala: lasciare macerie per fortuna immateriali e non tangibili sul nostro territorio che ostinatamente abbiamo difeso da un irreparabile danno. Un danno inestimabile che avrebbe interessato la vera risorsa non rinnovabile patrimonio della collettività: il nostro Suolo.

Ferrovia Cuneo-Ventimiglia

Riccardo Graziano

Uno degli argomenti preferiti dai Si-TAV, i promotori del quadruplicamento della linea ferroviaria del Frejus, è che sia un’opera strategica e indispensabile per evitare che il Piemonte resti isolato. Eppure, basterebbe tornare con la memoria alla geografia che ci insegnavano alle elementari per ricordarsi che il Piemonte è una delle poche regioni italiane con un confine internazionale, anzi una delle pochissime ad averne due, con Francia e Svizzera. Situazione analoga a quella della Val d’Aosta, la quale, però, a sua volta è racchiusa dal Piemonte stesso. Ne consegue che chiunque transiti via terra fra Italia e Francia deve passare dal Piemonte, con l’unica eccezione del valico ligure di Ventimiglia, piuttosto congestionato dal punto di vista stradale e con una linea ferroviaria che a tratti viaggia ancora a binario unico.
Come si può pensare che resti isolato? E ancora, siamo sicuri che il quadruplicamento della linea del Frejus sia davvero la priorità dei trasporti e dell’economia del Piemonte e dell’Italia (per non parlare dell’Europa)?
Forse varrebbe la pena completare prima il raddoppio della ferrovia Genova – Ventimiglia. O prolungare l’asse dell’Alta Velocità fino a Trieste. O, più semplicemente, mettere in atto un serio programma di miglioramento e manutenzione delle infrastrutture esistenti, prima di costruirne altre.
Per esempio, sempre in tema di collegamenti tra Piemonte e Francia, si potrebbe dedicare un po’ di attenzione alla negletta ferrovia Cuneo – Ventimiglia, che da tempo langue in condizioni deplorevoli, più a causa di incuria politica che di problemi tecnici. E la colpa, una volta tanto, non è degli italiani, bensì dei francesi. Se a questo si aggiunge che i cugini d’oltralpe hanno anche cancellato tutti gli interventi previsti sulla linea che dovrebbe collegarsi al tunnel del TAV, rimandandoli di una ventina d’anni, viene da chiedersi quanto Parigi sia veramente interessata ai collegamenti con l’Italia, veloci o meno che siano.

Ma torniamo alla Cuneo – Ventimiglia, detta anche linea del Tenda, che collega due città italiane attraverso la Val Roia, ceduta alla Francia dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. La ferrovia venne concepita ai tempi del Regno di Savoia, quando anche Nizza faceva parte dei possedimenti della casata subalpina e occorreva un collegamento diretto fra Torino, capitale del regno, e la città portuale della Costa Azzurra. Da allora la situazione è cambiata parecchio, con la cessione di Nizza e Savoia alla Francia in cambio dell’aiuto militare per le guerre d’Indipendenza, seguita dall’ulteriore perdita dell’Alta Val Roia a seguito dei trattati di pace siglati nel secondo dopoguerra.
Tuttavia la Francia, dopo essersi annessa la valle del torrente Roia, non ha mai manifestato particolare interesse per quell’area, sostanzialmente avulsa dal resto del territorio transalpino. Un disinteresse che si riverbera e palesa anche nelle vicende della linea ferroviaria che, in effetti, è funzionale più alla logistica italiana che a quella francese. Il grosso dell’utenza, infatti, più che all’interno della valle, è quello che si muove fra Cuneo e Ventimiglia o viceversa. O che almeno vorrebbe farlo, se non venisse ostacolata in tutti i modi.
Dopo i fasti degli anni ’30 del secolo scorso, quando la tratta faceva parte di un “corridoio” che, attraverso Torino, collegava la Svizzera e parte del Nord Europa con il mare, la ferrovia subì gravi danni in tempo di guerra, tanto da venire riattivata solo a fine anni ’70. Nonostante ciò, il percorso della linea, in particolare all’interno della valle, ha fatto sì che nel 2016 la rivista tedesca Hörzu classificasse la tratta completa, da Torino a Nizza, al nono posto fra le dieci ferrovie più belle del mondo.
Un valido motivo di orgoglio, ma che non ha messo la linea al riparo da problemi tecnici. Nel 2017 la ferrovia è stata chiusa per manutenzione e ammodernamento, l’inizio di un piccolo calvario. Nonostante la sua utilità logistica e l’intrinseca bellezza del percorso, valido anche a fini turistici, non si è ancora riusciti a ripristinare appieno la sua funzionalità, con grande esasperazione per i fruitori.
Vedendo con quale pervicacia venga perseguita l’idea di costruire il TAV in Valsusa, risulta incomprensibile il disinteresse verso questa linea che, pur essendo a sua volta potenzialmente strategica, viene lasciata in condizioni di esercizio deplorevoli. Nonostante l’Italia abbia speso 29 milioni di euro (cifra ragguardevole, ma infima se confrontata con gli 8 miliardi circa previsti per il TAV) per mettere in sicurezza la linea in territorio francese, i “cugini” d’oltralpe hanno deciso di mantenere il limite di 40 km orari. Alla faccia dell’Alta Velocità “indispensabile” per collegarsi alla Francia.
È chiaro che una simile limitazione pregiudica la funzionalità della linea, allungando i tempi di percorrenza. Un vero peccato, visto che l’utenza potenziale sarebbe elevata: secondo dati della Regione Piemonte, prima di essere ridimensionata nel 2013, la tratta contava 900 passeggeri al giorno. Non per niente una raccolta firme in difesa della linea ha raggiunto 25.000 adesioni.
A questo punto, visto che si tratta di un collegamento internazionale, sarebbe opportuno un intervento del Governo, finora assolutamente latitante sulla questione, per ridare dignità e vigore a questa linea storica, che proprio quest’anno celebra i 40 anni dalla riapertura nel 1979, anche se la situazione non invita a grandi festeggiamenti.

Francesco Corbetta: addio vecchio botanico

Valter Giuliano

Francesco Corbetta (Zeme, 3 febbraio 1932) si è spento, il 6 settembre 2019 nella sua abitazione di Bologna.
Nella tanto amata e mai dimenticata Lomellina aveva passato la sua gioventù ed era stato uno degli animatori più attivi delle goliardia mortarese, fondando l'associazione il Circolo universitario mortarese. A lui si deve altresì la costruzione della cappelletta votiva ad angolo di via Cortellona a Mortara.
Poi la laurea in scienze biologiche, nel 1955, all'Università di Pavia e la docenza in botanica negli atenei di Bologna, Ferrara e Catania.
In seguito, titolare di cattedra, ha insegnato Botanica applicata all'Università dell'Aquila dal 1983 al 2003, assumendo anche la direzione del Dipartimento di Botanica. Al suo attivo ha oltre 300 pubblicazioni scientifiche e numerosi saggi divulgativi.
Fu particolarmente interessato all’indagine floristica in aree mediterranee del Sud Italia, in particolare in Basilicata, negli Alburni, nel Cilento e nella Sila. Un ruolo fondamentale lo svolse nell'ideazione e nell'istituzione del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, di cui divenne poi direttore.
Fece altresì parte del Consiglio direttivo del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna e del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.
Ha fatto parte del Consiglio Nazionale dell'Ambiente, Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Villa Ghigi di Bologna (dal 1981) quando l'istituzione era ancora denominata Centro Villa Ghigi.
Il professor Corbetta si impegnò, sin da subito, nel movimento per la tutela degli interessi ambientali.
Dal 1976 al 1979, per la prima volta, assunse la carica di Presidente dell’Unione Bolognese Naturalisti, che ricoprirà ancora nei periodi dal 1984 al 1987 e dal 1998 al 2001.
Nella nostra Federazione Nazionale Pro Natura Francesco esordisce molto presto e lo incrociamo sulle pagine di Natura e Società e nel Consiglio sin dagli inizi degli anni Settanta.
Ricoprirà la carica di Segretario generale tra il 1976 e il 1986, quando sarà chiamato alla Presidenza che reggerà sino al 1993, restando nel Consiglio direttivo sino al 1999.
A lui e alla sua generosità si deve l’avvio del programma delle Oasi di protezione della Federazione, che partì proprio con la cessione dei terreni di sua proprietà in territorio pavese, la sua natia e mai dimenticata Lomellina.
Le motivazioni del suo impegno sono ben sintetizzate in queste riflessioni: «La Federazione Pro Natura ha recentemente costituito commissioni di esperti nei vari campi in cui si può articolare la problematica conservazionista che annoverano il fior fiore del mondo scientifico italiano e, in qualche caso, internazionale. Per quanto poi concerne la qualità della attività svolta, assistiamo ad una sorta di antipatico (e soprattutto non veritiero) luogo comune per cui alle associazioni (che avrebbero la colpa di agire, si dice, su basi emotive e non scientifiche o razionali) spetterebbe unicamente il ruolo di denuncia mentre le società scientifiche dovrebbero rimanere chiuse ed arroccate nella purezza della turris eburnea di una asettica Scienza e non “sporcarsi le mani”, anche loro, nella politica attiva di conservazione e difesa dei beni naturali. Personalmente non sono d’accordo su queste semplicistiche schematizzazioni per due motivi.
Il primo è che la valutazione di cui sopra (emotività ascientifica), oltreché gravemente lesiva del prestigio delle Associazioni, è anche gravemente inesatta per non dire falsa del tutto. Infatti, per quanto mi consta, spesso e volentieri le Associazioni, oltre alla attività di denuncia, sanno anche produrre documentazioni e studi scientificamente ineccepibili.
L’altro è che nella situazione di emergenza in cui versiamo non riconosco alle Società scientifiche questo perbenismo in guanti bianchi e il diritto di non battersi esse pure, in prima fila, fianco a fianco con le Associazioni ambientalistiche, contro l’onnipresente nemico di sempre: la speculazione e, più ancora, l’ignoranza!» (da I movimenti portatori di interessi ambientali, intervento alla Giornata dell’ambiente presso l’Accademia dei Lincei, Roma 5 giugno 1985).
Con Francesco ho collaborato, spesso discusso, talvolta litigato.
Ma tra noi non mancò mai il rispetto.
Mi concesse di firmare, con lui, un’indagine fitosociologica sulla vegetazione del Bosco della Partecipanza di Trino Vercellese, in cui ci incontrammo per una giornata, per me, ricca di esperienze e di insegnamenti.
Quando assunse la direzione della nuova serie di “Natura e Montagna” mi onorò, inaspettatamente, di inserire il mio nome tra i redattori. Rimasi nel colophon, per un solo numero. L’irascibile Corbetta non esitò a depennarmi.
Terreno di scontro, ma francamente non ricordo, fu probabilmente la nostra diversa visione sul ruolo dell’associazione che ho sempre voluto più “politico”, andando spesso in minoranza.
Era fatto così, ma neppure quell’episodio alienò la strana empatia del nostro rapporto.
Restò il rapporto di affetto e la stima, perché Francesco era, prima di tutto, un gentiluomo.
Giovane ecologista, all’incontro con il Professore universitario mi colpì, nelle prime riunioni del Consiglio direttivo all’Istituto di Botanica di via Irnerio a Bologna, trovarlo effigiato, proprio all’ingresso dell’Istituto, sotto forma di organo sessuale maschile, che qualche suo allievo con innegabili doti grafiche (forse meno in botanica) aveva disegnato. Quella “ testa di C...orbetta” che lui non volle fosse cancellata mi rivelò molto della sua intelligenza, del suo spirito rimasto gogliardico e della sua autoironia, dote che resta, nella mia concezione della vita, tare le più apprezzabili e meno praticate.
E non scordo la sua amabile ospitalità, nella gradevole e preziosa abitazione nel centro storico  bolognese, allietata da una cena con deliziosi arrosticini di rognoni con alloro.
Era, la passione per la gastronomia semplice ma di qualità, un altro segno distintivo di Francesco, probabilmente un’eredità antica sprofondata nelle terre contadine di Lomellina e poi rinnovata nei gusti straordinari del Cilento dove, da Acciaroli, non mancava di mandare lettere con le sue riflessioni sulle questioni ambientali. Il cibo come elevazione dello spirito che si nutre di gusto: un imprinting mai dimenticato. Ma anche prodotto di un equilibrio con la natura e con la terra, di ricostruire e riconquistare.
Del suo valore scientifico parlano curriculum e pubblicazioni, insieme a una carriera non sempre agevolata (e qualche volta se ne lamentò...).
Del suo impegno in campo ambientale - in epoche nelle quali non era di moda e non agevolava carriere universitarie - ho trovato tracce numerose (provando ogni volta per lui gratitudine) nel momento in cui sto lavorando alla ricostruzione di settant’anni di vita della nostra Federazione.
Tra le carte che sto leggendo – lettere accorate, inviate a Presidenti e Consiglieri di turno, articoli pubblicati sugli organi di informazione della Federazione – emerge una passione e una totale dedizione alla causa della Pro Natura e un costante impegno nel migliorarne la presenza nazionale.
Mi è venuto, d’istinto, il desiderio di risentirlo, per esprimergli gratitudine. Il destino non ci ha concesso quest’ultima opportunità e mi costringe a dargli l’ultimo saluto soltanto con queste inadeguate righe scritte con l’affetto e l’amicizia che avrei voluto dirgli.
Che non possono concludersi se non con le sue parole di cultore della storia e della memoria. Francesco ci ha consegnato, in ultimo, un suo diario di vita (Il vecchio botanico racconta) che presenta così: «il botanico è ormai vecchio… Pensa sempre, con acuta nostalgia, persino a periodi della sua vita che allora aveva ritenuti bui… l’attività didattica… qualche bella escursione…
La tensione interiore sale e allora il vecchio botanico sente il bisogno di raccontare. Ed ecco questo libriccino di racconti, ovviamente botanici, ma non solo...
Quando poi il discorso cade su piante mangerecce allora non resiste alla tentazione e vi infligge le sue ricette: dai natii risotti o “barbarici” piatti di cavoli…
Il vecchio botanico è… un torrente in piena e si è imposto – con grande sacrificio – di limitarsi.»

* * *

Giuliano Cervi

A metà degli anni 70 il mondo ambientalista era connotato da un forte attivismo, sull'onda di un affascinante scenario che prospettava alle giovani generazioni la possibilità di ribaltare le dinamiche che stavano arrecando gravi danni al patrimonio naturalistico e culturale italiano. L'entusiasmo giovanile supportava un dinamico coinvolgimento a tutto campo, che trovava degli importanti interlocutori nelle più importanti associazioni italiane per la protezione della natura. Sull'onda di questo stato emotivo, dopo aver svolto intensa attività all'interno di Italia Nostra e del Club Alpino italiano, ebbi occasione di incontrare per la prima volta il professor Francesco Corbetta nel 1977, all’atto della costituzione del Coordinamento Regionale delle Associazioni per la protezione della natura dell'Emilia Romagna. Il suo attivismo, abbinato ad una profonda competenza scientifica non disgiunta da una grande disponibilità al confronto, mi colpirono inducendomi ad avviare la collaborazione con la Federazione Nazionale Pro Natura, che col tempo si tramutata in un autentico percorso di vita. Ciò che più mi colpì del professor Corbetta fu la sua disponibilità a dare fiducia a tutti coloro che intendevano impegnarsi nella difesa dell'ambiente naturale, affidando loro sin dal primo momento dei precisi compiti operativi. In tal modo, sotto la sua attenta regia, nel 1984 fu costituita la Pro Natura di Reggio Emilia e poco dopo ebbe inizio l'affascinante ma impegnativo  percorso che portò alla istituzione delle prime Oasi della Federazione. In quegli anni accompagnai il professor Corbetta in diverse località dell'Italia centro-settentrionale: dagli scenari alpestri della torbiera di Pian del Re sotto il Monviso, alle pianure dell'Agogna Morta, passando attraverso i ripidi versanti vulcanici del Monte Prinzera per giungere alle paludose risorgive della Pegolotta. Il suo fermo impegno protezionistico, non disgiunto dalla capacità di creare rapporti di amicizia con tanti diversi interlocutori, consentì di porre le condizioni favorevoli per dare origine ad un primo nucleo di aree protette ,che per le loro diverse caratteristiche offrono un importante quadro conoscitivo della complessa varietà dell'ambiente naturale italiano. Il professore era ben conscio che la sola acquisizione delle aree non era sufficiente ad assicurarne l'efficace salvaguardia: per questo motivo si impegnò per riuscire a creare un'articolata rete di appassionati cultori locali, che divennero ben presto i diretti custodi e gestori di queste oasi, facendosi   parte attiva di molteplici attività ed iniziative costantemente ed intelligentemente suggerite dalla sua esperienza umana e grande capacità comunicativa. La sua è stata una grande scuola che ha permesso di comprendere i complessi processi anche psicologici che sono alla base dell'impegno protezionistico italiano, nel quale l'azione di tutela, per essere realmente efficace, non può disgiungersi da una precisa strategia di coinvolgimento e compartecipazione delle comunità locali. In tale scenario diventavano fondamentali i momenti conviviali intesi come strumento di diffusione della conoscenza scientifica, ma anche di crescita di quel senso di appartenenza e di consapevolezza che è alla base delle più’ efficaci istanze di salvaguardia. Il suo attivismo fu incessante: proponeva in continuazione iniziative per supportare le “sue oasi”, per estendere l'attivismo protezionistico e promuovere la divulgazione della cultura naturalistica. Le sue “erbacciate“ hanno fatto epoca: partendo da approcci rigorosamente accademici si giungeva ad affrontare il mondo della botanica anche in termini squisitamente gastronomici, coniugando in modo estremamente efficace la conoscenza scientifica con il momento ludico, raggiungendo in tal modo l’obiettivo di avvicinare    il più vasto pubblico alle istanze protezionistiche, creando i presupposti per l'instaurarsi di profondi rapporti umani che rappresentano probabilmente il più grande valore che ci ha trasmesso il Professore. Per tutti questi aspetti fu un autentico antesignano dei moderni scenari della divulgazione scientifica e certamente il maggiore interprete del motto della Federazione: Far conoscere la natura perché conoscendola la si ami e amandola la si protegga.

Aree protette e sostenibilità

Franco Pedrotti

Il 12 giugno 2019 la Federparchi ha siglato con la Federlegni un impegno di collaborazione per diffondere la sostenibilità e valorizzare i modelli di sviluppo eco-compatibili nelle aree protette.
L'argomento della sostenibilità e della valorizzazione di modelli di sviluppo eco-compatibili è sicuramente importante, ma non può essere applicato nelle aree protette. Nelle aree protette vanno applicati modelli di tutela della biodiversità, della conservazione in integro degli ecosistemi e del mantenimento delle funzioni degli ecosistemi in perpetuo. Per l'ecosostenibilità e per i modelli di sviluppo ecosostenibili il nostro paese dispone di altri territori, non destinati in prima istanza alle aree protette.
Prendiamo il caso della Regione Marche. Questa Regione occupa un territorio pari a 9.365 km², di cui 2.903 km² sono montagne. Se vogliamo fare sperimentazioni nel territorio montano delle Marche, abbiamo a disposizione 2.903 km² di montagne, un territorio di vastissime dimensioni che in molte zone - fra l'altro - è stato abbandonato a causa dello spopolamento e nel quale si fa poco o nulla, nonostante vi siano organismi appositamente deputati ad occuparsi di esso.
Altre zone adatte per le sperimentazioni sulla sostenibilità potrebbero essere quelle delle foreste demaniali regionali (nelle Marche si trovano 15 foreste demaniali per un'estensione di 19.036 ettari), ma non il Parco Nazionale dei Monti Sibillini destinato per legge ad altri scopi. Il Parco Nazionale dei Monti Sibillini è esteso appena 69.722 ettari, un'area irrilevante di fronte ai 2.903 km² di territorio montano delle Marche.
Nella Regione Marche nel 1971 erano state istituite 9 Comunità Montane, corrispondenti a 9 ambiti territoriali che interessano tutto il territorio montano e quello alto-collinare. Le Comunità Montane sono cessate alla data del 31 dicembre 2014 e ad esse sono subentrate le Unioni Montane.
Scopo delle Comunità Montane prima e delle Unioni Montane ora, è quello della valorizzazione delle zone montane. Sono istituzioni previste dalla legge per lo sviluppo dei territori montani, per iniziative, promozioni, sperimentazioni, realizzazioni di progetti con fondi appositamente destinati, compresi quelli provenienti dalla Comunità Europea. All'articolo 3 della legge istitutiva si legge: Le comunità montane adottano piani pluriennali di opere ed interventi e individuano gli strumenti idonei a perseguire gli obiettivi dello sviluppo socio-economico.
Le aree protette sono destinate per legge alla conservazione della natura e delle sue risorse (biodiversità, ecosistemi, paesaggi, ecc.) con tutto quello che ne consegue e non a sperimentazioni sullo sviluppo sostenibile per le quali vi sono a disposizione migliaia e migliaia di territori montani al di fuori delle aree protette e sovente abbandonati a sé stessi. Date le caratteristiche fisiche del nostro paese, quanto riportato per la Regione Marche è valido anche per le montagne di tutte le altre regioni italiane.
La Federparchi e la Federlgno parlano anche di promuovere iniziative su tutto il territorio delle aree protette con l’obiettivo di incentivare l’uso del legno. Non si capisce, peraltro, da quale punto di vista.
Fra gli scopi delle aree protette rientra sicuramente anche quello della salvaguardia delle foreste e soprattutto del loro potenziamento, tenuto conto dello “stato di conservazione” delle foreste italiane, che sono sovente ridotte a boschi cedui e degradati, sia dentro che fuori i parchi.
Fra gli obiettivi delle aree protette dovrebbe esservi anche quello di incentivare la produzione del “legno” delle foreste, permettendo un loro sviluppo fino al raggiungimento dello stadio dinamico più maturo, il più evoluto possibile, quello della fluttuazione. In tal modo nelle aree protette si potrebbe compiere il ciclo completo del legno e cioè la germinazione del seme, lo sviluppo della piantina e – dopo molti decenni - il raggiungimento della fase matura dell'albero, fino al suo crollo per cause naturali e conseguente decomposizione del legno sul posto. Oggi ciò non avviene in nessun parco nazionale italiano, avviene – invece – in alcune riserve naturali come quelle di Sasso Fratino e di Torricchio e in pochi altri casi.
I parchi nazionali italiani fino ad oggi ha poco preso in considerazione nei loro programmi il tema dello sviluppo e del potenziamento delle foreste, che sono fatte – per l'appunto - di legno, una risorsa rinnovabile che nei nostri tempi è tale soltanto se l'uomo lo permette.
Concludo con il motto di un noto giornale romano: unicuique suum, a ciascuno il suo, agli enti preposti alla gestione delle aree protette quello della conservazione della natura e delle sue risorse, compreso il legno, alle Unioni Montane e simili quello della gestione generale del territorio e della sua promozione.