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Amnesie, ipocrisie e irresponsabilità. Verso un consapevole suicidio collettivo?

Valter Giuliano

Non so se ve ne siete accorti, ma la declinazione del PNRR perde, nella comunicazione globale, sempre più spesso la R finale. Tutto si ferma a Piano Nazionale di Ripresa e dimentica la Resilienza, vale a dire la necessità di adeguarsi alle conseguenze della crisi climatica.
Così come, da quasi subito, la transizione ecologica – complice un Ministro che di ambiente nulla sapeva – si ridusse a energetica.
Ogni parola ha un senso, così come lo ha ogni omissione. E le amnesie sempre più frequenti sottolineano la tendenza a sottovalutare quell’esigenza di cambiamento radicale che le azioni suggerite a livello europeo intendono innescare per affrontare davvero, e non solo a parole, la crisi ambientale che ha nell’insostenibile e apparentemente inarrestabile aumento delle temperature del pianeta la sua evidenza più significativa.
L’Unione, con il programma Next Generation EU, dotato di un pacchetto di investimenti di 750 miliardi di euro. ha inteso affrontare non solo la crisi pandemica, ma anche e soprattutto la transizione ecologica, per assicurare un futuro alle prossime generazioni. Il PNRR che prevede con il fondo complementare oltre 250 miliardi, in gran parte a fondo perduto, invita gli Stati membri ad azioni concrete per quella che viene definita “transizione (definita in alcuni documenti ‘rivoluzione’) verde”.
Tutti i progetti che verranno finanziati dovranno innanzitutto «non causare danni ambientali», tutelando il territorio e le sue risorse, in particolare quella idrica, perseguendo cinque missioni (transizione digitale, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute).
Indicazioni che sembrano del tutto ignote alla nostra classe politica, purtroppo non solo al Governo.
Quando ai buoni principi, racchiusi solo nelle buone intenzioni e nelle conseguenti dichiarazioni, non fanno seguito atti conseguenti, ecco che il bluff si rivela in tutta la sua evidenza.
Prendiamo le decisioni dell’Unione Europea e del piano per rendere sostenibile il patrimonio edilizio europeo.
C’è subito chi si indigna e rosica «perché Greta ha vinto». C’è chi strilla perchè proprio non gli va giù. I resilienti a parole approvano la riconversione ecologica, ma quando ai “bla bla bla” seguono provvedimenti concreti, iniziano le loro litanie sul fatto che «sostenibile va bene ma non deve andare a scapito dello sviluppo. Che sì bisogna agire, ma dando tempo alle imprese di adeguarsi. L’energia verde va bene, ma servono ancora il carbone, le fonti fossili, il nucleare, ecc, ecc».
Contro la proposta di Direttiva europea sulle green house (case energeticamente sostenibili) la Lega parlato di turboambientalismo.
Davanti a una crisi climatica galoppante, che mette a rischio l’agricoltura, l’industria, la stessa disponibilità di acqua per consumi umani, dobbiamo ancora attendere?
Salvo eccezioni e deroghe (case vacanza, palazzi storici tutelati, chiese e abitazioni indipendenti di meno di 50 metri quadrati...) le abitazioni residenziali dovranno rientrare in classe E entro il 2030 e in classe D entro il 2033. Si tratta del primo passo di un iter che prevede il voto dell’Assemblea planaria, poi il negoziato con le altre istituzioni europee e consentirà agli Stati membri ampia flessibilità. Non ci saranno né obblighi né divieti alla vendita di chi non si sarà adeguato, ma è evidente che il mercato imporrà le sue valutazioni. È inoltre previsto uno specifico fondo europeo a sostegno dell’attuazione di una legge che intende abbattere il contributo del settore edilizio alla produzione di CO2.
Se non ora quando?
In Italia, secondo le stime di Enea, sarebbero almeno 11 milioni (il 74%) le abitazioni in classe superiore alla D.
È del tutto evidente che occorre da subito pensare a un Piano specifico per la penisola. Questo un Governo efficiente e responsabile deve fare. Non attaccare chi propone soluzioni che non si possono rinviare.
In questo contesto la recente strumentale polemica sul Superbonus edilizio non può prescindere dal fatto che si tratti del primo grande contributo dato all’efficientamento energetico delle nostre case. Spontaneamente sarebbe mai accaduto?
Sui discussi conti economici le opinioni sono contrastanti, anche diametralmente opposte.
Chi dice che ne è derivato più debito e poca crescita, se non effimera, di PIL e occupazione. Chi, come l’Istat, produce numeri da cui risulterebbe che è vera la salita del deficit del 2,4% rispetto alle previsioni, causata dal ricalcolo dei crediti fiscali deciso da Eurostat, che però non si traduce in aumento del debito e cade nel periodo di sospensione dei vincoli del patto di stabilità. Ma nel contempo – segnala – il PIL segna un + 3,7% e lo Stato incasserà una ottantina di miliardi per i prossimi dieci anni, la metà già entro il 2025. Alla fine il rapporto debito/PIL sarebbe calato e nel frattempo una parte del nostro patrimonio edilizio starebbe meglio sotto il profilo climatico.
Ma chi si occupa di economia questo effetto lo ritiene del tutto marginale e non contabilizzabile.
Analisi analoga possiamo farla sulle levata di scudi contro la fuoriuscita dai motori termici programmata dall’UE al 2035.
Nel futuro reale che significa? Che da quella data circoleranno solo motori non climalteranti? Purtroppo no! Per decenni ancora, a esaurimento, sulle nostre strade incroceremo quelli termici con il loro nefasto contributo alla crisi climatica sempre meno governabile.
Anche qui, un concerto irresponsabile di reazioni scomposte. E del tutto irrazionali, capaci solo di inseguire gli strilli della parte peggiore della nostra imprenditoria, quella che reclama la possibilità di continuare a succhiare contributi pubblici facendo profitti senza predisposizione alcuna ad investire in nuove tecnologie e processi produttivi efficienti. Aziende residuali di cui faremmo bene a liberarci, lasciandole scivolare verso l’estinzione, con un conseguente risparmio nel fardello di sostegno pubblico a garanzia della loro inutile sopravvivenza che non fa che procrastinarne l’ineludibile fuoriuscita dal mercato.
Solo Confindustria Lombardia ha colto la necessità di dare stimoli perchè alla transizione, nel settore, si imponga una necessaria accelerazione per poter competere sul mercato globale. Attendiamo emuli virtuosi a dimostrare la presenza, che c’è, di una imprenditoria sana, proiettata verso il futuro e consapevole che per affrontarlo le questioni ambientali non sono più nemiche.
Purtroppo in questo caso l’Italia getta sabbia negli ingranaggi del cambiamento e si oppone a Bruxelles. E l’ineffabile nuclearista Chicco Testa, già fondatore di Legambiente, strilla la sua opposizione e chiede che l’Europa non diventi la ZTL del mondo!
Che dire? Che fare?
Le opposizioni del Governo sulle azioni concrete a favore della riconversione ecologica ed energetica segnano un ritardo culturale che fa di noi il fanalino di coda del continente.
E, soprattutto, evidenziano la totale mancanza di una reale e realistica programmazione di una politica per la resilienza nei confronti della crisi climatica in atto.
Ne soffriranno le città e le campagne e il Governo resterà a guardare, capace solo di intervenire a posteriori rincorrendo le emergenze con bonus, risarcimenti... fino a quando le capacità di indebitamento non lo costringeranno al default, mangiandosi i nostri risparmi, le nostre pensioni, le speranze di futuro delle nuove generazioni.
Gli schiamazzi isterici di oggi nei confronti delle politiche europee si trasformeranno in pianti e disperazioni senza rimedio.
Se questo scenario, ormai alle porte, si avvererà, sarà anche colpa nostra.
E una responsabilità, non secondaria, sarà da attribuire a una informazione ormai inadempiente rispetto alle sue funzioni. Asservita al potere, incapace – tranne casi sempre più rari – di dirci le cose come stanno con la dignità di non passarci soltanto le veline del potere o di mettere il microfono a disposizione del potente di turno. Un “gelato” a raccogliere le dichiarazioni, interviste senza domande, o al più funzionali al discorso che il leader di turno ha già concordato.
Questo pseudo giornalismo consegna l’Italia agli ultimi posti nella classifica dell’informazione.
E purtroppo non solo sulle questioni dell’emergenza ambientale.
La deontologia che obbliga a verificare le fonti, a non consentire la diffusione di notizie false e tendenziose, a proteggere i minori, a non segnalare occasioni di discriminazione sessuale, religiosa, etnica, è rimasta soltanto più nei corsi di aggiornamento della professione. Ma ogni trasgressione è consentita, con un Ordine che raramente si oppone, ricorre, e proprio per questo ha sempre meno motivi per esistere. Senza contare che la professione la esercita (abusivamente?), ai livelli di maggior ascolto, chi ha rinunciato a farne parte.
Un altro segno del degrado di un paese che aspetta risposte dalla sua classe dirigente. Altrimenti la rifiuta, rinunciando a esercitare quel diritto-dovere al voto che è fondamento non solo della nostra Costituzione ma dello stesso ordine democratico.

Torino 2006-2022. Cosa resta dell’eredità delle Olimpiadi dopo 18 anni

Piero Belletti

È indubbio che l’occasione olimpica sia stata, per la città di Torino, un’occasione forse irripetibile per migliorare e rendere più efficienti strutture e servizi, nonché per farsi conoscere dal mondo, superando quel concetto capillarmente diffuso di Torino quale grigia città industriale, priva di fascino e attrattive turistiche. Obiettivi che, bene o male, sono stati, almeno in parte, raggiunti. Oggi Torino è senz’altro più “attrattiva” rispetto al periodo pre-olimpico e alcuni servizi sono migliorati: si pensi ad esempio al sistema museale e alla metropolitana, che, per quanto ancora insufficiente, ha consentito un sostanziale passo in avanti nella mobilità urbana sostenibile. Non solo: oggi Torino è conosciuta nel mondo e meta di un flusso turistico notevole e che risulta in generale soddisfatto della visita. Nel solo 2019 si sono registrate circa 4 milioni di presenze e, più in generale, il flusso turistico a cavallo dell’evento olimpico è di fatto raddoppiato.

Il problema, ovviamente, è valutare tutto ciò in termini di rapporto costi-benefici. Considerando, tra i primi anche quelli ambientali e sociali. Cosa che, in realtà, non si fa quasi mai e rende così attraenti anche iniziative del tutto insostenibili se valutate in un’ottica più ampia.

Fare un bilancio, anche solo limitato all’aspetto economico, delle Olimpiadi di Torino è praticamente impossibile, sia per la complessità delle relative vicende finanziarie che per la difficoltà di quantificare in modo preciso i costi delle opere realizzate. Le cifre che più comunemente vengono riportate sono quindi forzatamente approssimative e discutibili. Comunque, danno un’idea abbastanza precisa della dimensione economica di riferimento. Si parla di un debito a carico delle casse comunali della Città di Torino che ha superato 3 miliardi di Euro, che equivale a circa 3.500 Euro per cittadino, neonati ed ultracentenari compresi (dati pubblicati da Il Sole 24 Ore a settembre 2017) e che, se tutto va bene, finiremo di pagare nel 2035. Un debito che è il più alto d’Italia, o che si gioca con Roma questo scoraggiante primato a seconda di come si considerino le cifre. I servizi pubblici per i cittadini nella Torino del post-olimpico sono indiscutibilmente peggiorati: dai trasporti pubblici all’assistenza, dalla promozione di attività culturali al verde urbano (settore, quest’ultimo, nel quale gli investimenti sono via via scesi da 4 milioni a 800.0000 Euro l’anno e che solo in questi ultimissimi tempi mostra confortanti segni di ripresa). Non solo: la disperata ricerca di risorse economiche ha “costretto” l’Amministrazione a svendere alcuni delle sue più pregevoli proprietà e a cercare disperatamente di monetizzare i tristemente famosi “oneri di urbanizzazione” ovunque fosse possibile, con conseguenze molto pesanti sul tessuto urbanistico e sociale della città. Certamente il debito non è imputabile integralmente all’evento olimpico, ma in gran parte sì, come peraltro ebbe modo di affermare la stessa ex sindaca (e attuale parlamentare) Chiara Appendino, quando sedeva ancora in Consiglio Comunale sui banchi dell’opposizione: “Le Olimpiadi invernali di Torino 2006 hanno segnato la nostra città. Lasciando un’eredità pesante fatta di enormi debiti con cui ancora facciamo i conti”.

Gli esempi più lampanti di discutibile gestione dei finanziamenti olimpici riguardano senza dubbio il trampolino per il salto di Pragelato e la pista per il bob di Cesana Torinese, anche se sono numerosi gli esempi di impianti o strutture appositamente realizzate, o pesantemente ristrutturate, per l’evento olimpico e poi di fatto abbandonate o quanto meno sotto utilizzate. Il villaggio olimpico realizzato a Torino sull’area che in precedenza ospitava i mercati generali ne è un esempio. Terminate le Olimpiadi le abitazioni, evidentemente realizzate in fretta e adottando ridottissimi criteri di qualità, hanno cominciato a deteriorarsi: alcune sono state occupate abusivamente e solo recentemente sgombrate e “sigillate” per evitare ulteriori intrusioni. Ma la riqualificazione del quartiere, che era stata promessa e sbandierata ai quattro venti, di fatto non è avvenuta.

Ma torniamo ai due esempi più eclatanti. Il complesso per il salto è stato realizzato a seguito di enormi sbancamenti e disboscamenti a Pragelato (alta val Chisone, giusto qualche chilometro a valle del più famoso centro di Sestriere); è costato non meno di 35 milioni di euro ed è, al momento, di fatto abbandonato e in rovina. Analoga la situazione per la pista da bob, realizzata nella frazione Pariol di Cesana (alta valle di Susa) e costato 110 milioni di euro. Nel 2011 l’impianto, peraltro utilizzato in modo molto saltuario, è stato “svuotato” del liquido refrigerante (ammoniaca), ritenuto pericoloso e obiettivo sensibili di possibili attacchi terroristici. Successivamente all’abbandono, atti di vandalismo e furti di rame hanno praticamente distrutto tutto o quasi. Il destino di questi impianti era peraltro già segnato fin dall’inizio. Inutilmente le Associazioni ambientaliste avevano affermato che sport come il salto con gli sci e il bob sono pochissimo diffusi nelle Alpi occidentali e che non sarebbe bastato l’evento olimpico per creare un bacino d’utenza compatibile con una gestione economicamente sostenibile degli impianti. Analoga risposta negativa fu ricevuta alla proposta di effettuare queste discipline presso località già dotate dei necessari impianti e localizzate nelle vicinanze di Torino.

Naturalmente, le vicende di queste cattedrali nel deserto hanno più volte sollecitato l’interesse della Magistratura: l’ultimo caso riguarda un’indagine della Corte dei Conti del Piemonte avviata ad inizio anno per il degrado e l’incuria di cui gli impianti sono stati oggetto.

Ma come si legge nell’articolo sulle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 la lezione non è servita a nulla e si stanno ricommettendo praticamente gli stessi errori di allora. Impossibile ipotizzare che gli organizzatori non si rendano contro della realtà: evidentemente la prospettiva di attingere a risorse finanziarie quanto mai sostanziose e il prevedibile allentamento dei vincoli e dei controlli legati alla realizzazione di infrastrutture scatena molti appetiti, anche i meno onorevoli.

Milano-Cortina 2006. Olimpiadi sostenibili? Solo a parole

Franco Rainini

I Giochi invernali più sostenibili e memorabili di sempre, fonte di ispirazione per cambiare la vita delle generazioni future”. Dal dossier candidatura di Milano-Cortina per le olimpiadi 2026 https://milanocortina2026.olympics.com/media/ej0c2b3u/2026-milano-cortina-ita_dossier-candidatura.pdf

Rileggere il documento di candidatura citato in epigrafe non è un esercizio inutile in questo momento, mentre si stanno definendo gli assetti organizzativi dei giochi e siamo vicini all’avvio delle opere, opere che in realtà dovrebbero essere pochine, citiamo sempre dal dossier candidatura:

Adotteremo un approccio unitario e pianificato con attenzione per realizzare Giochi sostenibili che si avvalgano dello sport come elemento catalizzatore di numerosi benefici economici, ambientali e sociali. Come illustrato nel Concept dei Giochi al punto D.3, solo due impianti olimpici chiave necessitano di infrastrutture completamente nuove. Tutte le altre sedi sono esistenti, oppure esistenti ma con la necessità di eseguire opere permanenti (solo tre) o temporanee”; e ancora : ” 4.Il 93% degli impianti sono già esistenti o temporanei. … Uno dei principi fondamentali sulla quale si basa Milano Cortina 2026 è la sostenibilità economica, ambientale e sociale. Il 93% degli impianti che verranno utilizzati sarà già esistente o temporaneo. Saranno i Giochi ad adattarsi alle necessità dei territori e non viceversa”.

Anche dal punto di vista dell’impatto sulle aree naturali l’approccio contenuto nel dossier di candidatura sembra orientato al buon senso e all’attenzione, citiamo ancora: “Il Piano di Realizzazione complessivo dei Giochi sarà inoltre sottoposto, nel quadro della VAS, a una specifica valutazione (ex DPR 375/97) per evitare ogni possibile impatto sulla conservazione della biodiversità e del patrimonio culturale”.

Chiunque come ambientalista si è trovato ad affrontare l’avvio di grandi opere o eventi è certamente avvezzo a questo tipo di prosa rassicurante ed anche cosciente che maggiore è la retorica sulla sostenibilità, più gravoso è il peso che si abbatte sulla natura, sui beni comuni ambientali e di valore sociale.

Tanto per chiarire come sta andando a finire, mettiamoci comodi e rilassati e cominciamo da uno degli ultimi atti prodotti in tema di olimpiadi, l’ultimo prodotto dal dimissionato governo Draghi: Il DCPM26/09/2022, nel quale, con ritardo di circa una anno sul previsto, viene fatto l’elenco delle opere previste per le olimpiadi, dal quale risulta che parecchio deve essere progettato e costruito, lasciando ampio spazio discrezionale per ulteriori progettazioni e costruzioni. Un particolare non trascurabile è che questo atto decreta, ad onta del dossier di candidatura che “il Piano degli interventi rileva quale programma finanziario e che, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 6, comma 4, lettera b), del decreto legislativo n. 152 del 2006 lo stesso non è assoggettato alla procedura di valutazione ambientale strategica;” (https://www.governo.it/it/articolo/dpcm-26-settembre-2022-approvazione-del-piano-degli-interventi-da-realizzare-funzione-dei) come a dire, i soldi son soldi e non hanno impatto ambientale, quindi perché preoccuparsi di quello che con i soldi si fa? Come spesso accade in documenti tecnici si trovano perle di sincerità che mancano nei documenti programmatici.

Rimanendo su questo tema occorre rilevare che proprio sulla valutazione di impatto ambientale delle olimpiadi si è concentrato l’impegno delle Associazioni ambientaliste, organizzate in un tavolo di confronto. Le otto associazioni dopo alcuni sterili confronti con la Fondazione Milano Cortina (organizzatrice, promotrice e deputata alla comunicazione degli eventi sportivi e culturali relativi allo svolgimento dei Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali del 2026, (https://milanocortina2026.olympics.com/it/fondazione-milano-cortina-2026) nell’aprile del 2021 hanno inviato una lettera al ministro delle infrastrutture con l’esplicita richiesta di una Valutazione Ambientale Strategica (VAS) su tutte le opere a vario titolo connesse alle olimpiadi.  In particolare si chiedeva una VAS nazionale e non diverse valutazioni Regionali svolte dai quattro enti amministrativi competenti per i territori (Bolzano, Trento, Veneto e Lombardia), la lettera seppure firmata dai presidenti delle Associazioni, e il successivo confronto diretto con il sottosegretario alle infrastrutture delegato, non ha avuto nessun riscontro. Il DPCM dello scorso settembre appare dunque come l’effettiva risposta all’istanza e rivela l’effettiva diponibilità al confronto del governo e degli enti organizzatori alle nostre istanze. Di passaggio vale rilevare che la segnalazione di assenza di risposta su un tema tanto importante che sei delle otto associazioni del tavolo (tra cui Pro Natura) hanno inviato al Comitato Olimpico Internazionale, garante della sostenibilità delle opere, ha avuto una risposta formale e totalmente insoddisfacente.

L’oggettiva inefficacia del confronto fin qui rilevato dalle Associazioni ambientaliste, non ha esaurito la montante opposizione alle olimpiadi, espressa soprattutto in ambito locale dai comitati sorti spontaneamente nei vari distretti in cui si svolgeranno i giochi. Un ambito di particolare criticità è rappresentato da Cortina D’Ampezzo, principale ambito di svolgimento dei giochi, dove è anche previsto lo svolgimento delle gare di Bob, con il previsto adeguamento della pista realizzata negli anni ’50 pressoché mai utilizzata dopo i giochi invernali del 1956. Della cosa si è parlato diffusamente, a seguito della richiesta di porre il vincolo architettonico sull’opera, richiesto e ottenuto dagli ambientalisti di quella città, che ha raccolto qualche clamorosa adesione.  Il previsto intervento sulla vetusta pista ha in realtà diverse ragioni di attenzione, in primo luogo per la disastrosa esperienza di mancato utilizzo successivo agli eventi che hanno fatto registrare tali opere, a partire dalla recente pista di Cesana Pariol, realizzata per le olimpiadi invernali di Torino 2026, del resto anche la pista di Innsbruck, suggerita in alternativa non è idonea allo svolgimento delle olimpiadi, come nessuna altra pista presente nell’arco alpino.  Per questo nell’incontro del 1 dicembre scorso tra gli ambientalisti veneti e il presidente della Regione quest’ultimo ha ribadito che l’impianto verrà realizzato (con abbattimento della struttura vincolata) e con questa comunicazione ha troncato il confronto con gli ambientalisti. Quindi ad onta dei vincoli ambientali, della progressiva e devastante trasformazione di Cortina in un parco giochi (definizione di una esponente locale di Italia Nostra), con la conseguente esplosione del valore degli immobili, tali da renderli inaccessibili agli abitanti, della crisi economica, dei costi energetici, dell’impatto su un territorio geomorfologicamente fragile, la pista da oltre cento milioni di euro si farà.

Ma la pista da Bob non è il solo bene vincolato che è a rischio nel comprensorio ampezzano, un altro esempio tra i molti che si possono fare: per le olimpiadi è prevista la realizzazione di un albergo (una costruzione di quarantamila metri cubi) presso il passo di Giau, un valico che si trova a oltre 2200 metri sul livello del mare. Proprio sul passo si è svolta il cinque giugno scorso l’unica manifestazione realizzata a livello nazionale contro le opere previste dalle olimpiadi, di ottimo successo, come grande successo ha avuto la raccolta di firme contro la pista da Bob a Cortina. A tutto questo il presidente Zaia ha risposto alle critiche affermando che lui rappresenta il 77% dei veneti, e tanto deve bastare.

La situazione in Lombardia non è molto diversa, con deliberazione 3531 del 5 agosto 2020 è stato previsto e finanziato un elenco di opere connesse alle olimpiadi, contenute all’interno di un “programma degli interventi per la ripresa economica”. La presenza di opere olimpiche in detto programma esplicita la verità di quanto abbiamo sostenuto per questo evento olimpico, come per altre opere grandi e piccole per cui sono stati spesi soldi pubblici con danno per l’ambiente e i cittadini, ovvero che non si fanno le opere per le olimpiadi, ma sono le olimpiadi che danno ragione per spendere soldi pubblici per immaginare opere quasi mai utili e spesso neppure completate.

All’interno del capitolo olimpiadi del programma sono previste soprattutto opere viarie, a ulteriore dimostrazione che il sistema “sostenibile” di collegamenti previsto nella candidatura olimpico è perlomeno opinabile. Tra queste opere vi è anche la pietra dello scandalo delle olimpiadi per le opere lombarde propedeutiche alle olimpiadi: la “tangenzialina” di Bormio. La strada di cui non si sentiva in verità particolare bisogno e che ha sollevato una fiera opposizione prevede un esborso di cinque milioni per un chilometro di strada che non porta da nessuna parte e non risolve i problemi del traffico di quella città, tutti concentrati nei finesettimana invernali e legati al turismo sciistico. È appena il caso di dire che l’opera comprometterà uno dei pochi lembi del fondovalle non ancora antropizzati, sacrificando la piana agricola delle Alute, lo scorcio paesaggisticamente più bello di Bormio

Sempre a Bormio la pista sciistica verrà ampliata nelle infrastrutture necessarie per permettere le sofisticate riprese televisive, il che porterà al sacrificio di un ettaro di foresta.   Anche la parte centrale della valle, sebbene non interessata dalle gare, paga un prezzo ambientale e di qualità della vita alle olimpiadi. La tangenziale di Sondrio sarà realizzata sul territorio del Comune di Montagna in Valtellina, tagliando i collegamenti all’interno di quel Comune per finire a bloccarsi davanti al passaggio a livello al termine del paese.

Milano è stata la promotrice dei giochi ed in qualche modo l’origine di tutti gli impatti che le olimpiadi stanno creando sul territorio di due Regioni e due Province autonome.  Della particolare capacità attrattiva che negli ultimi quindici anni Milano ha rappresentato si è parlato ancora in passato, vale spolverare un vecchio numero de L’Espresso (n. 25 del 16 giugno 2019 – titolo: “Caccia grossa a Milano”) nell’articolo si rileva, tra l’altro, che il 60% degli investimenti immobiliari esteri sono effettuati sulla sola città di Milano.  Il dato non è indifferente per l’argomento in questione: è immediato comprendere che iniziative come l’expo e le olimpiadi hanno l’effetto di mantenere e incrementare l’afflusso di denaro.  Anche la localizzazione degli impianti previsti a Milano (villaggio olimpico sull’ex scalo ferroviario, palazzetto dello sport di Santa Giulia), è interessante: Santa Giulia e le zone limitrofe, vicine all’importante snodo ferroviario di Rogoredo sono da tempo all’attenzione degli investitori, anche dopo il fallimento dell’edificazione del quartiere omonimo e lo scandolo del ritrovamento di rifiuti pericolosi interrati nelle fondamenta del quartiere.

Le conseguenze sociali delle trasformazioni urbanistiche provocate dai grandi eventi, che sono indicate nel linguaggio degli urbanisti come gentrificazione (brutto termine mutuato dall’inglese) sono meritevoli di interesse, per approfondire questo argomento ed altri legati alle olimpiadi è utile vedersi la registrazione del convegno organizzato lo scorso 19  novembre dall’Associazione off topic  dall’efficace titolo “giochi pericolosi” (https://www.facebook.com/watch/live/?ref=search&v=522084509784051, la registrazione parte dal 32’ ed ha una lunga interruzione per la pausa).

Le questioni poste dalle olimpiadi Milano Cortina 2026 sono dunque molto complesse e si esprimono diversamente nei vari ambiti interessati, è comunque importante ravvisare un comune denominatore nella necessità di forzare il mercato attraverso una potente iniezione di denari pubblico, lo scorso novembre a Milano si è parlato già di 4,5 miliardi, ma a questi dobbiamo aggiungere i quasi 500 milioni previsti dalla finanziaria in discussione, siamo solo all’inizio molti altri se ne aggiungeranno. Non dovremmo esserne sorpresi, una volta i soldi pubblici servivano per fare infrastrutture utili a nuove fabbriche, oggi di fabbriche ce ne sono pochine, qui, i soldi creati dal sistema finanziario e dal sistema dei beni voluttuari (es moda) vanno soprattutto per favorire investimenti immobiliari, cioè in consumo di suolo (anche in questo la Lombardia e il Veneto hanno un non lusinghiero primato), diretto, sulle aree appetite, indiretto cioè indotto dall’espulsione dei ceti medio bassi dai quartieri periurbani oggetto di “valorizzazione”.  Anche le infrastrutture create in aree montane seguono la stessa logica,: dietro al velo pietoso di aiutore lo sviluppo delle aree montane le si rende più pervie al turismo (invernale), alla colonizzazione da paerte della metropoli.

Quanto sopra da senso alle grandi difficoltà che il tavolo ambientalista di confronto sulle olimpiadi si è trovato ad affrontare. Finora non abbiamo ottenuto nulla, se non forse esplicitare il comune disinteresse di tutti gli attori istituzionali (Fondazione Milano Cortina, governo, CIO) ad affrontare coerentemente la sfida della sostenibilità dei giochi, ma certo non abbiamo (chi scrive a partecipato al tavolo in rappresentanza di Pro Natura) dato prova di coesione e incisività; la stessa scarsa compattezza che su molti temi (non su tutti, per fortuna) il movimento ambientalista dimostra troppo spesso. Ma la mancanza di confronto e di schiettezza ci presenta continuamente il conto e forse proprio a partire dalle olimpiadi si deve iniziare a discutere profondamente, anche alla luce dell’esperienza di Torino 2006, dentro la quale la Federazione ha giocato un ruolo primario.

In conclusione per dare il quadro del livello di interlocuzione che abbiamo avuto con la Fondazione Milano Cortina riferiamo dell’ultimo incontro con la stessa, lo scorso 3 ottobre presso la sede della Fondazione in un luogo simbolico: piazza Tre Torri a Milano, in uno dei grattaceli.  L’incontro ha avuto come tema le piste a innevamento artificiale, argomento cruciale, perché come tutti sanno da queste parti di neve non ce n’è più d’inverno in montagna, o non ce n’è abbastanza per soddisfare le pulsioni sciistiche degli abitanti della pianura, quindi bisogna spararla con i cannoni, sperando che la temperatura permetta di mantenerla sciabile … In un contesto climatico sempre più orientato al riscaldamento (e ormai rassegnati a perdere, gli ultimi ghiacciai delle alpi), il rischio di rimanere senza neve non può essere considerato immaginabile dagli organizzatori di cotanto evento, che ci hanno rifilato le assicurazioni dei produttori di impianti di neve finta circa l’elevata efficienza energetica e idrologica dei loro impianti. È stato abbastanza semplice far notare che l’approccio tecnologico su questo tema è sterile e inutile, che nessuna delle mirabolanti soluzioni proposte poteva rispondeva alla critica fondamentale: perché fare olimpiadi sulla neve se non c’è la neve? Che nessun dato era fornito sull’impatto previsto dai loro efficientissimi e potentissimi impianti sull’ecosistema montano, acqua, suolo, componenti biotiche. L’opzione zero per loro non può esistere (come dimostra il commissariamento delle opere connesse alle olimpiadi), da parte nostra non possiamo che concludere il confronto con noi ha avuto significato solo per essere comunicato e non per l’esito che il confronto stesso può aver prodotto.

Le previste olimpiadi Milano Cortina hanno già prodotto a quattro anni dall’avvio la pubblicazione di alcune interessanti riflessioni critiche. Segnaliamo tre libri:

  • La bolla olimpica Illusioni, speculazioni e interessi dietro ai cinque cerchi. A cura di Silvio La Corte, edizioni Nimesis.
  • Ombre sulla neve Milano-Cortina 2026. Il "libro bianco" delle Olimpiadi invernali. Di Luigi Casanova, edizioni Altraeconomia.
  • Cortina 2020 - 2040, storia di una comunità al tramonto? Di Raffaello e Stefano Lorenzi, La pubblicazione dello studio è stata sostenuta da: le Regole d’Ampezzo, il Comune di Cortina d’Ampezzo, Cortinabanca, la Cooperativa di Cortina, il Comitato Civico e la Union de i Ladis de Anpezo.
Fig. 1

Ri-connessione ecologica - idraulica delle unità morfologiche fluviali laterali

Andrea Dignani, geologo, Geo Studio Dignani Jesiwww.geostudiodignani.it

Dopo ogni evento alluvionale, una forte erosione in un fosso, sorge spontanea la richiesta di “laminare le piene a monte”, “ridare spazio al fiume”, giuste e ragionevoli richieste, purtroppo concetti che normalmente rimangono nella idea astratta della buona gestione del fiume o che al più trovano sporadiche e soggettive interpretazioni progettuali non sistematiche.

Interpretando la definizione dell’ingegneria idraulica (Wikipedia), “l'effetto di laminazione delle portate di piena consiste nel progressivo abbassamento del colmo di piena, per un alveo fluviale, man mano che il fenomeno prosegue da monte verso valle”, il fiume che viene rappresentato diminuisce le portate di picco andando verso valle, laminando lateralmente rispetto all’alveo le portate. Dal punto di vista del rischio idraulico l’approccio che si è affermato negli ultimi due secoli è esclusivamente basato sulla realizzazione di opere di difesa idraulica, progettate nell’ottica di contenere le piene entro stretti argini, rigide sponde, e allontanare l’acqua il più in fretta possibile, ritendo così di mettere “in sicurezza” il territorio. Nella moderna consapevolezza scientifica tale approccio progettuale altera pesantemente i processi e le dinamiche fluviali a medio e lungo termine, con conseguenze spesso imprevedibili e negative soprattutto in termini di rischio e dissesto. Inoltre esistono ripercussioni molto negative in termini ambientali e di disponibilità di risorsa idrica. L’acqua viene di fatto considerata come un problema da scaricare a valle, verso il mare, il più in fretta possibile; al contrario, l’acqua oggi rappresenta una preziosa risorsa, in considerazione degli attuali cambiamenti climatici, da accumulare nel “serbatoio” naturale offerto dal sistema dei corpi idrici superficiali (il suolo) e sotterranei (gli acquiferi). Ad analizzare bene il principio di favorire il deflusso verso valle per mezzo delle pratiche di arginare, canalizzare, rimuovere le condizioni di attrito sulle sponde (togliere la vegetazione, sistemare con gabbionate, realizzare una perfetta sezione di deflusso a trapezio rovesciato), le portate di picco, con il contributo degli affluenti, di fatto aumentano da monte verso valle. Di conseguenza, la vera soluzione progettuale per diminuire il rischio idraulico è quella di “laminare le piene”, diversamente dell’azione puntuale della cassa di espansione, in modo diffuso e continuo, con una costante riduzione del rischio verso valle.

Le Aree di Laminazione

La progettazione per la laminazione delle piene si basa sulla connessione laterale tra le unità morfologiche, in modo da soddisfare contemporaneamente le funzionalità ecologica, le dinamiche fluviali e le esigenze idrauliche, in un quadro sostenibile di gestione territoriale in funzione dalle caratteristiche del territorio circostante.

Le unità morfologiche-ecologiche di riferimento della progettazione sono quindi: il canale, le barre attive, la fascia di vegetazione spondale, la piana inondabile, (Fig.1).

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Oro blu

Sofia Filippetti (Laureata in Biologia dell’Ambiente, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Torino)

Due atomi di idrogeno, un atomo di ossigeno, legami polari, molecole connesse tra di loro: la base della vita: l’acqua.

Mare, fiumi, laghi, l’acqua che beviamo, con cui ci laviamo, con cui cuciniamo, l’acqua con cui irrighiamo i campi, l’acqua nella quale navighiamo, che usiamo come fonte di energia, che scorre nelle piante, che ci culla nel liquido amniotico nel grembo materno, che conteniamo dentro il nostro corpo (dal minimo di 55-60% dell’anziano al massimo del 90% del neonato…), che piove giù dal cielo. L’acqua che riempie la Terra per il 71%, l’acqua che è habitat, che è alla base del funzionamento ecosistemico, dei cicli biogeochimici senza i quali ci esauriremmo. Origine dell’esistenza, di ogni esistenza da noi conosciuta, la sua importanza è talmente cristallina che sin dall’antichità è stata considerata simbolo e tramite della purificazione del corpo e dello spirito.

Necessaria, indispensabile, essenziale, da sempre l’acqua è stata utilizzata per i più disparati scopi umani: l’alimentazione, l’igiene, per domare il fuoco, per il giardinaggio, usi ricreativi, ragioni religiose, usi agricoli, motivi industriali, in veste di fonte energetica, come solvente e reagente, per riscaldare e raffreddare. A raccontarla così, a far riferimento a quel fantomatico 71% che riempie la Terra, però, pare che il nostro pianeta disponga di una fonte pressoché inestinguibile di questo oro blu: niente di più distante dalla realtà. Tanto per cominciare, conditio sine qua non per questi “più disparati scopi umani” è il trattamento, ché l’acqua ha le sue proprietà e caratteristiche intrinseche, e in base agli impieghi cui si vuole destinare deve essere trattata, come addomesticata (altresì riconosciuta in veste dell’importante concetto di “water safety”). E poi, come ogni elemento integrante della Natura, l’acqua non è inesauribile, non è influenzata dai nostri ordini, ma lo è certamente dalle nostre azioni: quando la domanda supera l’offerta, quando inquiniamo l’ambiente in cui ci troviamo, quando non abbiamo cura della salute della Terra.

Alla fine, si approda sempre lì, nella grande problematica (e colpa) del nostro secolo: il cambiamento climatico.

Il report IPCC 2022 (The Intergovernmental Panel on Climate Change) mette nero su bianco la gravità della situazione, affrontandola da tutte le sue angolazioni e approfondendo in un capitolo apposito anche la risorsa acqua. Il cambiamento climatico, di cui l’uomo è innegabile parte responsabile con le sue azioni, è strettamente connesso ad un incremento delle temperature, le quali definiscono una alterazione nei pattern di precipitazione dell’acqua, causando una maggiore frequenza di alluvioni e allagamenti, di eventi estremi, oltre ad una variazione della portata dei fiumi ed un innalzamento della quota neve. In sostanza: cambiano gli impatti sul paesaggio, sugli habitat, sulla vita. Sulla vita di tutti: delle piante, degli animali, degli uomini, perfetto esempio della necessità dell’approccio One Health.

L’acqua, infatti, è alla base di ogni esistenza, la connette, la collega, è il canovaccio su cui si sviluppa ogni essere, e un suo disequilibrio ha una ricaduta importante a più livelli. L’alterazione del ciclo idrologico, volendo essere antropocentrici, va ad impattare anche la cosiddetta “water security”, vale a dire “la capacità di una popolazione di garantirsi l’accesso sostenibile a risorse idriche che siano adeguate, sia in termini di quantità che di qualità, per garantire la vita umana, lo sviluppo socio-economico, la protezione dell’ambiente e delle specie animali e vegetali, nonché per prevenire disastri idrici e preservare gli ecosistemi in un clima di pace e stabilità politica”. E non si tratta di una situazione ipotetica, di qualcosa che potrebbe succedere: è qualcosa che sta già accadendo. Nel mondo, come riportano l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNICEF con i dati del 2021, una persona su quattro non ha l’accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro. Vale a dire che una persona su quattro non ha la possibilità di usufruire di quel bene inestimabile e che è risaputo essere fondamentale per la salute, la dignità e il benessere. Un dato pazzesco, se si considera che nel 2010 (solo nel 2010!) il diritto all’acqua potabile è stato riconosciuto per la prima volta come diritto internazionale vincolante dalle Nazioni Unite. Viene da sé, allora, che l’emergenza acqua deve essere urgentemente risolta con tutte le forze di cui disponiamo, motivo per cui compare nella “Agenda 2030” in veste di “Obiettivo 6”: garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie. E qui, comunque, parliamo ancora solo del nostro punto di vista, estremamente egoista. Ma è tutto inevitabilmente connesso. Secondo gli studiosi, infatti, il cambiamento climatico e l’acqua hanno un legame indistricabile, che si traduce in svariate e molteplici sfaccettature. Le ricadute negative di questo disquilibrio, di questo legame, le stiamo già sperimentando sulla nostra pelle. Siccità (ci basti pensare alle impressionanti fotografie del letto del fiume Po di qualche tempo fa), innalzamento dei livelli del mare, scioglimento dei ghiacciai, piogge improvvise e torrenziali. Piogge talmente tanto violente e abbondanti, che arrivano con talmente tanta forza e talmente tanta intensità da non permettere alle piante e al terreno di farne uso, con un conseguente deflusso eccessivo, che diventa veicolo di contaminanti, i quali arrivano nei fiumi, nei laghi, nei mari, ad inquinarli, a squilibrarli (con l’eutrofizzazione), ad avvelenare il plancton e poi i pesci che alla fine arrivano a noi. Sembra un po’ “Alla fiera dell’Est” di Branduardi, ma è esattamente così (e in maniera ancor più complessa) che stanno le cose.

La tragica frana di pochissimi giorni fa ad Ischia, che ha seguito solo di poco più di due mesi la gravissima alluvione nelle Marche, evidenzia ancora una volta l’urgenza di prendersi cura del nostro ambiente sotto tutti i punti di vista.

Forse è sconfortante, forse ci sentiamo schiacciati, soverchiati dalla portata di queste preoccupazioni, ma non dobbiamo dimenticare che se siamo parte del problema, allora siamo anche parte della soluzione. La scienza, che si basa sul contributo instancabile di esseri umani, ci sta insegnando come prendere atto della realtà (ad esempio attraverso il calcolo dell’impronta idrica), ci sta indicando, aiutando e portando mano nella mano verso la soluzione: il rispetto dell’ambiente, l’economia circolare, l’integrazione dei servizi ecosistemici nella nostra amministrazione, l’utilizzo delle acque reflue (che non sono più rifiuto, ma risorsa), i piccoli gesti che possiamo compiere ogni giorno nel nostro piccolo, nel nostro quotidiano. Tutto è necessario, tutto è indispensabile per tutelare e risparmiare l’oro blu della Terra: siamo noi il salvadanaio.

 

Riferimenti

Completamento autostrada A33 Asti-Cuneo: l’eterna incompiuta che rischia di terminare malamente

Cesare Cuniberto (Per conto del Direttivo dell’Osservatorio per la Tutela del Paesaggio di Langhe e Roero

L’autostrada A33, tra Asti e Cuneo, un’opera sbagliata per l’errata valutazione del traffico previsto, progettata diversi decenni fa, ha ripreso da un anno e mezzo i lavori per il completamento di parte dei 9 chilometri mancanti, ma continua a destare forti preoccupazioni a causa delle conseguenze ambientali che la seconda parte potrebbe generare per i poco più di quattro chilometri che da Verduno si collegheranno al moncone di Cherasco.

L’autostrada A33, tra Asti e Cuneo, un’opera sbagliata per l’errata valutazione del traffico previsto, progettata diversi decenni fa, ha ripreso da un anno e mezzo i lavori per il completamento di parte dei 9 chilometri mancanti, ma continua a destare forti preoccupazioni a causa delle conseguenze ambientali che la seconda parte potrebbe generare per i poco più di quattro chilometri che da Verduno si collegheranno al moncone di Cherasco. 

Siamo nelle Langhe, uno dei territori riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità per il suo valore storico e paesaggistico. Cherasco, il paese dove l’autostrada si interrompe bruscamente, dista meno di dieci chilometri in linea d’aria da La Morra, Novello, Barolo e Monforte d’Alba, tra i paesi più belli e noti della zona, caratterizzata da castelli, colline, vigneti e nota in tutto il mondo per la produzione di vini come il Barolo ed il Nebbiolo.                                                                                   

Nel 2016, il Ministero acconsentì di rivedere il progetto finanziandone uno preliminare “in esterno” con viadotti al posto del tunnel, previsto sotto le colline di Verduno, ma ritenuto per quei tempi troppo costoso.

Il progetto in galleria, che era già approvato ed immediatamente cantierabile, ottenne il decreto di validità ambientale il 28.10.2011 dal Ministero dell’Ambiente che in data 09.02.2015 ribadì la bontà della soluzione, mentre il percorso del medesimo in esterno, per il quale opta il Concessionario, deve ancora ottenere tutte le autorizzazioni: VIA, VAS, AiPO, PAI, DNSH (Comm. Europea - 12.2.21 - C 1054, “Orientamenti tecnici sull’applicazione del principio di “non arrecare danno significativo”).

L’Osservatorio per la Tutela del Paesaggio di Langhe e Roero negli ultimi anni ha seguito da vicino il progetto di completamento della A33. L’Osservatorio è favorevole alla conclusione dell’autostrada ma a condizione che venga mantenuto il tracciato originale con il tunnel sotto le colline di Verduno, che venga assicurata la gratuità della tratta Castagnito-Cherasco, già oggi in larga parte gratuità in quanto sfrutta l’attuale tangenziale di Alba e che vengano adottate le necessarie misure di mitigazione in termini di tutela del paesaggio, rumore ed inquinamento. 

Ci preme ricordare che la galleria rappresenta la migliore garanzia anche in termini di sicurezza dal punto di vista idro-geologico (è il vero motivo per cui si era optato per la soluzione in sotterraneo) e della difesa del paesaggio.

Le risultanze della campagna su un considerevole numero di sondaggi, svolta sul versante della Collina di Verduno, hanno evidenziato come le problematiche di carattere geologico – geotecnico sono invasive dal punto di vista territoriale e che il versante in oggetto è sede di una paleofrana, in condizioni di stabilità quiescente.

Il percorso del completamento dell'AT-CN si trova in un territorio definito “buffer zone UNESCO” e “buffer zone Residenze Sabaude-Complesso Carloalbertino di Pollenzo”. Nelle vicinanze del luogo ove sono previsti gli impalcati, del tracciato in esterno, vi è il complesso monumentale e territoriale di Pollenzo.

Non vogliamo dover subire un danno irreversibile alla bellezza dei luoghi interessati, non solo per gli ettari sottratti all’agricoltura dal nastro di asfalto (circa 200 ha di terreni coltivabili e dediti all’allevamento di bestiame), ma anche per tutti i terreni tagliati dalla infrastruttura che, per evidenti difficoltà di accesso, sarebbero inesorabilmente destinati all’abbandono.

Ci preme inoltre segnalare che l’Osservatorio ha preso visione del documento del Ministero per la Transizione Ecologica (MiTE) recapitato il 2 Agosto 2022 al Concessionario, consistente nella Richiesta di Integrazioni allo Studio di Impatto Ambientale (SIA) presentato da quest’ultimo in merito al progetto del “nuovo tracciato in esterno” del Lotto 2.6.a Roddi-Diga Enel.

Il documento è, a giudizio dell’Osservatorio, un documento importante, redatto con cura, in alcuni punti di grande dettaglio, che accoglie le più importanti Osservazioni giunte al MiTE, nello scorso dicembre, da parte degli Enti e dei soggetti interessati all’opera, in primis la Regione Piemonte, i cui funzionari hanno avanzato Prescrizioni e Raccomandazioni di grande interesse, nonché dello scrivente Osservatorio.

È stato di nostra grande soddisfazione vedere accolta la richiesta di uno studio comparativo delle “alternative progettuali alle opere prese in esame” (quella in esterno, a confronto con il tunnel). Come pure, ad esempio, la prescrizione di identificare gli accorgimenti per non pregiudicare le possibilità di fruizione “lenta” del territorio (piste ciclo-pedonali) ovvero per garantire un alto livello qualitativo dei manufatti ed il loro miglior inserimento paesaggistico. Speriamo che il Politecnico di Torino che sta effettuando lo studio, dia la giusta dignità e peso a tutti gli elementi che permetteranno di addivenire alla definitiva scelta della linea esecutiva.

Continueremo a fare ogni possibile sforzo affinché l’autostrada sia completata al più presto, ma nel rispetto del territorio prezioso in cui viviamo.

I diritti calpestati del suolo

Alessandro Mortarino, coordinatore nazionale del Forum Salviamo il Paesaggio

Spesso sono pervaso dalla netta sensazione che il suolo sia percepito come un semplice spazio: uno spazio da occupare. Sia, cioè, riconosciuto non per ciò che è ma per ciò che vorremmo fosse, relegando all'oblio il valore “vero” di questo elemento, in realtà prioritario ed essenziale per l'uomo e per la sua sopravvivenza.

Se anziché un semplice spazio da occupare lo considerassimo, innanzitutto, per la sua indispensabile utilità, oso immaginare che la sua piena tutela raccoglierebbe quell'attenzione oggi ancora negatagli e la sua compromissione (ogni centimetro di cemento, asfalto, materiale impermeabilizzante) raggiungerebbe un grado di sacralità da anteporre ad ogni occasione edificante. Provocando la domanda preventiva: è davvero così indispensabile condannare la “terra” alla perdita della sua naturalità, fertilità, godimento paesaggistico? Potremmo farne a meno?

Domande che oggi fatichiamo ad esprimere e, quando lo facciamo, risultano puntualmente successive ad un'azione che già ha aggredito la delicata vitalità del suolo, la pelle viva del pianeta Terra. Una pellicola fragile.

Nel suolo vivono miliardi di creature viventi, un quarto della biodiversità di tutto il pianeta. I soli microrganismi possono essere oltre un miliardo in un solo grammo di suolo, ma nello stesso grammo si possono contare oltre 10.000 specie diverse. Tutti questi organismi viventi sono fondamentali per la genesi e la fertilità dei suoli e contribuiscono al suo armonico sviluppo che richiede tempi lunghissimi: stiamo quindi parlando di una risorsa finita non rinnovabile e per questo preziosa almeno al pari dell’acqua, dell’aria e del sole.

Se volessimo riportare un terreno compromesso (asportando il cemento o asfalto che lo ricopre per l’intervento dell’uomo) alla sua “naturalità”, quanti anni dovremmo attendere?

Non anni, ma secoli: per formare 1 cm di suolo occorrono infatti dai 3 ai 4 secoli. E circa 3 mila anni per raggiungere uno spessore utile ai fini agricoli. Tempi di rigenerazione che dovrebbero farci riflettere e che non dovrebbero lasciare dubbi per decidere di avviare un processo di vera salvaguardia dei suoli naturali ancora esistenti.

La posta in gioco è davvero elevata e l'esponenziale consumo di suolo che ha caratterizzato gli ultimi 50 anni del nostro sviluppo non corrisponde neppure ad autentiche esigenze abitative: secondo l'Istat nel nostro Paese sono infatti presenti oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi definitivamente chiusi, 55 mila immobili confiscati alle mafie. “Vuoti a perdere” che snaturano il paesaggio e le comunità a contorno, a fronte di un andamento demografico che vede la popolazione residente nel nostro Paese in riduzione costante dal 2014.

Dunque non dovrebbe essere giustificato continuare a trasformare “allegramente” le terre libere in colate di cemento e asfalto, che ricoprono ormai 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400 - una superficie grande quanto la Liguria - riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato. Un consumo di suolo che risulta pari al 7,11% del territorio nazionale, rispetto alla media UE del 4,2%.

Ma non dimentichiamoci che la superficie dell'Italia è per circa il 35% di carattere montuoso, dove non è possibile edificare. Dunque la cementificazione ha eroso le aree di pianura, che rappresentano il 25% dell’intera superficie del nostro Paese e un'ampia parte di quel restante 40% di superficie fatto di colline sotto gli 800 metri. Luoghi ormai caratterizzati dai cartelli “vendesi” o “affittasi”...

Secondo l'ultimo Rapporto ISPRA, nel 2021 il consumo di suolo è tornato a crescere alla media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, a una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, sfiorando i 70 km2 di nuove coperture artificiali in un solo anno.

Il rapporto ISPRA evidenzia anche quanto ci costa questo sproporzionato consumo di suolo in termini sociali. Le conseguenze sono anche economiche e i “costi nascosti”, dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire a causa della crescente impermeabilizzazione e artificializzazione degli ultimi otto anni, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno (che vanno ad aggiungersi ai costi fissi accumulati negli anni precedenti). Valori che sono attesi in aumento nell’immediato futuro e che potrebbero erodere in maniera significativa le risorse disponibili anche in base alle previsioni del programma Next Generation EU. Si può stimare, infatti, che se fosse confermato il trend attuale e, quindi, la crescita dei valori economici dei servizi ecosistemici persi, il costo cumulato complessivo, tra il 2012 e il 2030, arriverebbe quasi a 100 miliardi di euro, praticamente la metà dell’intero PNRR.

ISPRA stima un costo annuale medio per la perdita dei servizi ecosistemici (stoccaggio e sequestro di carbonio, qualità degli habitat, produzione agricola, produzione di legname, impollinazione, regolazione del microclima, rimozione di particolato e ozono, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, disponibilità di acqua, purificazione dell’acqua) compreso tra 66.000 e 81.000€ a ettaro, per il flusso di servizio che il suolo non sarà più in grado di assicurare e tra 23.000 e 28.000€ a ettaro, per lo stock di risorsa perduta. Complessivamente, quindi, tra 89.000 e 109.000€ l’anno per ciascun ettaro di terreno libero che viene impermeabilizzato.

Il consumo di suolo costa davvero tanto alle nostre comunità! E non solo sotto il profilo “ambientale”, ma anche sotto quello finanziario.

Il suolo è spesso considerato esclusivamente per le sue funzioni legate alle produzioni di alimenti, poiché ogni ettaro di terreno fertile, se coltivato, risulta in grado di sfamare 6 persone per un anno: stiamo parlando, in piccolo, di “sovranità alimentare”.

Il Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali ci ricorda che il nostro Paese è in grado, oggi, di produrre appena l’80-85% del proprio fabbisogno primario alimentare, contro il 92% del 1991. Significa che se, improvvisamente, non avessimo più la possibilità di importare cibo dall’estero, ben 20 italiani su 100 rimarrebbero a digiuno e che quindi, a causa della perdita di suoli fertili, il nostro Paese oggi non è in grado di garantire ai propri cittadini la sovranità alimentare. Termine che, non a caso, è ora entrato a far parte della stessa denominazione del Ministero.

Ma il suolo è anche un elemento fondamentale per contrastare la crisi climatica: ogni ettaro di terreno fertile assorbe circa 90 tonnellate di carbonio ed è in grado di drenare 3.750.000 litri d’acqua: in questo particolare momento, a fronte di precipitazioni atmosferiche di portata sempre maggiori e di lunghi periodi siccitosi, il nostro suolo, oltre a drenare l’acqua piovana (contribuendo a contenere gli effetti di possibili inondazioni e alluvioni), ne conserva quanto basta per alimentare ciò che in esso vive e si sviluppa.

Credo che questi semplici dati (ne potremmo citare molti altri...) dovrebbero farci riflettere e iniziare a considerare il suolo e la sua salvaguardia come prima preoccupazione quotidiana. Invece assistiamo a puntuali “balletti” - guidati dalle decisioni politiche - che mirano a minimizzare e procrastinare un piano serio di tutela dei suoli liberi. Balbettii che negli ultimi anni – vissuti tra crisi pandemiche e venti di guerra - si sono moltiplicati, rendendo evidente come gli aspetti economici abbiano ormai egemonizzato il pensiero, relegando le questioni ambientali a un ruolo subalterno: se una “cosa” non produce PIL, può essere sacrificata...

Nel nostro caso, il consumo di suolo continua ad essere vissuto come un male accettabile. Come dimostra il caso della produzione di energia da fonti rinnovabili. La guerra tra Russia e Ucraina e la crisi energetica che ha toccato tutte le economie occidentali hanno reso urgente, in maniera drammatica, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e indotto gli Stati ad accelerare lo sviluppo del settore delle energie “pulite” ricavate dal sole, dal vento, dall'acqua, dal mare. Mi verrebbe da dire: finalmente realizzati i sogni di tutto il pensiero ambientalista!

C'è, però, un “però”... E so di addentrarmi in un territorio minato, abitato da tanti dubbi e mille contrapposizioni, anche sul fronte dell' “ambientalismo” militante. La logica ricorrente è, infatti, quella di ritenere che l'obiettivo principale è slegarsi dalle fonti fossili e di farlo in fretta. Questo sta significando favorire lo sviluppo di impianti fotovoltaici a terra (privilegiando le grandi superfici e, dunque, i terreni naturali e fertili), di “parchi” eolici lungo i crinali, di centrali idroelettriche lungo i corsi d'acqua. E' la scelta giusta? Ed è un sacrificio che possiamo permetterci anche se queste scelte concorrono a danneggiare altri elementi primari come il suolo?

L’applicazione del Pnrr-Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) prevede di  mettere “a terra” in meno di sei anni circa 15 GigaWatt (12 dal Piano con l’opzione “Power-up” e tre con misure ad hoc). Per questi soli 15 GigaWatt di solare potrebbero essere necessari tra i 10 e i 18mila ettari di suolo (agricolo) e complessivamente è stimabile un aumento del 50% del consumo di suolo annuale. Un rischio grave di ritrovarci con ancor meno suolo fertile a disposizione e meno paesaggi per “cibare” le nostre anime.

Se fossimo così avveduti da applicare anche a questo tema il principio "Do No Significant Harm" (DNSH) previsto dall'UE per il finanziamento degli interventi individuati dai PNRR nazionali, non dovrebbero esserci dubbi nell'evitare che la "caccia" alle energie pulite possa creare danni a una risorsa primaria come il suolo. Il principio chiede che non si arrechi nessun danno significativo ad alcuno di diversi obiettivi ambientali, compresa la biodiversità.

Il tema è, però, controverso. Ad esempio: in molti sostengono che il cosiddetto “agrivoltaico”  possa rappresentare una risposta corretta alla necessità di produrre energia rinnovabile tramite pannelli solari senza sottrarre terreni produttivi all’agricoltura e all’allevamento, ma bensì andando ad integrare le due attività. Energia, insomma, senza danneggiare le attività agricole.

Gli stessi equiparano, anche, la bellezza paesaggistica dei parchi eolici italiani con gli acquedotti dei romani o le cattedrali del Rinascimento, fino a dire che "le pale eoliche e le ferrovie ad alta velocità sono le nostre moderne cattedrali...".

Ma è così, davvero? Abbiamo necessità di mantenere e addirittura accrescere la disponibilità di energia oppure dovremmo innanzitutto pianificare una drastica azione di riduzione degli sprechi? E se, invece di intaccare suoli liberi e crinali e fiumi, ci impegnassimo a piazzare nuovi impianti su superfici già antropizzate/impermeabilizzate, quanta energia potremmo ricavare senza danneggiare altri elementi naturali primari?

Poche settimane fa due notizie importanti ci fanno sperare in una diversa attenzione ai diritti del suolo. A livello continentale il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico (provvisorio, in attesa di piena adozione) sull’aumento del contributo che il settore dell’uso del suolo, del cambiamento di uso del suolo e della silvicoltura (LULUCF-Land use, land-use change, and forestry) ) dovrà offrire agli obiettivi dell’UE in materia di clima.

Che cosa significa? Che, finalmente, la politica europea riconosce l'enorme ruolo ecosistemico del suolo e lo collega strettamente al contrasto del cambiamento climatico. Il suolo assume una prioritaria identità di “attore” strategico per il raggiungimento del “Fit-for-55”, cioè l’obiettivo che l’Unione Europea si è posto per raggiungere nel 2030 la riduzione delle emissioni di gas serra, pari al 55% rispetto all’anno 1990.

Per traguardare questo obiettivo, anche il suolo dovrà (e potrà) fare la sua parte. E l'accordo tra gli Stati europei la regola definendo un obiettivo generale a livello UE di 310 milioni di tonnellate di CO2 equivalente di assorbimenti netti solo grazie ai settori di competenza dell’accordo. Il settore LULUCF comprende l’uso di terreni, alberi, piante, biomassa e legname ed è responsabile sia dell’emissione che dell’assorbimento di CO2 dall’atmosfera. L’obiettivo è aumentare progressivamente gli assorbimenti e ridurre le emissioni in modo da raggiungere l’obiettivo a livello dell’UE, impegnando ogni Stato membro a perseguire un obiettivo nazionale vincolante assegnatogli, da conseguire entro il 2030. Potremmo definirlo un preciso “patto contrattuale”: ogni Stato UE conosce oggi in quale misura dovrà tutelare la primaria risorsa suolo ed è lecito credere che il suo consumo possa così tendere ai minimi termini.

In Italia, invece, è ritornata in Parlamento – alla Camera dei Deputati – la Proposta di Legge del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati“, ed è una bella notizia perché a (ri)presentarla è una eletta per il suo secondo mandato, che ha riconosciuto all'importante lavoro dell'intera Rete del Forum (oltre mille organizzazioni e decine di migliaia di aderenti individuali) non solo l'elevato valore “ambientale” ma anche la sua “forza” giuridica. La parlamentare è l’onorevole Stefania Ascari, avvocato quarantaduenne (Movimento 5 Stelle) che si è detta ben conscia delle difficoltà che la norma incontrerà sul suo cammino dopo essere stata incardinata nel 2018 in commissioni congiunte Ambiente e Agricoltura del Senato per poi essere gravemente “congelata” dalle pressioni di potenti lobbies. Che, evidentemente, ancora non hanno compreso come l'arresto del consumo di suolo e la salvaguardia del suolo italico ancora non antropizzato e compromesso, suggeriscano un pieno orizzonte di sviluppo per l’intero comparto edilizio orientato al recupero e riuso dell’ingente patrimonio esistente e non utilizzato anziché alle nuove costruzioni.

Incrociamo le dita e auguriamoci  che il suolo che abitualmente calpestiamo riesca a vedere affermati i suoi pieni diritti. Calpestati, fino ad oggi...

Una breve panoramica sul quadro normativo riguardante la gestione delle specie alloctone e considerazioni sulla conservazione dei pesci delle acque interne in Italia

Vincenzo Caputo Barucchi1, Andrea Gandolfi2, Andrea Splendiani1
1Università Politecnica delle Marche, Ancona
2Fondazione Edmund Mach, Trento

In quanto importante rifugio glaciale del Mediterraneo (1), l'Italia ospita una gamma unica di biodiversità, oggi profondamente alterata dalle pressioni antropogeniche. Circa il 30% dei vertebrati italiani è minacciato, con i pesci d'acqua dolce che raggiungono un picco del 50% (2). In particolare, le specie aliene e invasive di pesci d'acqua dolce costituiscono una grave minaccia per gli effetti diretti (per es. predazione) e indiretti (per es. competizione per le stesse risorse) su quelle native, rispetto alle quali sono diventate oggi più numerose su scala nazionale (3).

In attuazione della Direttiva Habitat della Commissione Europea del 1992 (4), l'introduzione di specie e popolazioni non autoctone è stata inizialmente consentita in Italia, previa richiesta al Ministero dell’Ambiente e conseguente autorizzazione, vincolata all’assenza di alcun pregiudizio agli habitat naturali, alla fauna e alla flora selvatiche locali (5); tale legge è stata modificata nel 2003 (6) in senso restrittivo – come peraltro contemplato nella Direttiva Habitat e demandato all’arbitrio degli Stati membri – vietando qualsiasi reintroduzione, introduzione e ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone. Nell’aprile 2020 – paradossalmente nel “super-anno della biodiversità” (7) – un Decreto ministeriale (8) ha reso attuativa, dettandone le modalità operative, una nuova modifica della legge (9): la diffusione di specie esotiche finalizzata sia al controllo biologico sia per ragioni motivate da un generico “significativo interesse pubblico" è autorizzabile e conseguentemente ammissibile. Tale nuova modifica, nata per rispondere innanzitutto alle esigenze del mondo dell’agricoltura proprio nell’ambito della lotta biologica, ha trovato un interesse e ulteriori ambiti applicativi anche da una consistente parte del comparto alieutico. La nuova legge, infatti, è stata inizialmente annunciata come una vittoria personale dal Presidente della principale Associazione italiana di pesca sportiva (10) nonché presidente della Federazione Internazionale di Pesca Sportiva in Acque Dolci (FIPSED).

Nell'ultimo decennio, prima dell’ultima modifica di legge ovvero in regime di divieto assoluto di introduzione di alloctoni in natura, centinaia di tonnellate di “trote pronto-pesca” esotiche e molti milioni di novellame di trote aliene (dei generi Salmo e Oncorhynchus) sono stati immessi annualmente dagli Enti locali nelle acque italiane, comprese le aree protette (11). La nuova modifica di legge consente l’immissione di specie di interesse alieutico solo previa autorizzazione del Ministero della Transizione Ecologica (MiTE, già Ministero dell’Ambiente) sulla base di attente valutazioni scientifiche. Inoltre, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha prodotto una lista delle specie di interesse alieutico native, su base regionale, che dovrebbe rappresentare uno strumento guida per le politiche gestionali locali (recependo la check list pubblicata dall’Associazione Italiana Ittiologi Acque Dolci) (12). Tuttavia, queste nuove disposizioni normative hanno generato, dopo l’iniziale euforia e grandi aspettative, un profondo malcontento nell’ambito delle Associazioni di pesca sportiva, sia in conseguenza dello status di alloctonia definito per alcune specie di grande interesse alieutico (ad es. trota fario atlantica e coregone), sia per l’istituzione di regole e criteri (definizione di tipologie e quantitativi ammissibili, studio del rischio, ecc.) cui nessuno era più abituato. Una costante pressione di una parte del mondo alieutico su tutti i partiti politici, pressoché di qualunque schieramento (cioè dal centro-destra al centro-sinistra), ha portato a svariate interrogazioni parlamentari, perlopiù basate su informazioni parziali e narrazioni fantasiose della realtà, fino a “congelare” la Lista dell’ISPRA: per effetto di un emendamento approvato e incluso nella Legge Finanziaria 234/2021 (art. 1 commi 835-838) (13), è stato infatti istituito presso il MiTE il ‘Nucleo di ricerca e valutazione’, composto da sei rappresentanti del MiTE, del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, di SNPA/ISPRA e da sei rappresentanti delle Regioni e delle Province Autonome, per definire quali siano le specie ittiche d’acqua dolce di interesse alieutico riconosciute come autoctone per regioni o per bacini fluviali.

Infine, l’ultimo tentativo di certa politica di accontentare le richieste ‘liberiste’ di una parte del mondo alieutico è stato rappresentato da un emendamento inserito nel Decreto milleproroghe (14) nel tentativo di sospendere l’articolo e il comma (art. 12, comma 3) del DPR 357/97 che, nella forma modificata e in vigore, sanciscono i limiti all’immissione delle specie esotiche. Fortunatamente, per un maldestro errore di forma, l’emendamento ha di fatto sospeso l’applicazione del comma 1 anziché del 3, vanificando così il tentativo del legislatore di facilitare le immissioni di specie alloctone.

Nel frattempo, tuttavia, molte Regioni continuano a immettere nei corsi d’acqua italiani la trota fario alloctona (Salmo trutta), di origine centro-europea, e la trota iridea (Oncorhynchus mykiss), di origine nord-americana, previa concessione di una deroga del MiTE (15) o ignorando in toto la normativa vigente.

Negli ultimi anni, alla trota fario atlantica e alla trota iridea si sono aggiunti gli stock domestici commercializzati come “trota mediterranea”. Questi stock, considerati in alcuni contesti come la soluzione per aggirare il divieto di introduzione delle trote alloctone, rappresentano in realtà un’ulteriore gravissima minaccia, per due principali motivi. Innanzitutto, in alcuni contesti geografici le presunte trote mediterranee (Salmo cfr. ghigi) vengono introdotte in natura al di fuori del proprio naturale areale di distribuzione. Inoltre, come già descritto in alcune pubblicazioni scientifiche, questi stock commerciali sono ottenuti dall’incrocio di diverse linee genetiche, sia native in alcune regioni italiane sia alloctone, e quando vengono immessi in natura si ibridano con le popolazioni locali (ad esempio con la trota marmorata, Salmo marmoratus), con il conseguente “mescolamento” dei tratti genetici (fenomeno noto come “introgressione”). Il trasferimento di trote da una regione all’altra (transfaunazione) finisce così con l’alterare drasticamente la struttura genetica e demografica delle popolazioni naturali, frutto di millenni di evoluzione e adattamento alle condizioni ambientali locali, pregiudicandone la sopravvivenza a lungo termine. Per esempio, è stata riscontrata la presenza di genotipi endemici del versante tirrenico dell’Appennino in un allevamento presente all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, sul versante adriatico (11); mentre nella Regione alpina centro-orientale, dove la presenza nativa di trota fario mediterranea non è storicamente documentata (16), ormai da anni vengono transfaunate trote mediterranee di provenienza appenninica per scopi alieutici (17).

Infine, come evidenziato in un documento pubblicato alcuni anni or sono a cura dell’Unione Zoologica Italiana (18), il danno arrecato da queste massicce immissioni ittiche non si limita all’alterazione dell’integrità genetica della trota mediterranea nativa, ma ha un impatto sulle comunità macrobentoniche (insetti, crostacei e altri invertebrati), sulle popolazioni di anfibi e sui pesci ciprinidi (che includono alcune specie endemiche del territorio nazionale), che costituiscono le prede di elezione delle trote aliene e native, con conseguenze ecologiche irreversibili su una compagine faunistica ancora lungi dall’essere completamente conosciuta. Basti citare, in proposito, la recente scoperta nel torrente Sanguerone (affluente del fiume Sentino, nelle Marche, Fig. 1), di una popolazione relitta di sanguinerola (Phoxinus lumarieul), un ciprinide diffuso nel bacino del Po, la cui distribuzione geografica si riteneva limitata all’Italia settentrionale (Fig. 2). Come mai questo pesciolino lungo pochi centimetri è presente in una zona distante centinaia di chilometri dal suo areale noto di distribuzione (Fig. 3)?

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